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Elogio della sconfitta

Tra vittoria e sconfitta, la letteratura ha spesso preferito raccontare la seconda. Lo sconfitto offre allo scrittore riflessioni sui limiti e sulla finitezza dell'uomo. Inoltre, citando il tennista Andre Agassi, "una vittoria non è così piacevole quant’è dolorosa una sconfitta".
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L’Italia in crisi. Anche nel calcio Giovanni Arpino scrisse, nel 1977, un romanzo-cronaca della fallimentare spedizione della nazionale italiana di calcio ai mondiali tedeschi del 1974. Si intitola Azzurro tenebra ed è uno dei pochi tentativi di raccontare il nostro Paese attraverso lo sport. L’Italia gioca male, viene eliminata subito nonostante vi giochino campioni come Riva, Zoff, Facchetti, Mazzola, Rivera. È una squadra allo sbando, che non sa far fruttare il proprio talento e che, in questo, riflette un Paese che per Arpino è incapace di valorizzarsi e di guardare al futuro. Lo scrittore affida dunque questo suo pessimismo a un romanzo che sembra parlare di tutt’altro: ma il calcio, soprattutto nelle sconfitte, è sempre una buona (benché facile) metafora di un Paese.
Zanichelli propone una piccola antologia di racconti di sport: clicca qui per leggerla 
L’abisso della sconfitta Gran parte della letteratura ama gli sconfitti, i vinti; predilige gli ultimi, i secondi, oppure gli angeli caduti, i titani in crisi. Una delle possibili chiavi per comprendere questo innamoramento è contenuta in un libro recente – scritto da un ex campione di tennis: si tratta di Open, l’autobiografia di Andre Agassi, per una volta non un semplice monumento a se stessi ma un libro profondo, doloroso e bello come un romanzo. Sentite cosa scrive Agassi: «Adesso che ho vinto uno slam, so qualcosa che a pochissimi al mondo è concesso sapere. Una vittoria non è così piacevole quant’è dolorosa una sconfitta». È questo, forse, il segreto: perdere ci mette a nudo, ci costringe a fare i conti con noi stessi e ci cambia, ci modifica. Ci obbliga a guardare ai nostri errori e ai nostri limiti, ci impone di capire noi stessi. È per questo che la letteratura ama le sconfitte: perché offrono personaggi nudi, in cui si può scavare per provare a capire di quale sostanza siamo fatti. In Open, Agassi racconta soprattutto di una giovinezza trascorsa ad allenarsi controvoglia a causa di un padre dispotico che aveva deciso di fare di lui un campione. «Odio il tennis» dice a un certo punto Agassi, intendendo che, nonostante la ricchezza, le vittorie e la fama, egli considera tuttora la sua una vita fallita, piena di rancore e in fondo non vissuta appieno perché pianificata da qualcun altro. Educato alla vittoria a ogni costo, Agassi ha vissuto ogni torneo perso come la messa in discussione di se stesso, della propria educazione; ogni sconfitta era sua, di suo padre e del suo metodo dittatoriale e, soprattutto, era lì per dire: «I sacrifici che hai fatto, la vita orribile che hai trascorso sui campi da tennis che odiavi non sono valsi a niente: tu detesti la tua vita e, in più, sei un perdente». E nessuna grande vittoria ha mai spazzato via del tutto l’abisso, il dubbio di se stesso in cui una partita persa l’ha fatto sprofondare.
Clicca qui per leggere un’intervista al padre di André Agassi 
Arrivare secondi. Ma non nello sport Ultimo parallelo di Filippo Tuena racconta di un viaggio e di un fallimento: quello di Robert Scott e della sua spedizione in Antartide. È il 1912, e l’inglese Scott raggiunge, insieme a quattro compagni, il Polo Sud a piedi dopo una marcia di centinaia di chilometri nel ghiaccio: è la prima volta che l’uomo raggiunge il punto dove il mondo davvero finisce. E tuttavia, una volta giunti al Polo, Scott e i suoi fanno un’amara scoperta: una spedizione norvegese, capitanata da Amundsen, li ha preceduti di cinque settimane. Durante il ritorno, i cinque muoiono, sopraffatti dal clima e, forse, dal senso di impotenza. Perché Tuena, avendo la possibilità di raccontarci di Amundsen, il primo uomo a toccare il Polo, sceglie invece di raccontare la storia di una sconfitta? Perché, forse, non è così importante il racconto della scoperta geografica, o della “gara” coi norvegesi: ciò che conta è che, attraverso Scott, Tuena può mettere in luce alcuni aspetti profondi dell’essere umano, sondarne i limiti, ragionare sulla vita e sulla morte, sulla paura e la disperazione. Amundsen è un eroe, un uomo tutto d’un pezzo che ha ottenuto ciò che voleva; Scott, invece, ha dovuto fare i conti con la parte oscura che è in tutti noi: ha commesso errori, li ha pagati e ne ha lasciato testimonianza in alcuni diari miracolosamente conservati che sono stati ritrovati vicino al suo corpo. Lì dentro, e Tuena lo sa, c’è il racconto, scritto giorno per giorno finché le dita non si sono congelate del tutto, della sfida che l’uomo ha lanciato alla natura e a se stesso.
Robert Falcon Scott in Antartide. Clicca qui per vedere le foto della sua spedizione su National Geographic
L’infelicità, la perdita, la sconfitta come motori narrativi A volte ci si domanda perché la letteratura non racconti quasi mai storie dove regna la felicità: sembra anzi che le parole, per poter essere scritte, debbano riferirsi alla perdita, al dolore, alla disperazione. I motivi sono due: il primo è che qualunque storia, per essere raccontata, deve avere al centro un problema da risolvere, un ostacolo che il protagonista deve superare. Pensateci: I promessi sposi si regge su un matrimonio «che non s’ha da fare», i gialli su delitti più o meno ingarbugliati da decifrare, i romanzi d’avventura sulla conquista di terre, tesori, donne amate e rapite (dunque su qualcosa che, almeno all’inizio, manca). Ogni narrazione è la risoluzione di un problema. Il secondo motivo, invece, è che la felicità, la vittoria non sono raccontabili. Pensate alle favole: vi si racconta di bambini perduti, lupi famelici, streghe cannibali, e soltanto alla fine, quando tutto si è risolto e non c’è più nulla di interessante da raccontare, si può vivere felici e contenti. Dunque la sconfitta, la perdita, l’infelicità sono il centro, i motori della narrazione. Non si narra una vittoria: la si festeggia. Si racconta invece qualcosa che è irrisolto: una pena, una disfatta.
E se le favole non avessero più il lieto fine? Clicca qui per leggere un articolo che "riscrive" i finali delle favole Disney
La sconfitta, quella vera È proprio questo che, sottotraccia, il grande scrittore tedesco W.G. Sebald ha rimproverato alla letteratura del suo Paese: il fatto di non aver avuto il coraggio di entrare fino in fondo nella tragedia della Germania sconfitta e distrutta dopo il ‘45. In uno splendido e durissimo saggio pubblicato nel 2001, e intitolato Storia naturale della distruzione, Sebald fa, per la prima volta, i conti con un grande tabù letterario: la distruzione delle città tedesche in seguito ai bombardamenti alleati durante la Seconda guerra mondiale. Ebbene, dice Sebald, nonostante i seicentomila morti, il grande trauma collettivo che furono la sconfitta e la devastazione e, ancora, nonostante gli anni che ci vollero alla Germania post-hitleriana per ricostruire e ricominciare, la letteratura tedesca dell’epoca fece finta di niente. Non ne parlò. Non c’è traccia, nei romanzi fino alla fine degli anni Cinquanta, di questo trauma collettivo: non ci sono macerie, non c’è il dolore dei tedeschi colpiti. O meglio, c’è, se è vero che nacque un movimento letterario chiamato Trümmerliteratur, che significa “letteratura delle macerie”, e di cui fecero parte grandissimi come Böll e Schmidt: e tuttavia, a loro Sebald rimprovera il mancato coraggio di andare fino in fondo, di raccontare l’orrore, l’umiliazione del loro popolo. Non si parla delle bombe, della distruzione, ma solo del dopo. Certo, chiosa Sebald, la guerra era stata colpa loro, e si erano meritati la sconfitta, la distruzione e la vergogna: essendo colpevoli, non avevano diritto di raccontare il proprio dolore. «Il dato di fatto della distruzione di quasi tutte le maggiori città tedesche e di numerose fra quelle di minor estensione […] si cristallizza» scrive «nelle opere nate dopo il 1945, in un silenzio che lo scrittore impone a se stesso». Ci siamo meritati la sconfitta e la morte – sembrano dire gli scrittori tedeschi – e non ce ne possiamo lamentare.
Clicca qui per leggere la storia e vedere le immagini di uno dei bombardamenti più spaventosi del Novecento: quello di Dresda.  
Immagine di apertura: "Voltando le spalle alla coppa" di Finizio (via flickr) Immagine per il box: "Dresden/Sachsen 1945 - Panorambild Asisi" di Jorbasa Photographie (via flickr)
 
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