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Lettere classiche

Il confine violato. Roma, dal mito di fondazione alla guerra fratricida

Cesare che passa il Rubicone e Remo che supera il solco tracciato dal fratello Romolo: in entrambi i casi siamo di fronte alla violazione di un confine, che al tempo stesso è un limite politico-territoriale e morale
leggi

10 gennaio 49 a.C., Cesare varca il Rubicone. La guerra civile, che opporrà Pompeo e l'aristocrazia senatoria al conquistatore delle Gallie, ha inizio con un confine violato, un vulnus al cuore della repubblica. Il Rubicone, un piccolo fiume che sfocia nell'Adriatico poco a nord di Ariminum (l'odierna Rimini), segna il limite tra la Gallia Cisalpina e la penisola italica, tra la provincia e il territorio di Roma, secondo i confini ridisegnati da Silla. Un limite assolutamente invalicabile per un magistrato romano a capo di un esercito senza l'autorizzazione del senato.

 

Il silenzio di Cesare

Eppure di questo evento non resta traccia nei Commentari di Cesare. Il generale è a Ravenna con una sola legione, in attesa di una risposta «alle sue moderatissime richieste (suis lenissimis postulatis)», nella speranza che si giunga ad un accordo pacifico (De bello civile 1,5). Intanto a Roma prevalgono i metodi autoritari dell'aristocrazia ostile a Cesare, ora capeggiata da Pompeo: esautorati i tribuni della plebe, proclamato il senatusconsultum ultimum, si fanno leve in tutta Italia rapinando l'erario dei municipi e il tesoro dei templi. Di fronte all'indiscriminata violazione di tutte le leggi da parte del senato di Roma (omnia divina humananque iura permiscentur, 1,6), Cesare arringa i soldati, rinsalda il personale vincolo di fedeltà che li lega al loro generale, e con quell'unica legione parte per Rimini (Ariminum cum ea legione proficiscitur, 1,8), dove incontra i tribuni della plebe che si rifugiano presso di lui.

Rimini, la prima città oltre il confine della Gallia Cisalpina. Nella prospettiva di Cesare, il passaggio del Rubicone non merita nemmeno di essere menzionato: di fronte alla generale violazione del diritto, che importanza può avere un confine violato per chi si presenta come il garante autentico della legalità?

 

Il racconto paradossale di Plutarco e Svetonio

Sono altri storici, come Plutarco (Cesare 32) e Svetonio (Vita di Cesare 31-32), a narrare il passaggio del Rubicone, e il loro è un racconto sorprendente.

Cesare invia di nascosto i legionari ad occupare Rimini, armati di sola spada per non sollevare tumulto, mentre lui stesso si trattiene a Ravenna mostrandosi in pubblico, prima a uno spettacolo di gladiatori, poi a banchetto con numerosi ospiti. Si alza da tavola dopo il tramonto, salutando come se dovesse tornare, e di nascosto si dirige verso il Rubicone su un carretto tirato da muli, preso a nolo presso un mulino, ma perde la strada e vaga nell'oscurità per tutta la notte. All'alba, trovata una guida, riprende a piedi il cammino attraverso angusti sentieri, e giunto finalmente sulla riva del fiume, esita incerto, in preda al dubbio.

È difficile riconosce nel protagonista di questo racconto il glorioso conquistatore delle Gallie, il condottiero capace di costruire ponti sul Reno e penetrare fin nel territorio dei Germani. Piuttosto, Cesare vi compare come un attore consumato, astuto e dissimulatore, un sorta di antieroe picaresco.

 

Sogni e apparizioni prima del nefas

Nella versione di Svetonio, un prodigio incoraggia Cesare a varcare il Rubicone, l'apparizione di un uomo dall'aspetto divino, intento a suonare il flauto: accorre una folla di pastori e soldati, e l'uomo, strappata la tromba a uno dei presenti, si slancia verso il fiume suonando con forza il segnale di battaglia e passa sull'altra riva. È la ricerca di una legittimazione divina alla violazione che Cesare sta per commettere.

Al contrario nella versione di Plutarco, la decisione di Cesare è frutto della riflessione, del suo lungo esitare tra opposti pareri, turbato dall'audacia e dalla difficoltà dell'impresa. Ma anche Plutarco riferisce di un prodigio: la notte prima di passare il Rubicone, Cesare avrebbe sognato di congiungersi incestuosamente con sua madre. Passare il Rubicone (il simbolismo è chiaro) significa dunque profanare la sacralità del territorio romano, violare la madre patria.

E Lucano, nel suo poema epico sulla Guerra civile, immagina che, nell'atto di varcare il fiume, Cesare, un risoluto eroe del male dall'indomita furia devatatrice, sia visitato proprio dall'immagine della Patria, una figura maestosa ma maestissima, afflitta e lacera nell'aspetto, intervenuta a indicare quel limite invalicabile che si impone al rispetto di chiunque agisca nella legalità (Pharsalia 1, 185 ss.). Nella memoria storica dei Romani il Rubicone rappresenta il discrimine tra lecito e illecito: oltrepassarlo è nefas, un crimine che viola la legge umana e divina.

Per ripercorrere le tappe del percorso che porta Roma alla guerra civile, puoi vedere http://www.raistoria.rai.it/articoli/cronache-dallantichit%C3%A0-giulio-cesare-il-dado-%C3%A8-tratto/32332/default.aspx 

 

Romolo, la fondazione e il fratricidio

Per capire la gravità del gesto di Cesare, nelle sue risonanze culturali, occorre risalire al mito di fondazione della città, alla contesa augurale tra Romolo e Remo, e al fratricidio legato al rituale di definizione del confine urbano.

Siamo a Roma, il primo giorno. Romolo è impegnato a tracciare con l'aratro il solco della nuova città secondo il rito etrusco: indossa una toga alla maniera dei Gabii, cinta in vita e con un lembo che gli copre la testa (cinctus Gabinus), aggioga a un aratro dal vomere in bronzo un toro all'esterno e una vacca all'interno, entrambi bianchi, e tenendo con forza la stiva inclinata, in modo da orientare verso l'interno la terra scavata, traccia in senso antiorario il sulcus primigenius, a partire dall'angolo sud-ovest del Palatino, sollevando il vomere soltanto nei punti in cui prevede l'apertura di una porta. Remo, uscito sconfitto dalla contesa augurale, cerca di ostacolare le operazioni, fino a superare il solco con un salto, ed è allora che cade colpito dal suo stesso fratello.

Esiste anche un'altra versione del mito, secondo la quale Remo sarebbe morto nella mischia sorta tra le due fazioni rivali in seguito all'esito incerto della contesa augurale (pare infatti che Romolo si sia assicurato la vittoria con l'inganno, mandando a chiamare Remo prima del tempo e avvistando i dodici avvoltoi della vittoria solo all'arrivo del fratello, che invece ne aveva già visti sei). Ma la tradizione scarta questa versione apparentemente più logica, a favore della prima.

Perché si preferisce porre un fratricidio alle origini di Roma?

 

Il salto di Remo e la sacralità violata

Nel sulcus primigenius c'è già tutta la cinta muraria di Roma: secondo il rituale etrusco la fossa di fondazione del murus viene realizzata allargando e approfondendo quel primo solco tracciato con l'aratro. Ed è il murus sanctus, sacro e invalicabile. Qual è dunque il significato del salto di Remo? Perché il suo gesto è così grave da giustificare il delitto di Romolo?

Plutarco spiega le ragioni del fratricidio in relazione alla sacralità della cinta muraria: «Così si ritiene che … Romolo abbia ucciso il fratello, perché aveva tentato di oltrepassare un luogo inviolabile e sacro e renderlo attraversabile e profano» (Questioni Romane 11, 4).

Per Remo oltrepassare il solco primigenio era un gesto eclatante per smascherare l'inganno di Romolo, per negare la sacralità della sua fondazione. Per Romolo, d'altra parte, lasciare impunito il salto di Remo avrebbe significato permettere che le mura diventassero «attraversabili e profane». La morte del trasgressore era la condizione necessaria per ristabilire la sacralità e inviolabilità delle mura. Così, nella memoria collettiva dei Romani, il mito di Remo diventa la prova del fatto che le mura sono sanctae e che nessuno può violarle impunemente, nemmeno il fratello del re. Non a caso, negli Annales di Ennio, Romolo esclama nell'atto di uccidere il fratello: «Nessun uomo vivente farà questo impunemente, neppure tu: mi darai soddisfazione della colpa con il tuo sangue caldo (mi calido dabis sanguine poenas, v. 100)»; e nelle parole attribuite a Romolo da Livio è chiaro il valore esemplare che la punizione deve assumere: «Così chiunque altro scavalcherà le mie mura (Sic deinde, quicumque alius transiliet moenia mea, Livio 1,7,2).

(Crediti immagini: Wikipedia e Wikipedia)
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