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Lettere classiche

Res novae. Tentazioni rivoluzionarie e realismo politico nella crisi della tarda repubblica

Nel "De Catilinae coniuratione" Sallustio scrive che crisi economica e imbarbarimento dei costumi furono alla base delle motivazioni del tentativo rivoluzionario di Catilina (63 a.C.). Ma il sistema romano era davvero riformabile? E che ruolo ebbe Cesare nella congiura?
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63 a.C., un anno cruciale nella crisi della Res publica. Lucio Sergio Catilina, ripetutamente bocciato alle elezioni per il consolato, mette in atto un piano eversivo per impadronirsi del potere. Smascherato in senato dall'allora console Cicerone (ce ne resta il discorso, rielaborato per la pubblicazione, nella Prima Catilinaria), Catilina fugge da Roma per unirsi alle forze ribelli in Etruria e qui muore valorosamente in battaglia contro l'esercito inviato dal senato.

 

La congiura di Catilina secondo Sallustio: la morte annunciata della repubblica

Il moralista Sallustio sceglie questo episodio come tema della sua prima monografia storiografica riconoscendo in esso un momento topico della parabola discendente che decreterà la fine della repubblica tradizionale. L'indebitamento irreparabile di importanti famiglie del ceto dirigente romano e la degenerazione morale della politica sono per Sallustio le principali cause della congiura. In un quadro di corruzione generalizzata e di forti tensioni sociali, Catilina riesce a intercettare larghe fasce di dissenso: nobili che, come lui, sono ridotti sul lastrico dai costi della politica e hanno esaurito le loro risorse in sfortunate campagne elettorali, giovani insofferenti di un sistema asfittico e in cerca di rapida ascesa sociale, cittadini rovinati dai debiti e destinati a ingrossare la massa affamata del proletariato urbano.

 

Economia creditizia e ingiustizia sociale

Sallustio ci offre uno squarcio sul clima di ingiustizia sociale in cui è maturata la congiura, dando voce alle ragioni dei congiurati nella lettera che Gaio Manlio, capo dei rivoluzionari in Etruria, avrebbe inviato a Marcio Re, comandante dell'esercito regolare (De coniuratione Catilinae 33). Manlio dichiara solennemente che i congiurati non hanno impugnato le armi né contro la patria né contro una parte politica, ma vogliono soltanto difendere se stessi dall'ingiustizia (uti corpora nostra ab iniuria tuta forent). Sono cittadini rovinati dai debiti, privati di ogni proprietà e persino della patria dall'accanimento degli usurai, gettati in carcere o costretti a lavorare la terra di altri come braccianti, alla stregua di schiavi. Nessuna aspirazione però a un radicale mutamento della struttura politica e sociale dello stato. La lotta armata nasce dalla necessità di difendere la libertà personale, di limitare gli effetti devastanti di un'economia creditizia, che non esita a stritolare nel meccanismo del prestito di denaro, ad altissimo interesse, i debitori insolventi. «Noi non vogliamo il governo dello stato né le ricchezze (At nos non imperium neque divitias petimus), a causa delle quali nascono tutte le guerre e le lotte tra i mortali, ma la libertà (sed libertatem) che nessun uomo perbene perde se non con la morte», conclude Manlio (33,4).

 

Vindicare in libertatem: con le riforme o con la rivoluzione?

«Restituire la libertà» è lo slogan di Catilina nella campagna elettorale del 64 (Nosmet ipsi vindicamus in libertatem, De coniuratione Catilinae 20,6) – ed è significativo che la stessa formula sia impiegata come giustificazione della guerra civile da Cesare prima (ut se et populum Romanum factione paucorum oppressum in libertatem vindicaret, «per restituire la libertà a sé e al popolo romano, oppresso da una fazione di pochi», De bello civili 1, 22), e da Ottaviano (ormai divenuto Augusto) poi (Rem publicam a dominatione factionis oppressam in libertatem vindicavi, ho restituito la libertà allo stato, oppresso dal dominio di una fazione, Res Gestae 1). Ma i catilinari come intendevano realizzare la loro aspirazione alla libertas?

In verità la lettera di Manlio non indica nessuna soluzione “rivoluzionaria” richiamandosi piuttosto alla tradizione: linea moderata nella pena e programmi di riduzione del debito per permettere al debitore di fare onore all'impegno preso e al creditore di non perdere capitale. Manlio si richiama per esempio a un provvedimento emanato da Lucio Valerio Flacco nell'86 (De contiuratione Catilinae 33,2), che prescriveva l'estinzione in assi di bronzo del debito contratto in sesterzi d'argento, così da ridurre l'ammontare della somma dovuta. Se però confrontiamo le promesse fatte da Catilina ai suoi seguaci durante la campagna elettorale del 64 (De contiuratione Catilinae 21,2), il programma è ben più radicale: abolizione dei debiti (tabulae novae), liste di proscrizione per i ricchi (proscriptio locupletium), nonché l'abituale spartizione delle magistrature tra i fedelissimi del vincitore. Nessuna meraviglia dunque se a Catilina l'accesso al consolato fu nuovamente sbarrato (ricorrendo senza scrupolo a metodi al limite della legalità, ma su questo Sallustio tace poiché a Roma la manipolazione del voto era pratica consueta).

 

Inapplicabilità del programma rivoluzionario e il dietrofront di Cesare

Per l'establishment romano qualsiasi proposta di cancellazione dei debiti (tabulae novae) è semplicemente irricevibile. Non lascia dubbi in proposito Cicerone, che così liquida l'idea: «La cancellazione dei debiti quale altra logica rivela se non che tu con il mio denaro compri un fondo e ce l'hai, mentre io non ho più il mio denaro?» (De officiis 2,84). Se l'economia romana è basata sul credito, argomenta Cicerone, cancellare il debito significa portare l'attacco dritto al cuore dello stato, minacciarne la stessa sopravvivenza.

Di questo è ben consapevole anche Cesare. Nella monografia sallustiana Cesare resta lontanissimo dalla congiura, in equilibrio con Catone nel dibattito sulla pena da infliggere ai catilinari arrestati a Roma. Al contrario, nella congiura Cesare è chiaramente implicato, ma capisce in tempo che l'iniziativa di Catilina è priva di qualsiasi sbocco politico. E tuttavia il leader dei populares rischia di pagare caro quel suo iniziale coinvolgimento. Da Svetonio (Divus Iulius 17) sappiamo infatti che il cavaliere romano Lucio Vezio dichiarò di essere in possesso di compromettenti lettere autografe di Cesare a Catilina. Sappiamo anche che Quinto Curio, elemento prezioso per la repressione della congiura, presentò al senato una lista di congiurati comprendente il nome di Cesare. A salvare il futuro dittatore fu l'intervento del console in persona, Cicerone (che ebbe poi motivo di pentirsene). Su pressione dell'interessato, Cicerone affermò che Cesare di sua spontanea iniziativa gli aveva fornito preziose informazioni sulla congiura, dichiarandolo così al di sopra di ogni sospetto (si capisce che l'argomento era a doppio taglio: difficilmente Cesare poteva conoscere dettagli sulla congiura senza avere contatti con i congiurati, ma nessuna obiezione fu mossa alla difesa del console).

 

Cesare e il dilemma di un leader popolare

Per un leader di parte popolare è necessario assicurarsi il consenso della base, ed è perciò ragionevole ricercare l'accordo con tutti coloro che, come i catilinari, si fanno interpreti delle esigenze della plebe urbana. Cesare però sa anche che mettersi alla testa dello scontento popolare porta alla rovina politica. I suoi primi atti da dittatore, al rientro da Farsalo (dove nel 48 a.C. sconfisse i pompeiani, ma la guerra civile si protrasse a lungo negli anni del suo governo), sono ispirati alle istanze tradizionali dei populares, ma attuati con estrema accortezza. Cesare non vara leggi agrarie, terrore dei proprietari terrieri, ma avvia programmi di deduzione delle colonie, per dare terra e nuove prospettive di sostentamento ai diseredati alleggerendo numericamente la plebe urbana di Roma; non cancella il debito, ma lo riduce per dare respiro ai debitori senza penalizzare i creditori; soprattutto, estende la cittadinanza, moltiplica le magistrature, allarga la base del senato portandolo da seicento a novecento membri.

Perché la res publica da sempre è in mano a pochi. È un'oligarchia che perpetua se stessa attraverso il voto popolare, e il voto è pilotato, manipolato, comprato.

Quando con Augusto, sotto il velo della restaurazione della repubblica, il potere è accentrato nelle mani di un unico princeps, il ceto dirigente rinuncia alla libertas in cambio della pax, ma di quella libertas in effetti pochissimi anche fino ad allora hanno goduto.

Per approfondire il concetto di rivoluzione nel mondo classico puoi seguire la conferenza di Luciano Canfora sul Profilo del rivoluzionario al seguente link:

https://vimeo.com/33591131

 

(Crediti immagini: Wikipedia e Wikipedia)

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