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Storia dell'arte

Autentici falsi d’arte, tra l’imbarazzo della critica e l’orgoglio dei falsari

I falsi nella storia dell'arte esistono da sempre: dal Cinquecento a oggi, vediamo alcuni episodi eclatanti legati ai falsari, che hanno messo in evidenza anche alcuni limiti legati al mercato dell'arte e alla critica
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Si fa presto a dire falso

Le falsificazioni da sempre coesistono con la produzione di oggetti d’arte. Sono mondi interdipendenti, di cui spesso si possono riconoscere nettamente i confini, mentre altre volte questi confini appaiono molto labili. In ambito artistico, infatti, la nozione di falso si accompagna a quella di copia. Il falso si distingue dalla copia non per le qualità intrinseche dell’oggetto, ma per l’intento di dolo. Le copie sono impiegate fin dall’antichità e nascono con una funzione didattica - istruire gli allievi - oppure divulgativa - diffondere un modello inamovibile in vaste aree geografiche. Nei secoli passati le repliche di un capolavoro eseguite dallo stesso autore e le copie realizzate da altri artisti erano richieste da committenti pienamente consapevoli della loro non-originalità. L’oggetto doveva essenzialmente essere aderente alle caratteristiche del modello, e veniva venduto e acquistato come copia, con un valore ben diverso dall’originale. Le copie, quindi, sono importanti perché rappresentano il termometro del gusto collezionistico, delle richieste di mercato e delle caratteristiche che venivano esaltate dalla critica del momento: si copia ciò che è più richiesto. Così i falsi ci aggiornano sulle mode culturali: ad esempio, nel Rinascimento la richiesta di opere antiche era tale che molti scultori si prestarono a eseguire copie e falsi. Secondo quanto ci ricorda Vasari, lo stesso Michelangelo scolpì un cupido in marmo, acconciandolo all’antica e, per invecchiarlo a dovere, lo sotterrò in una vigna. Il cupido fu poi ritrovato durante uno scavo e venduto come opera ‘antica’ autentica. Le falsificazioni di opere d’arte divennero poi una pratica sistematica nel Seicento: l’espandersi del mercato dell’arte incentivò una diffusione endemica dei falsi. I mercanti d’arte, viste le richieste sempre più insistenti dei collezionisti, risolsero la penuria di opere originali con la commissione di copie a pittori e scultori di seconda levatura, creando un universo di oggetti poi venduti come originali con un buon vantaggio economico. Dall’antichità a oggi, i metodi per riconoscere le falsificazioni si sono affinati e ora è possibile risolvere molti dei casi più grossolani. Tuttavia, di fronte ad artisti-falsari che applicano eccelse capacità esecutive al servizio della frode, si ha sempre la percezione di usare un’arma spuntata per riconoscere le loro ‘vere’ falsificazioni. Se l’occhio dell’esperto d’arte, come vedremo, può essere ingannato, anche l’intervento della scienza non può considerarsi risolutivo. Le indagini a cui vengono sottoposte le opere d’arte – attraverso tecniche fotografiche speciali, riflettografia, analisi radiografiche, analisi chimiche su campioni di materiali, termografia, solo per citarne alcune - garantiscono l’autenticità dei materiali, ma non possono garantire con certezza l’originalità dell’opera.  

El Greco: fortuna collezionistica, copie e falsificazioni

Nel suo celebre libro Falsi e falsari, Otto Kurz esamina il problema della proliferazione, in epoca moderna, di falsi del pittore greco-ispanico Domenico Theotokopoulos, detto El Greco (1541-1614). A capo di una fiorente bottega, El Greco era solito creare un modello, di solito un dipinto a scopo devozionale, che sarebbe stato ricopiato più o meno fedelmente dai pittori di bottega, creando così una serie di repliche per soddisfare le richieste pressanti della committenza. Nell’inventario delle opere dello studio del pittore, ereditato dal figlio, accanto a questi prototipi viene apposta la dicitura: “questo è l’originale”, e di seguito vengono citate le quattro o cinque repliche, che variavano solo nelle dimensioni, a sottolineare il rapporto di dipendenza e a rimarcare le differenze qualitative delle copie di bottega rispetto al modello. Fin qui ci troviamo nella pratica consolidata della bottega: la richiesta di opere di un artista inevitabilmente innesca una produzione di bottega che, se è sovrintesa dal Maestro e dà luogo a produzioni di buona qualità, è accettata come autoriale, rientrando nella categoria delle repliche. Diverso è il caso della ritrattistica di El Greco. Eseguiti a uso privato e spesso intimo, i ritratti del Maestro erano rari, ma la domanda dei collezionisti doveva essere lievitata a dismisura perché a un certo punto cominciarono a circolare anche falsi di scarso livello. Tra questi, un ritratto italo-fiammingo del XVI sec., di proprietà del Museo di Vienna, a cui un falsario un po’ ingenuo ha apposto la scritta “…toscopoli f. anno MDC”.

El Greco (con firma), Caballero anciano, 1587 – 1600 Museo del Prado (Wikipedia)
Questo fatto dimostra innanzitutto l’ignoranza del falsario, che probabilmente non aveva mai visto un vero El Greco: l’artista, infatti, firmava le sue opere sempre in greco; in secondo luogo, dimostra che i ritratti autentici del maestro, custoditi gelosamente dai proprietari, non subivano la pratica delle repliche di bottega riservata ai quadri devozionali. Vista la brama dei collezionisti, quindi, l’espediente più semplice ed efficace per la realizzazione dei falsi ritratti era quello di ridipingere ritratti dipinti da pittori minori, e per rendere più credibile questa operazione, era meglio scegliere pittori di ambito spagnolo. In quest’ottica di produzione fraudolenta, la qualità poteva anche diventare dozzinale visto che l’importante era la riconoscibilità dello stile del Maestro nelle sue cifre più appariscenti: viso lungo, occhi sgranati, barba puntuta e magari una stella di Santiago erano le caratteristiche essenziali di un “autentico” El Greco. Considerando il numero dei falsi e delle copie circolate nel mercato dell’arte, la fortuna commerciale di El Greco sembra non esser mai tramontata, anche se il pittore, di cui si è inaugurata di recente una mostra a Treviso, è stato riscoperto della critica solo nel XX secolo.
Per una carrellata delle opere di El Greco clicca qui
Trailer della mostra dedicata a El Greco a Treviso (inaugurata a ottobre, sarà visitabile alla Casa dei Carraresi fino al 10 aprile 2016) (dal canale You Tube di Kornice)
 

L’orgoglio dei falsari: Icilio Federico Joni e Eric Hebborn

La Siena a cavallo tra Ottocento e Novecento fa da sfondo alle vicende di un artista-falsario d’eccezione, il pittore Icilio Federico Joni (1866-1946), specializzato nella riproduzione dei primitivi e dei Maestri del Tre e Quattrocento senese. Molte delle notizie sulla sua vita, certamente edulcorate, si possono desumere dalla sua autobiografia Le memorie di un pittore di quadri antichi, pubblicata nel 1932 per fornire una versione romanzesca e picaresca della sua avventura. Dopo un’infanzia difficile, Joni si afferma attraverso il suo talento, messo in luce precocemente presso la bottega di un doratore, dove apprende i segreti artigianali e si dimostra abile nelle tecniche, dando buona prova di sé nel “restauro” di qualche vecchio dipinto su commissione di alcuni antiquari. La frequenza saltuaria all’Istituto di Belle Arti di Siena fa maturare in lui l’idea di sfruttare la propria perizia nell’ambito della falsificazione, consegnandolo al successo personale e commerciale. Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, Joni dipinge ritratti, trittici, dittici, cofani istoriati “all’antica”, che andavano a ingrossare i rivoli delle esportazioni di oggetti italiani dei primitivi verso Francia, Inghilterra, Spagna, Svizzera e soprattutto verso gli Stati Uniti. Tutto il suo operato fu condotto alla luce del sole, senza alcuna segretezza, con tanto di vignette satiriche sui giornali locali che lo ritraggono con la didascalia: “Ghigo Joni è pittore così eccellente: fa una madonna antica, come niente”. Ammirato per la sua bravura e stimato dai concittadini, Joni era temutissimo dai direttori di museo, soprattutto statunitensi, che dietro ad ogni pittura di primitivi italiani e senesi vedevano aleggiare lo spettro del falso. Con la consueta arguzia, Joni, sentendosi attribuire centinaia e centinaia di falsi, rispondeva così: “Se io fossi l’autore di tutti i quadri che mi si attribuisce, dovrei essere un Argo, anziché dai cento occhi, dalle cento braccia”. Un altro celebre artista-falsario è stato l’inglese Eric Hebborn (1934-1996), che con piglio autorevole e senza tema si attribuiva l’autografia di disegni e dipinti di grandi maestri esposti nei musei di tutto il mondo come autentici di Pontormo, Bronzino, Piranesi, Tiepolo, Corot e Turner. Nella sua autobiografia, però, Hebborn si assolve da ogni accusa di falso: non avrebbe mai venduto un’opera attribuendola a qualcun altro, ma sarebbero stati critici e mercanti ad attribuire le sue opere a grandi maestri. Hebborn si scaglia contro il mercato dell’arte e l’arrivismo dei mercanti e accusa i critici di mancare di sensibilità e di quella pratica artistica necessaria a una visione completa dell’opera. Proprio per queste loro negligenze riusciva ad ingannarli. Nel suo Il manuale del falsario, sentendosi l’erede di Cennino Cennini, Hebborn descrive le tecniche artistiche usate nel corso dei secoli e aggiunge il suo personale contributo, illustrando gli artifici dell’invecchiamento di competenza del falsario. Per quanto lo riguarda, distingue tra «falso decorativo», cioè eseguito con diligenza ma con lo spirito di emulare soltanto un’opera antica, senza alcuna pretesa ulteriore, e «falso perfetto», quello che l’autore vuole sia confuso con un originale. Come quelli di sua produzione. La sua vita avventurosa, condotta tra musei, case d’asta e la sua residenza a Roma, ha trovato anche nella morte un epilogo romanzesco. Hebborn è deceduto, ubriaco, per una caduta in una strada di Trastevere durante un temporale, ma amici e parenti sostengono invece che non si sia fatta sufficiente chiarezza intorno alla sua morte, visto che i nemici, anche potenti, non gli difettavano.
Clicca qui per vedere una intervista a Eric Hebborn

Falsi del XX secolo: il caso Martini e la beffa di Modigliani

Due casi eclatanti di falsificazioni avvenute nella seconda parte del Novecento riguardano opere di scultori della prima metà del secolo. Se in altri tempi l’inganno si sarebbe consumato nell’assoluta riservatezza dei circoli storico-artistici, le vicende giudiziarie del caso Martini e la copertura mediatica della beffa di Modigliani rendono questi fatti d’arte notizie di cronaca. Nel 1966, un antiquario romano, Michele Amato, cominciò a vendere delle terrecotte di Arturo Martini provenienti da Anticoli, dove Amato possedeva una cantina ricolma di bozzetti e sculture lasciati a suo padre dallo stesso Martini, che aveva soggiornato in quella zona nel 1925. Amato, mercante acuto e di buona esperienza, in un anno vendette più di un centinaio di pezzi, una cinquantina dei quali acquistati dalla Galleria Marlborough di Roma. La scoperta di un nucleo così corposo di opere inedite attirò però i sospetti del critico e antiquario Ettore Gian Ferrari, presidente del Sindacato nazionale dei mercanti d’arte moderna, che proprio a quel tempo era impegnato su due fronti: la qualificazione professionale degli antiquari attraverso l’istituzione di un albo e la promulgazione di leggi di tutela contro i falsi. Mentre Gian Ferrari cautamente prendeva le dovute informazioni sul caso, il mondo della critica d’arte si era già pronunciato a favore dell’autografia delle statue di Anticoli. Da qui in poi la storia sconfina nella cronaca giudiziaria e si snoda attraverso accuse da parte di Gian Ferrari e querele per diffamazione da parte dei proprietari dei pezzi. I cinque processi diedero ragione alternativamente alle parti opposte, fino all’ultima sentenza, che stabilì che tutte le sculture di Anticoli vendute da Amato erano dei falsi. Gli animi, però, erano tutt’altro che placati e i paladini dell’una e dell’altra parte cominciarono a sfidarsi a colpi di mostre: Gian Ferrari nel 1979 ne allestì una a Milano intitolata “Arturo Martini, autentici e falsi a confronto”; a Roma, per tutta risposta, la Galleria Marlborough allestì un’esposizione con le 56 sculture di Anticoli, evento che ebbe un successo strepitoso e che riscosse il plauso da parte dei maggiori storici dell’arte e artisti del tempo, da Cesare Brandi a Maurizio Calvesi a Nello Ponente, da Renato Guttuso a Fausto Melotti, concordi nel ritenere autentiche le opere. Il caso sembrava senza soluzione; intanto Amato era già morto, portandosi nella tomba i suoi segreti. Negli anni ’80, infine, la vedova di Amato finalmente confessò, con un certo orgoglio, tutta la verità. Era stato l’antiquario a produrre negli anni almeno un centinaio di pezzi: li aveva realizzati con diligenza imitativa nel caso di repliche fedeli al modello, mentre in altri casi aveva ideato nuovi soggetti in stile martiniano, con vera perizia e una certa disinibita inventiva. La parte tecnica era stata risolta con accuratezza, perché Amato usava legno vecchio e strumenti arrugginiti, e induceva il colore antico, tipico dei pezzi, con espedienti semplici come ripetute tinture di tè e caffè date grossolanamente in più mani. Michele Amato si deve quindi considerare un falsario o un artista? La risposta, secondo Elio Chinol che ha riletto il caso nel suo racconto storico sulla vicenda, deve esser ben ponderata, dato che le sculture di Anticoli hanno tratto in inganno il Gotha della critica d’arte del Novecento. Michele Amato ha dato infatti vita sì a falsi come repliche, ma anche a falsi d’invenzione, “alla maniera di”, creando anche soggetti non toccati dalla poetica martiniana e producendo di fatto oggetti di buona qualità, tanto da esser considerati autentici dai critici più autorevoli. Michele Amato quindi, come proponeva già Cesare Brandi, si è mosso entro quello che si potrebbe considerare il limbo implicito di una scuola, di una bottega di maniera, mai creata e mai voluta dall’individualismo esasperato dell’arte contemporanea e avrebbe fornito al mercato dell’arte una “modica” quantità di opere nel gusto del caposcuola tanto osannato, ma avaro di prodotti atti a soddisfare una domanda cresciuta a dismisura.
Per una panoramica su Arturo Martini e il suo stile, un documentario d’epoca, clicca qui. Clicca qui per vedere un video sulla mostra su Arturo Martini a Bologna 2007. e clicca qui per vedere una foto di un'opera di Michele Amato (archivio zeri)
Di ben altra natura è la celebre beffa di Modigliani, consumatasi nell’estate del 1984. Nel centenario della nascita di Modì, il Comune di Livorno inizia a dragare il Fosso Reale, dove durante uno dei suoi ultimi soggiorni in città un Amedeo Modigliani insoddisfatto avrebbe gettato nel canale alcune statue. Dopo alcuni giorni di incessante telecronaca di un sostanziale nulla di fatto, su tutti i telegiornali viene annunciato il ritrovamento di tre pietre scolpite. Tutta la critica si mobilita accreditando la scoperta, di cui Vera Durbé, direttrice del museo progressivo di Arte Moderna di Livorno, si attribuisce il merito. La storia poi è nota. A settembre, appena stampata una nuova monografia di Modigliani che include le tre opere appena rinvenute, i falsari si autodenunciano. La maschera chiamata “Modì 2” è stata realizzata da tre studenti universitari che, nella pausa estiva dalle lezioni, hanno scolpito con il trapano una maschera grezza e rozza, secondo loro “in stile Modì”. Le altre due teste, chiamate “Modì 1” e “Modì 3”, sono invece opera di Angelo Froglia, un ex-portuale divenuto pittore e scultore apprezzato a livello locale, che per dar prova della sua autografia aveva girato anche un videotape, volendo denunciare con questo gesto l’arroganza della critica, la società consumistica e i suoi falsi idoli. Quella di Livorno, quindi, è una doppia beffa, poiché in modo indipendente, gli universitari e Froglia, falsari improvvisati, decisero di compiere un’operazione che ha messo in luce tutte le falle del sistema dell’arte.
Per vedere un reportage dell’epoca clicca qui
L’unica voce che si è levata fuori dal coro dei consensi unanimi della critica è stata quella di Federico Zeri, dal fiuto acutissimo e dall’eloquio tagliente, che, non amando Modigliani e non stimandolo così grande, ha spronato a qualche riflessione più ampia sul mercato dell’arte e sulle opere. Sulle pagine de La Stampa del settembre 1984, Zeri ha sottolineato innanzitutto che le teste, vere o false che siano, sono inequivocabilmente di un livello qualitativo infimo che autorizza chiunque a non considerarle come opere d’arte, e accusa la boriosa critica d’arte di ritenere il pubblico una massa ignorante che, incapace di giudizio, deve affidarsi all’esclusiva valutazione degli esperti per sapere quali sono da ritenere le opere d’arte di valore. In seconda battuta si scaglia contro il fenomeno dell’arte contemporanea, che viene riconosciuta autentica dai critici solo ed esclusivamente in funzione di una ben calcolata mercificazione e speculazione in un mercato ormai drogato da aste milionarie; e come ultima considerazione denuncia che nelle falsificazioni d’arte contemporanea è completamente annullata ogni necessità di virtuosismo tecnico, di quel talento abbinato a una solida preparazione che invece erano richiesti ai falsari come Joni, che si dedicavano alle opere d’arte del passato. Insomma, si fa presto a dire falso!  

Bibliografia

C. BRANDI, Falsificazione, in Enciclopedia universale dell’arte, V, Venezia-Roma Enciclopedia Italiana, 1958, coll. 312-315 E. CHINOL, Falsi nell’arte. Il caso Martini, Bari Laterza, 1986 Falsi d’autore. Icilio Federico Joni e la cultura del falso tra Otto e Novecento, catalogo della mostra (Siena Palazzo Squarcialupi, 18.6-3.10. 2004), a cura di G. Mazzoni, Siena Protagon Editori, 2004 M. FERRETTI, Falsi e tradizione artistica, in Storia dell’arte italiana, X, Torino Einaudi 1981, pp. 118-195 E. HEBBORN, Il manuale del falsario, Vicenza Neri Pozza, 1995 E. HEBBORN, Troppo bello per essere vero. Autobiografia di un falsario, Vicenza Neri Pozza, 1994 O. KURZ, Falsi e falsari, Vicenza Neri Pozza, 1961 F. LEMME, La contraffazione e alterazione d’opere d’arte nel diritto penale, Padova Cedam, 2001 S. SCHŰLLER, I falsi nell’arte, Roma Edizioni Mediterranee, 1961 F. ZERI, L’inchiostro variopinto. Cronache e commenti dai falsi Modigliani al falso Guidoriccio, Milano Longanesi, 1985 Crediti immagini: Apertura: "The El Greco Connection", foto di Son of Groucho su flickr. Link BoxRitratto di un uomo vecchio, autoritratto di El Greco (1604). Link
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