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Storia dell'arte

L'atelier dell'artista: dove il lavoro diventa arte

L'atelier non è solo il luogo dove si materializza il lavoro dell'artista. Per Courbet è stato metafora di una polemica contro l'accademismo, Boldini lo ha accennato e nascosto nei suoi dipinti, per Monet poteva essere ovunque, tranne che in un atelier
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L’atelier è lo spazio dedicato al mestiere dell’artista: luogo polivalente dove si producono le opere d’arte, ma anche dove si conservano le opere in attesa della vendita e si incontrano committenti, collezionisti, viaggiatori e altri artisti. Un po’ officina e un po’ museo, un po’ fabbrica e un po’ salotto. Nel Libro dell’arte di Cennino Cennini possiamo leggere come erano organizzate le botteghe degli artisti nel Medioevo. A capo della bottega c’era il Maestro, e sotto la sua direzione si trovavano giovani apprendisti ansiosi di imparare l’arte, operai salariati e assistenti. Con il Rinascimento l’artista, divenuto cortigiano, doveva dividere equamente il proprio tempo tra cavalletto, colori, mestiche e relazioni sociali a corte, per accrescere la propria fama e procacciarsi sempre nuove commissioni. Nell’Ottocento le dinamiche sociali e il mercato dell’arte cambiano notevolmente, e l’atelier varia forma e caratteristiche per rispondere a questi mutamenti: spesso l’artista vive da solo nel proprio atelier e le fotografie dell’epoca mostrano stanze che rispecchiano il prestigio sociale raggiunto.
Gustave Courbet, "La Bottega del pittore, allegoria reale che determina una fase di sette anni nella mia vita artistica e morale", 1854-1855, olio su tela, Parigi, Museo d'Orsay
L’atelier del pittore di Gustave Courbet ritrae invece un atelier in parte immaginario. La stanza, enorme, è descritta con voluta avarizia di particolari. La parete di fondo è resa con una pittura compendiaria, sommaria, come fosse decorata da un affresco corroso dall’incuria e dal tempo. Gli unici oggetti ben visibili sono, a sinistra, una tela dipinta, rovesciata e appoggiata al muro; al centro, una statua di San Sebastiano con un drappo sul braccio alzato, che assume il valore simbolico della pittura accademica; a destra, un piccolo scrittoio che offre sostegno alla lettura di Charles Baudelaire. Due incongruenze non possono sfuggire: la prima è che nella stanza non sono presenti significative fonti di luce, elemento indispensabile al lavoro del pittore; la seconda è che Courbet, orgoglioso fondatore del Realismo, è seduto al cavalletto, intento a dipingere un paesaggio e un cielo azzurro nel contesto chiuso del proprio atelier. Una contraddizione in termini, una dura polemica contro l’accademismo che si opponeva al suo nuovo stile. Proprio la ricerca della luce naturale e del “vero” sono infatti i tratti distintivi di altre esperienze d’atelier dell’Ottocento.  

Le stanze raccontate nelle Memorie di Francesco Hayez

Francesco Hayez, il grande pittore del Risorgimento italiano, ha lasciato nelle sue Memorie vive tracce della ricerca dell’atelier ideale.
Clicca qui per vedere un video sulla mostra "Hayez" a Milano (dal canale You Tube di arslife)
«Studio in casa de’ Capitani alla Spiga. Al ritorno di Sabatelli da Firenze, dove aveva eseguito i suoi affreschi a Pitti, dovetti cercarmi uno studio nella Spiga, in casa dei Capitani, al pianterreno verso il giardino: questo locale era piuttosto umido per cui danneggiava le mie tele. Peccato perché la luce vi era eccellente. - Studio in casa d’Adda al Gesù. … presi [studio] in casa d’Adda al Gesù, pure a pian terreno e queste ancor più umide delle prime, ma poco vi stetti, perché avendo trovato locale più vasto, e veramente adatto per lo studio mi fermai.» Agli esordi della carriera, nel periodo che solitamente corrisponde alle maggiori ristrettezze economiche, il pittore si era adattato a numerose peregrinazioni, tra studi lasciati liberi da amici pittori, assenti per commissioni lontane, e locali affittati per brevi periodi, in situazioni di ripiego. Emerge dalle poche righe il senso di inadeguatezza di alcune strutture - a volte anguste, mal illuminate, umide, o rumorose - e la perenne ricerca del locale perfetto, del luogo che corrisponda alle sue esigenze profonde. «1829-1864 Studio in casa Repossi al monte di Pietà, allora via dei tre monasteri. […] Questo mio studio era nella via dei tre monasteri monte di Pietà) e la casa apparteneva al Sig.r Repossi; era fabbricato precisamente in un locale d’uno di questi monasteri, un gran salone, lungo 23 braccia e largo 14 con un grandissimo finestrone da cui ricevevo la luce: un altro finestrone metteva in una gran terrazza e sopra i giardini Raimondi e Passalacqua, da dove in prossimità di questa erano platani d’un’enorme grandezza e altri alberi che mi deliziavano nelle ore di riposo e altri che servivano anche di studio. Due altre stanze attigue, una maggiore e una minore e molto servibili all’arte mi completavano lo studio che tenni dal 1829 al 1864.» Elementi architettonici chiave nello studio dell’artista sono adesso un ampio finestrone, un lucernario e, in subordine, uno spazio confortevole adatto alla pittura. In particolare, il ruolo della luce naturale, dopo secoli in cui il lavoro negli atelier degli artisti e nelle sale delle Accademie di pittura era stato condotto a lume di candela, sottolinea un nuovo approccio verso il mondo reale, un nuovo sguardo sul mondo. Una volta nominato professore di pittura all’Accademia di Brera, Hayez applicherà questi stessi criteri per la creazione dei nuovi spazi dell’Accademia, seguendo da vicino il progetto dell’ingegnere Giovanni Voghera. Il progetto, realizzato nel 1853-1857, si caratterizzava proprio per la scelta di posizionare un grande finestrone nella parete nord, per garantire la luce ideale. Ogni accortezza fu osservata per ottimizzare la resa della luce: vennero montati serramenti in ferro, più resistenti ma anche più esili rispetto ai serramenti in legno, per sfruttare tutta l’ampiezza delle specchiature di luce; i muri opposti alla costruzione vennero tinteggiati di colori scuri, per evitare fastidiosi e indesiderati riflessi; le classi vennero intonacate di bianco, mentre il piccolo studio intermedio, occupato da Hayez, fu tinteggiato del tipico grigio d’atelier. Questa austera ambientazione forse è illustrata nel suo autoritratto degli anni ’60. Hayez si mostra in piedi, investito di luce naturale contro pareti grigie, con in mano, fieramente esibiti, pennelli e tavolozza, in un abito scuro quasi clericale, che rievoca gli autoritratti del suo amato Tiziano.

 F. Hayez, Autoritratto a sessantanove anni, 1860, Firenze, Galleria degli Uffizi

Clicca qui per vedere un video sulla produzione di Hayez (dal canale You Tube di "AMICIDELLARTE VARESE")
 

La vocazione dei luoghi: 41 Boulevard Berthier, Paris

Appartamento al numero 41 di Boulevard Berthier a Batignolles (foto tratte da Jssgallery.org)
Alcuni atelier hanno ospitato più artisti in successione temporale. È questo il caso dell’appartamento al n. 41 di Boulevard Berthier, vicino alle Fortificazioni, presso Batignolles. La casa, che aveva già ospitato il pittore belga Alfred Stevens (1823–1906), nel 1883 viene presa in affitto dal pittore John Singer Sargent. Dell’atelier rimangono due fotografie scattate da Auguste Giraudon e una descrizione, molto puntuale, dell’amica scrittrice Vernon Lee: lo studio era molto grande, bellissimo, decorato con carta da parati di Morris e con tappeti e drappi disseminati intorno. In una delle foto Sargent è colto accanto al cavalletto e a fianco spicca il suo quadro oggi più famoso, il ritratto Madame X (Madame Gautreau), l’avventuriera parvenue più chiacchierata del tempo. Lo studio è interpretato come il tempio dell’autocelebrazione: la stanza è elegantemente arredata secondo i criteri eclettici dell’estetismo di fine secolo, con una mescolanza sapiente di drappi orientali e japonaiseries, un pianoforte Bechstein e un lungo sofà. Tra i quadri appesi, troviamo alcune copie realizzate dallo stesso Sargent degli antichi maestri a cui si ispirava per la sua pittura, Diego Velázquez e Franz Hals. Nel 1886 Sargent abbandona quelle stanze che vengono subito occupate dal pittore ferrarese Giovanni Boldini. In alcuni suoi quadri di piccolo formato degli anni ’80, Boldini gioca a fare l’illusionista, mostrando particolari dell’atelier e nascondendo gli ambienti, trattando gli oggetti come tessere di un puzzle, mai presentate in una visione unitaria. Del resto per le visioni d’insieme delle stanze ci si poteva affidare alla fotografia, mentre l’artista rivendica così la possibilità di ritrarre brandelli di realtà da ricomporre a piacere. In questa serie di quadretti trovano posto gli oggetti che sono compagni di vita dell’artista: i ritratti non ancora finiti appoggiati in bilico alle pareti, la sagoma del pianoforte e l’orologio Luigi XV. Protagonista di molte tele è il calco in gesso del busto del Cardinale de’ Medici del Bernini, presenza ossessiva dopo il 1892. Scherzando Boldini scriveva a un amico: “Il cardinale ha fatto furori, piace molto e fa paura alle signore”. Sembra che l’artista gli avesse affidato il ruolo di guardiano dei segreti del suo atelier, un talismano e un totem che spicca candido tra gli intrecci di pittura monocroma grigia. Il pittore che più di ogni altro incarnava il glamour e la moda ricercava nella quiete domestica degli angoli dell’atelier la poesia del quotidiano, il canto lirico della “pittura per la pittura”.

G. Boldini, Il busto del Cardinale del Bernini nello studio del pittore, 1899, Ferrara, Museo Giovanni Boldini (qui il link all'immagine)

Monet e la ricerca dell’atelier naturale

E. Manet, Monet che dipinge sulla sua barca, (Monet sur son bateau), 1874, Monaco di Baviera, Neue Pinakothek (Wikipedia)
 J. S. Sargent, Monet che dipinge sul limitare del bosco, 1885, Londra, Tate Gallery (Wikipedia)
Claude Monet aveva invece un pessimo rapporto con la stanza che siamo soliti chiamare atelier. A tal proposito è famoso un episodio. Nel 1880 il pittore stava soggiornando a Vétheuil, un paesetto sulla riva destra della Senna, quando ricevette la visita del giornalista Emile Taboureaux che voleva intervistarlo per il giornale La Vie Moderne. Quando il giornalista espresse il desiderio di vedere l’atelier del pittore, Monet rispose: "Il mio atelier? Non ho mai avuto un atelier e non comprendo chi si rinchiude in una stanza". Poi, indicando con un ampio gesto la Senna e la campagna, ribadì: "Ecco il mio atelier". Il gesto, eloquente ma autentico, equivaleva a una dichiarazione programmatica sulla propria prassi artistica. La pittura en plein air non era una novità assoluta: sin dal Seicento, molti pittori erano usciti dalla bottega per raccogliere idee e schizzi ispirandosi alla natura. Ritraevano panorami direttamente dentro il paesaggio, ma questa era una pratica estemporanea, che poi lasciava il posto a un lungo lavoro in atelier. Praticarla in senso intransigente e pressoché totalitario era stata la rivoluzione degli impressionisti. Quando usciva a dipingere, Monet portava con sé i colori in tubetto, le tele di formato portatile, il cavalletto, il parasole e si immergeva totalmente nell’ambiente naturale. Usava tutti i sensi, non solo la vista. Sceglieva un posto dove fermarsi a dipingere, e quello diventava il suo atelier, variabile secondo le condizioni meteorologiche. Un primo ‘atelier naturale’ di Monet fu la foresta di Fontainebleau. Dentro quell’immenso castello verde, immerso nella luce mutevole e guardando i ritagli di cielo azzurro tra le foglie, Monet dipinge la strada di Chailly tra le macchie di cespugli, i grandi tronchi d’alberi maculati dai muschi, trattando ogni particolare come fosse un ritratto. Monet sosteneva di non poter abitare in una casa senza giardino, perché ciascun giardino diventava il suo atelier: così nacquero i giardini-atelier delle case di Argenteuil, quello della casa di Vétheuil, e infine quello che più di ogni altro ha occupato un posto fondamentale nella sua vita e nella storia dell’arte, il giardino di Giverny, pensato come un atelier profumato, cangiante e luminoso, variabile con il variare delle stagioni, studiato in ogni essenza, pianta e abbinamento cromatico dalla mente ossessiva di Monet.
Clicca qui per vedere un video su una mostra alla Royal Academy di Londra che illustra il giardino di Giverny (dal canale You Tube Royal Academy of Arts)
John Sargent, che si schermiva chiamandosi l’“aspirante impressionista” e che aveva stretto amicizia con Monet, fu invitato a trascorrere qualche tempo a Giverny verso la metà degli anni ’80. A quel periodo di frequentazione risale il bozzetto Claude Monet che dipinge sul limitare del bosco, che ci permette di vederlo all’opera en plein air. Anche il quadro Monet che dipinge sulla sua barca, dipinto da Édouard Manet, ci mostra come l’artista percorresse la Senna usando la sua barca come un atelier. Aveva dichiarato di esser incapace di dipingere l’acqua dalla riva: doveva immergervisi per cogliere i riflessi, la luce sui cespugli, sentirsi cullato dallo sciabordio e inspirare l’odore della frescura. Un atelier poteva nascere anche in una stanza d’albergo – come il celebre quadro Impression soleil levant, che diede il nome alla nuova corrente pittorica -, davanti a una finestra aperta o nel mezzo di una strada. Nel 1877 Monet dipinse per quattro mesi all’interno della Gare Saint-Lazare, ritraendo locomotive avvolte da fumi densi e riflessi di nuvole sulle volte di vetro contro il cielo azzurro. Per Monet ogni luogo poteva diventare un atelier, tranne che un atelier. Bibliografia: Gli interni della casa e dell’atelier, in Boldini nella Parigi degli Impressionisti, catalogo della mostra, a cura di S. Lees, Ferrara 2009, pp. 180-182 R. CASSANELLI, Artisti in bottega. Luoghi e prassi dell’arte alle soglie della modernità, in La bottega dell’artista tra Medioevo e Rinascimento, a cura di R. Cassanelli, Milano 1998, pp. 7-30 F. HAYEZ, Le mie memorie, a cura di F. Mazzocca, Vicenza 1995, pp. 166-167 V. ROSA, Un nuovo studio per una nuova scuola di pittura, in Hayez, catalogo della mostra, a cura di F. Mazzocca, Milano 2015, pp. 335-337 Sargent e l’Italia, catalogo della mostra, a cura di E. Kilmurray, R. Ormond, Ferrara 2002 R. TASSI, L’atelier di Monet, in L'atelier di Monet: arte e natura. Il paesaggio nell'Ottocento e nel Novecento, Milano 1989, pp. 139-171
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