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Scrivere col martello. La letteratura industriale italiana

La letteratura industriale in Italia ha raccontato il mondo lavorativo nell'industria, l'alienazione, il sistema capitalistico negli anni del boom economico 1950 e 1980. Autori fondamentali sono stati Ottiero Ottieri, Paolo Volponi, Vittorio Sereni. Oggi, al tempo della crisi, la letteratura che racconta il lavoro ha cambiato obiettivi e orizzonti
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Qualcuno fa coincidere la fine della letteratura industriale italiana con la pubblicazione di La dismissione di Ermanno Rea. Era il 2002, il secolo dell’industria si era concluso, e lo scrittore napoletano pubblicava un romanzo che, in effetti, può essere considerato come la pietra tombale del genere: nella Dismissione, il protagonista Vincenzo Buonocore, tecnico dell’Ilva di Napoli, è ossessionato dall’arrivo, dalla Cina, di acquirenti per lo stabilimento. I cinesi si porteranno via la fabbrica pezzo per pezzo, e Buonocore è l’incaricato dell’azienda a progettare e seguire lo smantellamento. Ma Buonocore e l’acciaieria sono una cosa sola: assunto molti anni prima come manovale, oggi è una figura chiave nel suo reparto – a cui ha dedicato tutto se stesso. La vita di Buonocore e quella dell’Ilva sono una cosa sola, pulsano al medesimo ritmo, si nutrono l’uno dell’altra. Disperato, Buonocore decide che lo smantellamento dell’azienda sarà, “bullone per bullone”, il suo capolavoro, l’ultimo, estremo atto d’amore di un operaio che appartiene a un tempo che non c’è più. La dismissione è la storia di una nevrosi operaia, ma anche il canto di fine di un’epoca: la fabbrica non c’è più, viene portata via, in Cina. Non c’è più un’industria, in Italia, dice Rea, la stiamo vendendo insieme al sapere e alla mitologia nati con essa. Dopo La dismissione (il titolo è, consapevolmente o meno, anch’esso segno della fine di un’epoca) non c’è più una letteratura industriale possibile nel vero senso del termine nel nostro Paese.
Da La dismissione nel 2006 Gianni Amelio ha tratto un film con Sergio Castellitto: si chiama La stella che non c’è http://www.mymovies.it/film/2006/lastellachenonce/
 

La visita in fabbrica

Forse non è proprio l’atto di nascita, ma sicuramente il momento chiave di quel filone della letteratura italiana che si è occupato d’industria è l’uscita di Memoriale, il primo romanzo di un gigante troppo spesso dimenticato, Paolo Volponi. Era il 1962. Albino Saluggia, il protagonista del libro, si è ammalato di tubercolosi polmonare mentre era prigioniero in Germania durante la Seconda guerra mondiale. Tornato in patria, cerca riscatto e salute nel lavoro: viene assunto in un’azienda che non viene mai nominata, ma che assomiglia molto all’Olivetti di Ivrea – dove Volponi lavorò per molti anni, entrando in confidenza con Adriano Olivetti. I medici dell’azienda lo esonerano dal lavoro per malattia: Saluggia entra così in una spirale (di cui Memoriale è il protocollo) di paranoia. È convinto che ci sia un complotto contro di lui per tenerlo lontano dal lavoro e dalla normalità di una vita di lavoro. Allo stesso tempo, benché precipiti a poco a poco nella follia, Saluggia è in grado di registrare le incongruenze e le ipocrisie del sistema capitalistico in cui è immerso: la fabbrica è un luogo di mortificazione, dove l’uomo diventa un ingranaggio. Il rapporto, che è insieme d’amore e di conflitto, tra Volponi e l’industria innerva tutta l’opera dello scrittore. Il suo ultimo romanzo, Le mosche del capitale (1989), è dedicato proprio ad Adriano Olivetti “maestro dell’industria mondiale”: scritto nell’arco di molti anni, racconta la storia di Bruto Saraccini, un umanista che lavora in una grossa azienda con lo scopo recondito di usare il progresso per creare un’industria dal volto umano. Saraccini – che è un po’ Volponi – fallirà nell’impresa, le sue illusioni saranno frustrate. A proposito del romanzo, Volponi, intervistato da Giovanni Raboni nel 1986, rilasciò una dichiarazione che è, si può dire, la summa della sua poetica: «Oggi ci vorrebbe un romanzo (non credo sia il mio) che riuscisse a dare la complessità assurda della realtà in cui siamo: gli inganni, le cose nascoste, le simulazioni, gli imbonimenti, i medicinali distribuiti perché si resti in situazione di quiescenza, perché si accetti la grande compatibilità. Compatibilità con cosa? Ma con il sistema, con il capitalismo che rovina il mondo».
Clicca qui per ascoltare Massimo Raffaeli su Wikiradio parla di Paolo Volponi e l’Olivetti (da RadioRai)
Ma torniamo agli anni Sessanta, vero centro della riflessione romanzesca sul rapporto tra uomo e industria. Nel 1961, il quarto numero della rivista “Il Menabò”, diretta da Elio Vittorini e Italo Calvino, era dedicato proprio a questo tema e si apriva con una lunga poesia di Vittorio Sereni intitolata La visita in fabbrica, da cui traggo questi versi: […] Forse che meno soli, oggi, siamo stati? Non ce l’ho – dice – coi padroni. Loro almeno sanno quello che vogliono. Non è questo, non è più questo il punto. […]. Vittorini, in uno scritto che sapeva di introduzione al volume, centrava il punto della questione “letteratura industriale” dicendo che: «Il mondo industriale, che pur ha sostituito per mano dell’uomo quello “naturale”, è ancora un mondo che non possediamo e ci possiede esattamente come il “naturale”. Esso ha ereditato da questo il vecchio potere di determinarci fin dentro alla nostra capacità di trarne dei vantaggi, e deve quindi subire una trasformazione ulteriore che lo privi appunto del potere di condizionare le nostre scelte e determinarci». La letteratura è qui, dunque, per farci vedere questo potere e questa contraddizione, per metterli a nudo. Negli anni dell’esplosione industriale del Paese, gli scrittori proponevano una riflessione sul sistema capitalistico che era (ed è) un modo tutto umanista per cercare di decifrare l’evoluzione della società. Potere, libertà, scelte individuali e collettive, alienazione, massa e solitudine, a volte paranoia, follia: sono questi i temi – tutti umani, tutti universali – chiamati in causa dalla cosiddetta letteratura industriale.
 Che cos’era Il Menabò: clicca qui 
 

All’assalto!

«Questo paese è come una miniera umana; cova fra le più profonde ricchezze d’uomini del mondo. Noi siamo venuti a scoprire un nuovo, difficile oro, sepolto dalla natura e dalla storia». È così che si conclude la Premessa di un altro straordinario romanzo, Donnarumma all’assalto di Ottiero Ottieri (1959). Il libro è una specie di finto reportage, mascherato da diario di uno psicologo (che somiglia molto a Ottieri) mandato in meridione da una grande azienda del nord: lì, a sud, stanno avviando un nuovo stabilimento e c’è da selezionare il personale. Lo si seleziona con un metodo nuovo per quegli anni: una «valutazione psicotecnica». A ogni candidato viene somministrato un test che valuta non solo la sua abilità al lavoro ma anche la sua attitudine alla fatica, le sue idee, le sue prospettive. Convinto della scientificità del metodo, il protagonista si trova però immerso in un mondo “altro”, dove la gente del paese vede la nuova fabbrica come una possibilità di fuga dalla miseria. I personaggi che sfilano davanti allo psicologo sono contadini poveri e poverissimi a cui non importano i test o la fabbrica o il lavoro in sé: importa mangiare. Piano piano, il protagonista capisce che il suo lavoro non è tanto selezionare del personale quanto decidere chi, grazie ai suoi test, sarà salvato dalla disperazione. La prospettiva allora cambia, e da sociologica, puramente lavorativa, diventa umana, problematica: che cosa significa, davanti alla fame, non essere il candidato perfetto per un lavoro? Cosa ne sarà di chi non supera i test? Chi sono io, si chiede lo psicologo, per decidere del futuro di questi disperati? È giusto farlo? Il Donnarumma del titolo è il candidato più difficile: ignorante, semianalfabeta, mette lo psicologo davanti a una realtà inimmaginabile. Non vuole collaborare, non compila i questionari: «Che domanda e domanda» dice «Io debbo lavorare, io voglio faticare, io non debbo fare nessuna domanda. Qui si viene per faticare, non per scrivere». Il mondo di Donnarumma e quello del protagonista non si parlano, non si incontrano: la modernità e la fame viaggiano su due binari diversi e hanno percorsi inconciliabili.
Donnarumma all’assalto, dal sito di Ottiero Ottieri: http://www.ottieroottieri.it/?p=292
 

E oggi?

Sono moltissimi gli autori italiani che sono entrati in fabbrica con le loro opere. Se avessi più spazio, parlerei di Il padrone di Goffredo Parise (1965), dei romanzi di Vasco Pratolini, dello straordinario poeta-operaio Luigi Di Ruscio, della trilogia su Vigevano di Lucio Mastronardi, e poi di Giovanni Arpino, Franco Fortini, Luciano Bianciardi, Primo Levi, Nanni Balestrini. Tutti uomini, tutti, più o meno, con un rapporto diretto con la vita in fabbrica o in azienda. Oggi il rapporto con il lavoro è cambiato, ed è cambiata anche la letteratura che lo riguarda. Si parla ancora di industria nei romanzi, anche se le questioni morali e politiche sono cambiate. Prendo due esempi, per certi versi lontani tra loro: nel primo, non si racconta il lavoro attraverso la fiction; nel secondo, invece, si fa un romanzo puro. Angelo Ferracuti racconta il mondo del lavoro attraverso narrazioni ibride, straordinari reportage che indagano nel recente passato del nostro Paese: in Il costo della vita (2013), per esempio, torna al 1987 e racconta, con foto e documenti, la tragedia della motonave Elisabetta Montanari, avvenuta a Ravenna.
Clicca qui per leggere un vecchio articolo sulla Elisabetta Montanari 
Romolo Bugaro, invece, in Effetto domino (2015), allarga l’orizzonte e racconta il nostro tempo, la catastrofe finanziaria in cui siamo immersi: il suo è un romanzo sulla finanza, sul denaro. Non è ambientato in fabbrica, e non c’è con la materia trattata un rapporto che ha che fare con il sudore e le sirene e le pause pranzo: si racconta di una speculazione e del suo fallimento. La riflessione sull’alienazione, gli ingranaggi, la miseria è finita, o si è evoluta fino ad arrivare ad opere come queste, che trattano il lavoro attraverso i flussi di denaro, i contratti, i fidi bancari. Anche questo è lavoro, ed esiste una letteratura che lo racconta. Crediti immagini: Apertura: tastiera di una macchina da scrivere "Lettera 22" della Olivetti, "simbolo" del boom economico (Wikipedia) Box: Fabbrica alta, foto del Comune di Schio su flickr
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