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Filosofia

Vero o falso? Il linguaggio come mezzo privilegiato di indagine e comprensione

Per Ludwig Wittgenstein e Martin Heidegger il linguaggio è uno strumento fondamentale per indagare filosoficamente vero e falso. Il primo sceglie un approccio gnoseologico, il secondo esistenzialista

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L’indagine sul significato di «vero» e «falso» attraversa tutta la storia della filosofia, dall’antica Grecia fino ai nostri giorni. Per il filone di ricerca gnoseologico, la sfida non consiste solo nel fornire una definizione di «vero» (o «falso»), ma soprattutto nell’individuare dei criteri di verità che permettano di giustificare le nostre conoscenze. La tradizione esistenzialista si interroga invece sullo speciale rapporto tra l’uomo e la verità. Ludwig Wittgenstein (1889-1951) e Martin Heidegger (1889-1950) seguono rispettivamente la prima e la seconda strada. Ciò che li accomuna è l’idea che sia il linguaggio il mezzo privilegiato per accedere alla comprensione del mondo e alla verità.  

Il linguaggio come rappresentazione del mondo 

Nella sua prima opera, il Tractatus logico-philosophicus (1921), Wittgenstein si pone l’obiettivo di stabilire i criteri che consentono di distinguere tra proposizioni vere e proposizioni false. Per Wittgenstein, linguaggio e mondo hanno la stessa struttura logica: questo fatto permette al linguaggio di raffigurare il mondo, che è concepito come la totalità dei fatti. Le unità minime del linguaggio sono le proposizioni elementari che raffigurano fatti atomici, ovvero fatti che accadono indipendentemente l’uno dall’altro e che sono costituiti da oggetti non ulteriormente scomponibili. A loro volta, le proposizioni complesse raffigurano combinazioni di fatti atomici.

2.1 Noi ci facciamo immagini dei fatti. 2.11 L’immagine presenta la situazione nello spazio logico, il sussistere o non sussistere di stati di cose. 2.17 Ciò che l’immagine deve avere in comune con la realtà, per poterla raffigurare – correttamente o falsamente – nel proprio modo, è la forma di raffigurazione propria dell’immagine. 3.24 La proposizione che tratta del complesso sta in relazione interna con la proposizione che tratta d’una parte costitutiva del complesso. […] La proposizione ove si parla di un complesso sarà, se questo non esiste, non insensata, ma semplicemente falsa. 4.05 La realtà è confrontata con la proposizione. 4.06 La proposizione può essere vera o falsa solo in quanto immagine della realtà. 4.062 […] Una proposizione è vera se le cose stanno così come noi diciamo mediante essa. 4.1 La proposizione rappresenta il sussistere o non sussistere degli stati di cose. (da L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus. Torino: Einaudi, 1998)

È allora evidente come per Wittgenstein l’unico linguaggio dotato di senso sia quello scientifico: esso raffigura il mondo e attraverso il criterio di corrispondenza si può decidere se le sue proposizioni sono vere o false. Wittgenstein ritiene quindi che la maggior parte dei problemi filosofici (soprattutto di natura metafisica) siano in realtà frutto di un uso inappropriato del linguaggio, il quale oltrepassa la sua funzione descrittiva. Le proposizioni della metafisica sono pseudo-proposizioni: né vere né false, ma semplici «non-sensi». Questo è il caso di proposizioni che contengono parole a cui solo erroneamente si attribuisce un significato, come Principio, Assoluto, Essere, etc. La filosofia deve individuare i limiti del linguaggio che coincidono con i limiti del nostro pensiero.  

Il linguaggio come gioco: dal vero/falso al senso/non-senso

Nella seconda fase del suo pensiero, a cui appartengono le Ricerche filosofiche pubblicate postume nel 1953, Wittgenstein analizza il linguaggio comune che, diversamente dal linguaggio della scienza, è molto più complesso perché la sua funzione non consiste solo nel descrivere il mondo, ma anche nel raccontare, chiedere, dare ordini, fare ipotesi, recitare, etc. Anche i criteri di verità devono perciò essere ripensati. Per Wittgenstein, le parole del linguaggio quotidiano non sono semplici etichette con cui ci riferiamo agli oggetti, ma strumenti dal significato variabile in base all’impiego che ne facciamo e al contesto di riferimento: così, se un muratore si rivolge al collega dicendogli “mattone”, questi gliene passerà uno; mentre gli studenti potrebbero usare lo stesso termine per riferirsi a un libro impegnativo da leggere. I diversi usi del linguaggio sono chiamati «giochi linguistici». Ognuno di essi è retto da un insieme di regole, così come succede nel gioco degli scacchi, e solo comprendendo tali norme si può cogliere il reale significato delle parole usate in determinate circostanze. Le regole non sono sempre rigide e codificate, ma spesso indeterminate e implicite. Con questa «svolta pragmatica», Wittgenstein ammette l’impossibilità di definire il vero e il falso delle proposizioni sulla base della semplice corrispondenza tra linguaggio e realtà. La verità diviene relativa, ma la filosofia resta critica del linguaggio: il suo compito è smascherare i non-sensi, frutto del mancato rispetto delle regole di un gioco linguistico.  

Essere, verità e linguaggio 

Heidegger concepisce la verità non da un punto di vista conoscitivo (o scientifico), ma esistenziale. Riallacciandosi a quella tradizione che risale a Parmenide, la ricerca filosofica di Heidegger si concentra sull’indagine dell’Essere. Si può definire l’Essere come ciò che consente a tutti gli enti, tra cui gli esseri umani, di esistere. Nonostante tutti i suoi sforzi, l’uomo difficilmente può cogliere la pura essenza dell’Essere che, per sua natura, si nasconde continuamente. È in linea con queste premesse che Heidegger rifiuta l’idea di concepire la verità come corrispondenza tra linguaggio e realtà. Poiché l’Essere non coincide con le cose che comunemente osserviamo, la verità a sua volta non può consistere in una descrizione, anche se corretta, del mondo. La verità ha un valore più elevato che va oltre l’esistenza immediata delle cose: essa è intimamente legata alla possibilità dell’Essere di svelarsi e alla capacità dell’uomo di cogliere questo disvelamento. L’Essere può manifestarsi in modi diversi, ma il suo mezzo privilegiato è il linguaggio che Heidegger definisce «dimora» dell’Essere. Ma a quale linguaggio si riferisce Heidegger?

«Il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora. Il loro vegliare è il portare a compimento la manifestatività dell’essere; essi infatti, mediante il loro dire, la conducono al linguaggio e nel linguaggio la custodiscono». (da M. Heidegger, Lettera sull’umanismo. Milano: Adelphi, 1995, p. 31)

Il linguaggio poetico come porta di accesso all’Essere e alla verità

Nella Lettera sull’Umanismo (1946), Heidegger chiarisce che il linguaggio tradizionale della metafisica è del tutto inadeguato a parlare dell’Essere: esso, contrapponendo l’Essere agli enti, ha infatti perso di vista l’autentica indagine sull’Essere in quanto tale. Diventa così necessario individuare il linguaggio più adatto per parlare dell’Essere e, quindi, per coglierlo e comprenderlo. Heidegger ritiene che solo il linguaggio poetico possa assolvere a questo compito perché non è un semplice strumento: non serve a controllare il mondo (come il linguaggio scientifico) e non si limita allo scambio di informazioni (come il linguaggio quotidiano). L’Essere si manifesta attraverso il linguaggio poetico perché questo è puro, primordiale e autentico. Riscoprire il linguaggio poetico significa avvicinarsi all’essenza stessa del linguaggio e, di conseguenza, alla comprensione dell’Essere e alla verità.

Clicca qui per leggere l’intervista a Karl-Otto Apel in cui mette a confronto Wittgenstein e Heidegger.

Crediti immagini: Apertura: "Words!" di anneheathen su flickr. Link Box: LUDWIG WITTGENSTEIN / Austrian-English Philosopher and Writer, di NCMallory, su flickr. Link

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