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Le lingue che nessuno parlerà più

Cimbro, occitano, patois, hindi-urdu: in Italia e nel mondo, sono tante le lingue a rischio di estinzione. Ma come muore una lingua? E perché alcune sopravvivono e altre no? Un viaggio attraverso le lingue che un giorno non lontano scompariranno.
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A qualcuno sarà capitato di passare per il piccolo borgo di Luserna, in provincia di Trento, di sentire alcune persone, perlopiù anziane, pronunciare frasi come "Balda krakn di kre khint dar bint", e di arrovellarsi su quale strano tipo di tedesco si parli in quelle terre. Non è tedesco, e nemmeno una sua variante, anche se appartiene al ceppo germanico: è il cimbro, un idioma parlato anche in alcune comunità del Veneto. Tutelata dalla provincia di Trento, il cimbro è una lingua che conta sempre meno parlanti e che rischia, come molte altre lingue minori parlate sul territorio italiano e nel mondo, di scomparire. Proprio l’Italia è considerata dai linguisti e dagli studiosi uno dei Paesi europei con la maggiore diversità (e dunque ricchezza) linguistica: oltre all’italiano si contano una dozzina di lingue minoritarie parlate in tutto da 4 milioni di persone. Il sardo, il friulano, il ladino sono solo le più note: ma in Italia si parla, nelle zone di confine, anche lo sloveno, l’occitano o provenzale, il patois; esistono poi in Molise piccole comunità che parlano il croato, mentre in certe zone della Calabria si parla una variante dell’albanese e in Puglia alcuni dialetti discendono direttamente dal greco.
Guarda il trailer di "Il vento fa il suo giro", un film di Giorgio Diritti girato quasi sempre in occitano:
Lingue dominanti e lingue dominate Nel mondo si parlano circa 7000 lingue, ma non sono distribuite in modo equo tra la popolazione: il cinese mandarino, l’inglese, l’hindi-urdu, lo spagnolo e l’arabo si prendono da sole quasi la metà della popolazione mondiale. L’80% degli abitanti del pianeta parla una delle 83 lingue considerate dominanti (tra le quali, naturalmente, c’è anche l’italiano), mentre il restante 20% si divide le oltre 6900 lingue minori rimaste. Di queste, una buona metà, dicono i linguisti, è a rischio di estinzione: le lingue minori muoiono a un ritmo di 25 all’anno e, con esse, muore anche la cultura – spesso orale – che le ha partorite. Di questo passo entro il 2100 il mondo avrà perso 3500 degli idiomi che attualmente si parlano: una lingua muore quando viene assorbita da quella di una cultura più potente o quando scompare l’ultimo uomo che la parla. Nella regione andina, per esempio, c’è oltre un centinaio di lingue – come il quechua – che sta rischiando di svanire, inglobato dallo spagnolo e dal portoghese, che sono le lingue ufficiali degli Stati – quelle che si parlano a scuola, in cui sono scritti i giornali e i cartelli stradali. Sono sempre più frequenti, poi, i casi di linguaggi i cui parlanti sono pochissimi, addirittura uno solo.
 Leggi sul sito del National Geographic le storie di alcune lingue a rischio di estinzione nel mondo e in Italia.
Dove muoiono le lingue Ci sono nel mondo 5 zone considerate più a rischio di altre: l'Australia settentrionale, il Sudamerica centrale, la zona costiera nordamericana del Pacifico settentrionale, la Siberia orientale, la parte sud-occidentale degli Stati Uniti.
 Guarda le aree del mondo dove le lingue sono a rischio di estinzione (in inglese).
Qui più che altrove il rischio di perdere per sempre delle lingue è elevatissimo: le popolazioni indigene che le parlano si vanno via via assottigliando o prendono a comunicare tra loro usando la lingua dominante. Si tenga conto, poi, che buona parte di questi idiomi non ha una tradizione scritta, dunque non possiede dizionari e nemmeno testi che ne abbiano in qualche modo fissato la grammatica e il lessico. Dunque, se questi popoli davvero passeranno in tutto e per tutto a parlare l’inglese, lo spagnolo e il russo, avremo irrimediabilmente perso una grande fetta della cultura e della memoria mondiale. Sono pochissime, forse addirittura meno di dieci, le persone che, in Arizona, parlano il chemehuevi – la lingua della tribù indiana a cui appartengono; in Siberia, nella steppa russa e mongola, la comunità dei tuvani parla una lingua di origine turca che nei secoli ha dovuto lottare per sopravvivere – a volte in modo quasi clandestino – ai processi di russificazione che il regime sovietico ha tentato di imporre a tutte le popolazioni non russofone sparse per il suo enorme territorio. Oggi i tuvani sono quasi 300.000, ma il russo sta prendendo piede sempre più e la tradizione scritta di questo popolo è troppo esigua per non essere travolta. Così, per far fronte all’emergenza, i linguisti di tutto il mondo si stanno mobilitando: esiste per esempio da qualche anno un progetto dell’Università di Cambridge che mira a salvare le lingue in pericolo. Ma come si salva una lingua? Le lingue da salvare Una lingua non si salva, questa è la verità: quando gli ultimi parlanti saranno stati assorbiti dalle lingue dominanti o, semplicemente, moriranno senza lasciare eredi, le lingue minori scompariranno. Il progetto di Cambridge si chiama World Oral Literature Project e non riporterà in vita nessuna lingua: ne conserverà, però, la memoria. È così, infatti, che una lingua sopravvive: con la conservazione del suo patrimonio linguistico, lessicale e culturale. Il progetto sta raccogliendo da 5 anni ore di registrazioni audio di canti, poemi nazionali, storie della tradizione; l’obiettivo è creare un enorme archivio delle lingue in via d’estinzione, stabilirne le regole grammaticali e sintattiche in modo che, una volta estinta, di una data lingua rimanga comunque traccia. È l’unico modo, questo, che gli uomini hanno per poter preservare delle culture che altrimenti cadrebbero nel dimenticatoio con tutto il loro bagaglio di sapere. Al contrario, che ne sarebbe, per esempio, della conoscenza medica dei Kallawaya? I Kallawaya, in Bolivia, parlano spagnolo e quechua; mantengono viva, però, una terza lingua – la loro – che usano esclusivamente in ambito medico: così questo popolo conduce la vita di tutti i giorni comunicando nella lingua dominante, ma si cura – e, dunque, sopravvive – in Kallawaya.
Scopri di più sul progetto dell'Università di Cambridge per salvare le lingue in pericolo qui e qui (in inglese).
Il digital divide delle lingue La tecnologia salva, la tecnologia uccide. Non sono soltanto le lingue di piccole comunità remote a essere in pericolo, ma anche alcune lingue nazionali. Una ricerca di Meta-Net (Multilingual Europe Technology Alliance), una rete europea che coinvolge una sessantina di centri di ricerca linguistica di 34 Paesi europei, ha negli ultimi anni segnalato come a essere in pericolo, in Europa, siano anche lingue come l’islandese, il lettone, il lituano e il maltese. Non godono di buona salute nemmeno l’ungherese, il polacco, il greco e il bulgaro. Perché? Perché sono poco rappresentate a livello digitale: in sostanza, in un mondo che va sempre di più verso la digitalizzazione delle risorse, ci sono software, motori di ricerca, sistemi di traduzione automatica che ignorano del tutto o quasi alcune lingue considerate marginali. Hans Uszkoreit, coordinatore di Meta-Net, dice che «La maggior parte delle lingue europee non gode di sufficienti risorse digitali e alcune sono quasi completamente trascurate. In questo senso, molte delle nostre lingue potrebbero non sopravvivere alla prova del tempo e, in futuro, scomparire dal mondo digitale».  In pratica, il mondo della comunicazione trascura e lascia indietro alcune lingue rispetto ad altre e questo, in ottica futura, potrebbe rappresentare un serio problema per la loro sopravvivenza.
 Scopri qui che cos'è Meta-Net.
Così, nella piccola piazza di Luserna, mentre gli anziani snocciolano ancora i loro proverbi (a proposito: quello citato sopra significa «Quando gracchiano i corvi, arriva il vento»), il vento del cambiamento sta pian piano travolgendo anche lingue che hanno una forte tradizione scritta e un buon numero di parlanti. Si tratta, al momento, di qualcosa che è molto in là da venire: e tuttavia è un piccolo allarme per tutta quanta la cultura europea. Immagine in apertura: "Language" di kudumomo (via flickr)
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