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Storia dell'arte

Pecunia (quasi semper) olet

Nella società fiamminga del XVI secolo pittori come Marinus van Reymerswale realizzavano quadri caricaturali di chi lavorava col denaro: usurai, cambiavalute, banchieri. Tuttavia si andò verso una "moralizzazione" di questi mestieri: nei quadri, l'oggetto-chiave divenne la bilancia, simbolo del giusto equilibro tra lusso e indigenza
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O, almeno, il dubbio assale chi incontri l’opera di alcuni importanti pittori fiamminghi del primo Cinquecento. Marinus van Reymerswale  (1490-1546), per esempio, è un pittore attivo ad Anversa verso la metà del Cinquecento, specializzato in un genere allora di grande successo: il ritratto caricaturale di cambiavalute, banchieri, usurai, esattori. Il disprezzo che il pittore riserva a questi “professionisti del denaro” è esplicito (si noti la deformazione fisiognomica, cui sempre corrisponde una debolezza morale) e riverbera la tradizionale condanna delle “passioni del denaro” – avarizia e avidità – tipica del pensiero religioso fin dal Medioevo. Eppure nella sua acribia c’è una critica più attuale, che riguarda il radicalizzarsi, nella società mercantile dell’epoca, di sperequazioni e abusi, contro i quali si scagliano, tra le altre, le invettive di Lutero e le proteste, fino alla rivolta fiscale, degli stessi mercanti, stanchi di finanziare con le tasse la Chiesa di Roma e le guerre dell’Imperatore Carlo V.
Sull’etica cristiana e il commercio in Lutero: http://dizionaripiu.zanichelli.it/storiadigitale/media/docs/0216.pdf

Marinus van Reymerswale, "Gli esattori", XVI secolo, Londra, National Gallery

E proprio i mercanti di Anversa potrebbero essere, in effetti, i committenti di quella rapina legalizzata che Marinus mette in scena negli Esattori (ca. 1540, Londra, National Gallery; versioni molto simili si trovano anche a Parigi, Louvre; San Pietroburgo, Hermitage; Vienna, Kunsthistorisches Museum): si consideri il senso del ridicolo che si abbatte sugli abiti di lusso e i copricapi della coppia di esattori, o come il giovane, con un ghigno maligno, chiuda la mano sinistra in un gesto rapace di accaparramento, e ancora come il più anziano sia totalmente compreso, quasi incantato dalla registrazione contabile dell’ammontare estorto al contribuente.

Una di fianco all’altra, in palese contiguità, si intrecciano la mano avida che estorce dell’esattore (che lavora a percentuale e ha tutto l’interesse a spremere il contribuente fino all’ultimo centesimo) e quella che scrive del contabile, simbolo di un potere burocratico che, con le sue regole e i suoi libri, legalizza il furto.

Marinus van Reymerswale, "Gli usurai", XVI sec, Firenze, Museo Stibbert

A sottolineare questa interpretazione critica, in almeno due varianti dell’opera – qui si considera quella di Firenze Gli usurai, 1540, Museo Stibbert  – nella pagina aperta del libro dei conti non si leggono cifre, bensì un severo ammonimento contro l’avarizia:

"L’avaricieux n’est jamais rempli d’argent. Etc. N’ayez point s[ouci] de richesses [in] justes, car elles ne vous proufyteront [rien] au jour de la visitation et de vangeance. Souyes doncq sans avarice".

(L’avaro non è mai sazio di denaro, etc. Non ambite a ricchezze ingiuste, perché esse non vi daranno alcun vantaggio nel giorno della Venuta [di Cristo] e del Giudizio. Siate dunque senza avarizia)

L’esattore, l’usuraio, il banchiere sono le maschere sociali dell’avarizia: facendo denaro dal denaro, si arricchiscono a scapito degli artigiani e dei mercanti che invece producono e fanno circolare i beni, li vendono e reinvestono il guadagno nella comunità. L’avarizia stigmatizzata ad Anversa negli anni Trenta del Cinquecento non è dunque il peccato capitale dei dipinti di Bosch, ma piuttosto quella di chi, col suo mestiere, dà vita a una forma primitiva di capitalismo finanziario. In quella stessa società di mercanti, d’altro canto, si manifesta un’altra tendenza, più accondiscendente verso l’accumulazione della ricchezza, che cerca di conciliare, per dirla con Weber, etica protestante e spirito del capitalismo. Di seguito condurremo quindi un esperimento a contrario, andando a vedere come, con quali mezzi e quali strategie, si costruisce un’immagine positiva, o moralmente neutra, del denaro e delle professioni ad esso associate.  

La moralizzazione

Se è vero che “l’avaro non è mai sazio”, come recita il monito degli Usurai di Marinus, che la sua smania è inappagabile e non conosce limite o misura, allora non è l’accumulazione del denaro ad essere moralmente riprovevole, quanto piuttosto il suo eccesso. Ad accumulare denaro può essere un avaro, ma anche un semplice risparmiatore, ruolo non moralizzato e generalmente considerato positivo, oppure il suo opposto simbolico, il dissipatore, che incamera denaro al solo scopo della sua dispersione senza costrutto. La comunità nel suo complesso (la socialità in senso lato) prende la parola nel discorso morale stabilendo le regole di un “dover essere sociale” che le consentano di sopravvivere in quanto tale: all’egoismo individuale, essa oppone la misura. Questa operazione di moralizzazione si appunta sempre sull’ordine del troppo o del troppo poco, sull’eccesso o sull’insufficienza, quali che siano le categorie in nome delle quali viene enunciato il giudizio (etiche, religiose, estetiche). Nel nostro caso, l’avaro desidera troppo, il taccagno cose troppo piccole, il dissipatore spende troppo. È dunque possibile condursi con misura, conciliando etica e guadagno, virtù e profitto? E qual è la figura del giusto equilibrio? A questa domanda risponde Quentin Massys (att. 1491-m. 1530). Fondatore della Scuola di Anversa, autore della cosiddetta Ugly Duchess

Quentin Massys, "La duchessa brutta", 1530, olio su legno, Londra, National Gallery

e di altri dipinti in cui la satira colpisce costumi (“la donna vecchia che cerca di apparire giovane”) e certe figure sociali (sono di Massys i disgustosi Usurai dai quali derivano le interpretazioni successive viste sopra), è senza dubbio il caricaturista più acuto e feroce della sua epoca, ispiratore, si crede, anche di Leonardo.

Eppure ne Il cambiavalute e la moglie (Parigi, Louvre, 1514), il pittore riesce ad astenersi da qualsiasi giudizio immediato ed esplicito sul mestiere del cambiavalute. Nel dipinto, ispirato ad un’opera perduta di Jan Van Eyck (1390-1441), non c’è traccia di satira, e anche il grottesco rimane nel pennello.

Quentin Massys, "Il cambiavalute e la moglie", 1514, olio su tavola, Parigi, Louvre
Il cambiavalute sta pesando le monete sulla bilancia. La moglie, di fianco a lui, interrompe la lettura del libro di preghiere – ma con un dito tiene ancora il segno. Che sia distratta dalle monete e dalle perle sul tavolo (valori materiali) oppure attenta alla misurazione del marito, è difficile dire. In questa prospettiva vale la pena riprendere, pur liberamente, la vecchia lettura di Friedländer (Friedländer 1971) che ha il merito di tendere un filo interpretativo che da Jan van Eyck e Petrus Christus (1410-1475), tramite Massys, arriva a Vermeer (1632-1675). L’attività commerciale e quella contemplativa della preghiera sono, dal punto di vista visivo, mescolate e interconnesse mediante le azioni del marito e della moglie, tra loro non opposte e neppure alternative. Distinti dal contrasto cromatico, i coniugi sono tuttavia simmetrici, fin nel dettaglio delle mani che, pur maneggiando strumenti diversi, ripetono nella forma quasi lo stesso gesto.

Alle spalle della coppia, sullo scaffale, alcuni oggetti richiamano l’imagery della pittura di soggetto religioso (la caraffa, la candela). Tra questi, il rosario appeso a un chiodo è in bella mostra, mentre l’arancio e lo specchio convesso operano un’ulteriore “nobilitazione” del soggetto con i mezzi della pittura, ovvero mediante la citazione di opere imprescindibili quali Il ritratto dei coniugi Arnolfini di Van Eyck (1434, Londra, National Gallery) e il Ritratto di Sant’Eligio di Petrus Christus (1449, New York, Metropolitan Museum of Art).

Jan Van Eyck, "Ritratto dei coniugi Arnolfini", olio su tavola, 1434, Londra, National Gallery.
Peter Christus, "Sant'Eligio nella bottega di un orefice", 1449, olio su tavola, New York, Metropolitan Museum
Lo specchio convesso, inoltre, introduce nello spazio del dipinto (quindi del racconto) una realtà extra-testuale visibile solo a noi che guardiamo (uno spazio d’interpretazione):

un uomo con un turbante rosso sta leggendo un libro, alle sue spalle si vede il campanile di una chiesa.  Insieme alla “vignetta” che si apre sullo sfondo del dipinto, dietro una porta che dà sulla strada, lo specchio istituisce la coppia come mediatrice tra due situazioni ben distinte: il bla bla ozioso della vita quotidiana (vignetta) e la pura contemplazione della parola di Dio (uomo col turbante riflesso nello specchio). Una categoria dello spazio – la medietà – diventa una categoria morale – la giusta misura – nella figura della bilancia, i cui piatti sono le polarità tra le quali deve stabilirsi un equilibrio giusto tra mondanità e virtù. Eppure l’esito dell’operazione – di pesatura e di giudizio – non è scontato, e rimane in qualche modo sospeso nello sguardo della moglie del cambiavalute, insieme concentrato sui valori materiali e distratto dalla preghiera. Se si guarda ora invece alla più tarda versione di Marinus,

Marinus van Reymerswale, "Il cambiavalute e la moglie", 1539, olio su tavola, Parigi, Louvre
il dubbio si è dissolto. Il mondo del cambiavalute si è chiuso in se stesso (è sparito lo specchio, e con esso il rimando ad altre dimensioni, reali e simboliche) e basta la natura morta alle spalle della coppia ad istituire un’equivalenza tra il disordine e delle carte e degli oggetti nella stanza e il disordine morale di chi è dedito all’accumulazione fine a se stessa (le monete sul tavolo). E se si considera che il valore della moneta era dato dal suo peso e dalla quantità di metallo nobile in esso contenuta, al di là del suo valore nominale, assume rilevanza anche l’esibizione della scatola dei pesi monetali, quadrati, utilizzati per controllare la bontà della moneta – che ci dice più dell’avidità del cambiavalute che non del carattere propriamente descrittivo della pittura fiamminga. E, con la bilancia, siamo a Vermeer, in particolare a Donna con la bilancia (ca. 1662-3, Washington, National Gallery of Art).

Jan Vermeer, "Donna con una bilancia", 1664, olio su tela, Washinghton, Nation Gallery of Art
In un interno borghese, illuminato da una finestra che si intravede appena sotto una tenda gialla, una donna di profilo guarda intenta la bilancia che tiene nella mano destra. La mano sinistra poggia delicatamente – quasi a mantenere l’esile bilancino in equilibrio – sul tavolo davanti a lei  su cui sono appoggiati un panno blu, un paio di portagioie aperti, collane di perle e d’oro e monete. Sulla parete di fondo, alle spalle della donna, in una cornice liscia dai riflessi dorati, è appeso un Giudizio Universale. Ciò che nel quadro di Massys era lo specchio convesso, qui è il quadro riportato: la presenza del “quadro nel quadro” rende il dipinto di Vermeer un’immagine interpretabile.  Qual è la relazione tra la donna e il Giudizio? Il dipinto è un ammonimento – “Ah, stai pesando dei gioielli? Sarai pesata e giudicata a tua volta” (Thoré-Bürger 1866)? Una scena simbolica dal significato univoco, una vanitas – la donna si preoccupa delle ricchezze del mondo invece di prepararsi al Giudizio? Eppure i piatti della bilancia sono vuoti, non è il valore dei gioielli che le interessa. La tesi di Friedländer è che Vermeer ripeta piuttosto, con altre forme, il messaggio di Massys: osservando accuratamente l’equilibrio dei piatti vuoti della bilancia, la donna realizza la giustizia terrena mediante l’imitazione della Giustizia Divina, rappresentata nel dipinto alle sue spalle. E metta tutta se stessa a conservare l’equilibrio tra etica e profitto, senza cedere alla cupidigia. Altri ancora (Alpers 1977), evidenziando il carattere descrittivo della pittura olandese del Seicento, preferisce una lettura più laica e domestica del dipinto: il Giudizio Universale alle spalle della donna non è un giudizio su di lei; al contrario, la donna con la bilancia è il “giudice giusto” della casa – e dalla società – olandese del tempo.  

Conclusioni

Difficile stabilire quale sia l’interpretazione vera, se mai ve n’è una. A mo’ di conclusione possiamo comunque fare un punto di metodo, evidenziando come la “macchina della pittura” costruisca il proprio messaggio, in quest’ultimo come negli altri dipinti esaminati. È evidente come la moralizzazione dei ruoli e delle figure connesse al denaro avvenga per due vie principali: la rinuncia al “grottesco” e la costruzione di una scena in cui l’accento si sposta dalle monete e dalle perle (oggetto-valore) alla bilancia (strumento della misurazione del “giusto” valore). Dal “bene” al metodo, potremmo dire, dalla materialità al criterio che sa mediare tra ideale e quotidianità. La bilancia è quindi la figura che organizza i due livelli del discorso pittorico: la forma (descrizione equilibrata, senza eccessi, delle persone e degli ambienti) e il contenuto (la ricerca di un equilibrio virtuoso tra etica e guadagno).
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