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Da una lingua all’altra

Tradurre un'opera letteraria è un processo estremamente complesso. Il traduttore deve farsi attento interprete di un cultura diversa dalla sua e di un sistema di valori e sensibilità che dal testo di partenza devono ritrovarsi nel testo di arrivo
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Secondo l’ultimo Rapporto sullo stato dell’editoria in Italia, che l’Associazione italiana editori rende noto ogni mese di dicembre, poco meno del 18% degli oltre 68.000 libri che si pubblicano ogni anno nel nostro Paese proviene dall’estero. Vale a dire che circa un libro su cinque tra quelli che finiscono sui banchi delle librerie è stato concepito e scritto in una lingua che non è la nostra e ci arriva in traduzione.
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Non è sempre stato così, anzi. Fino a meno di un secolo fa si traduceva sostanzialmente poco: il pubblico dei lettori non era così numeroso, e i lettori più colti erano abituati a leggere nelle principali lingue. La svolta avviene negli anni Trenta, che lo scrittore Cesare Pavese definì come “il decennio delle traduzioni”: da lì in poi, è una continua ascesa, le traduzioni si moltiplicano e il pubblico dei lettori viene messo nelle condizioni di accedere ai classici e ai libri contemporanei di tutto il mondo.  

La scoperta dell’America

Fu proprio Pavese uno dei pionieri della traduzione. Poco più che ventenne (era nato nel 1908), cominciò a tradurre dall’americano alcuni libri fondamentali dell’Otto e Novecento: la sua traduzione più famosa, pubblicata nel 1932 per la casa editrice Frassinelli, fu Moby Dick di Herman Melville. Il romanzo, una delle opere capitali della narrativa di tutti i tempi, era uscito negli Stati Uniti nel 1851: per oltre ottant’anni, dunque, il capolavoro di Melville era rimasto sconosciuto ai lettori italiani, finché questo giovane piemontese, che sarebbe in seguito diventato uno dei maggiori scrittori del nostro Novecento, si cimentò con la sua lingua complessa, biblica e provò a renderla in italiano. Il risultato è una traduzione che, oggi, è considerata imperfetta, a volte ingenua, ma che è tuttora nelle nostre librerie e rimane un punto fermo nella storia della nostra cultura.
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Dobbiamo a Pavese altre traduzioni (dal Dedalus di Joyce all’Autobiografia di Alice Toklas di Gertrude Stein, dalla scoperta di John Steinbeck a quella di John Dos Passos), ma soprattutto l’idea che, se si voleva una volta per tutte sprovincializzare la cultura italiana, bisognava dare ai lettori un accesso diretto alle maggiori opere composte in lingua straniera. Condividono l’opinione di Pavese, in quegli anni, altre figure cardine del mondo intellettuale italiano: così, un altro scrittore, Elio Vittorini, traduce sempre dall’inglese William Faulkner, Edgar Allan Poe, David H. Lawrence e, soprattutto, propone nel 1941 un’antologia, Americana, che porta in Italia 33 narratori statunitensi fino ad allora sconosciuti, tra cui Irving, Fante, Hemingway, London, Hawthorne.
Clicca qui per leggere un articolo su Elio Vittorini e l'America (da booksinitaly)
È curioso che siano proprio gli anni Trenta ad aprire le porte agli autori stranieri. Il regime fascista, infatti, non guarda con grande favore questo tipo di operazioni editoriali: molti autori importati sono “di sinistra” e, soprattutto, la retorica e la censura mal sopportano questa invasione di stranieri. Vengono imposte a chi traduce delle regole assurde. Nel 1937, mentre traduce Dos Passos, Pavese per esempio ammette: «Ho seguito scrupolosamente i consigli del Ministero, cioè inglesizzato i nomi italiani, lasciato cadere gli accenni a Lenin e ai sovieti, […] taciuto o tradotto con dignità wop e dago [parole volgari con cui gli americani definiscono i popoli latini, italiani compresi: qualcosa di simile, per intensità, a “negro” o “terrone”]».  

Il ruolo dei traduttori

Non di sola America vive il decennio delle traduzioni: Lavinia Mazzucchetti ed Ervino Pocar traducono centinaia di opere dal tedesco. Thomas Mann, Stefan Zweig, Alfred Döblin, Herman Hesse arrivano da noi tramite le loro traduzioni o semplicemente attraverso i loro consigli: il ruolo del traduttore, infatti, non è soltanto quello di tradurre da una lingua a un’altra, ma anche quello di porsi come mediatore tra due culture, come esperto di una parte di mondo che parla una lingua diversa e dunque si fa ponte tra le culture e consigliere. Tutti i traduttori nominati finora sono stati, a vario titolo, consulenti editoriali: hanno convinto gli editori italiani a importare scrittori di cui non si conoscevano i nomi, hanno in qualche modo dato un indirizzo alla cultura italiana. Così, Rinaldo Küfferle, un russo naturalizzato italiano, traduce e consiglia a molte case editrici italiane alcuni classici russi e propone anche delle voci nuove, tra cui Ivan Bunin, tradotto in italiano poco prima che gli venga conferito, nel 1933, il premio Nobel per la letteratura. . L’elenco di chi ha contribuito, attraverso la traduzione o la semplice consulenza, a portare gli stranieri in Italia, sarebbe lunghissimo e quello che noi conosciamo del mondo attraverso la letteratura è anche merito loro.  

Ma cosa vuol dire tradurre?

Non si tratta, semplicemente, di trasferire di peso in una lingua qualcosa che è stato scritto in un’altra. Le cose non sono mai così facili e dirette. Cominciamo col dire che esistono due lingue: la lingua di partenza (quella dell’originale) e quella d’arrivo (la lingua in cui il testo deve essere tradotto). Ogni lingua, d’arrivo e di partenza, ha una propria sintassi, una propria morfologia e un proprio vocabolario che non hanno corrispondenze dirette con le altre lingue. Pensate all’inglese: ci sono almeno due modi per dire “casa” – house e home. Un traduttore che si trova davanti una di queste due parole deve scegliere come tradurla in italiano – e non è detto, dal contesto, che la scelta migliore sia proprio “casa” (può essere “edificio”, “abitazione” e così via). Tradurre è, dunque, prima di tutto un lavoro di interpretazione: ogni traduttore sa che deve essere il più fedele possibile allo stile e al tono della lingua di partenza; allo stesso tempo, sa che un testo tradotto si rivolge a dei lettori che non appartengono al contesto culturale in cui l’opera è stata scritta. Dunque bisogna trovare una mediazione, costruendo un testo d’arrivo che sia allo stesso tempo fedele all’originale e abbia con i suoi nuovi lettori lo stesso rapporto che l’originale ha con i lettori nella lingua di partenza. Detto altrimenti: tradurre non significa riprodurre in una lingua ciò che è stato scritto in un’altra, ma trasferire da una forma culturale a un’altra. Così, per fare un esempio, i tedeschi hanno una parola che usano per esprimere un sentimento molto strano: la nostalgia di Paesi lontani (dove non è detto che siano mai stati). La parola è Fernweh, e non ha un’equivalente in italiano: chi la traduce deve pertanto, anziché usare un solo vocabolo, scrivere una frase intera, perdendo un po’ del ritmo dell’originale. Crediti immagini: Apertura: "Light reading" di quattrostagioni da flickr Box: "Translation", di aehdeschaine da flickr  
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