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Filosofia

Nuove frontiere. Stato e identità ai tempi della globalizzazione

È a partire dagli anni Novanta che i filosofi analizzano vantaggi e svantaggi del fenomeno della globalizzazione economica, politica e culturale, interrogandosi in particolare sul ruolo e sulle funzioni dell’istituzione statale nel nuovo ordine globale. Pur trattandosi di un processo contemporaneo, le loro riflessioni si inseriscono nella tradizione del cosmopolitismo democratico, che affonda le proprie radici nell’Illuminismo europeo.
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La globalizzazione è un fenomeno complesso e contraddittorio che nelle riflessioni dei filosofi politici è spesso studiato a partire dal ruolo della forma-Stato nell’attuale assetto internazionale. Negli ultimi decenni, la nozione di Stato è oscillata tra significati contrastanti: ultimo baluardo dei valori tradizionali per i fronti conservatori; ostacolo per i sostenitori del libero mercato globale; fondamento imprescindibile di una democrazia cosmopolitica per i pensatori progressisti. È la Caduta del muro di Berlino, nel novembre 1989, ad accelerare definitivamente il processo di globalizzazione, aprendo al libero mercato gli ultimi spazi geo-politici che ne erano ancora esclusi. A partire dagli anni Novanta, si moltiplicano le analisi filosofiche sul nuovo «ordine globale», tra recupero della tradizione kantiana e lettura critica dei nuovi processi.
Per una riflessione filosofica più generale sul processo della globalizzazione, sui suoi molteplici significati e le sue implicazioni politiche e culturali, si rimanda alla seguente puntata di Zettel: http://www.filosofia.rai.it/speciale/lo-speciale-di-rai-filosofia-la-globalizzazione/1134/24177/default.aspx
 

Globalizzare la pace: la tradizione del cosmopolitismo democratico

Con l’espressione cosmopolitismo democratico si indica una tradizione di pensiero tipicamente europea che affonda le proprie radici nel saggio di Immanuel Kant (1724-1804) Per la pace perpetua, apparso nel 1795. Fulcro del pensiero kantiano è la convinzione che al di fuori delle singole comunità statali esista una comunità superiore, cosmopolitica, a cui apparterrebbe ogni individuo, in quanto tale e non in quanto cittadino di uno Stato. La posizione di Kant segna il passaggio da un diritto internazionale concepito come jus ad bellum, codice regolatore tra Stati che si trovano tra loro in costante tensione, a un diritto internazionale inteso come strumento di tutela della pace mondiale. Per Kant, gli Stati non dovrebbero sacrificare le singole identità nazionali, ma impegnarsi volontariamente a garantire la pace sul piano internazionale. Questo risulterebbe tanto più facile per le repubbliche, la cui forma di governo le renderebbe maggiormente portate a comportarsi pacificamente anche verso l’esterno. A recuperare queste idee è il giurista e filosofo austriaco Hans Kelsen (1881-1973), che nel 1944 pubblica il volume La pace attraverso il diritto. Sullo sfondo delle macerie della Seconda guerra mondiale, Kelsen vede nel progetto kantiano la base da cui partire per rifondare il diritto internazionale. A differenza di Kant, tuttavia, Kelsen considera oramai doverosa la costituzione di istituzioni sovranazionali con potere giuridico. Le buone intenzioni degli Stati, anche di quelli democratici, si sono infatti rivelate drammaticamente insufficienti. A questo si aggiunge la consapevolezza di uno scenario internazionale sempre più complesso, in cui diviene evidente lo scarto tra chi prende le decisioni e coloro su cui ne ricadono gli effetti. Le riflessioni di Kelsen hanno contribuito alla creazione delle attuali autorità internazionali e sono un punto di riferimento imprescindibile per filosofi politici contemporanei quali David Held e Jürgen Habermas che considerano l’Unione Europea, pur con tutte le difficoltà che ne caratterizzano l’operato, il primo esempio di istituzione sovranazionale con poteri vincolanti.  

Il cosmopolitismo liberale: meccanismo naturale o progetto politico?

Al cosmopolitismo democratico si contrappone il cosmopolitismo liberale (o neoliberale) che si ispira alla teoria del libero scambio. I suoi sostenitori considerano la globalizzazione economica un meccanismo naturale e auto-regolativo che permetterà a strati sempre più ampi di popolazione di migliorare le proprie condizioni di vita, a patto di saper sfruttare le opportunità offerte dalla globalizzazione stessa. Per il cosmopolitismo liberale, la sovranità statale è l’ostacolo principale da abbattere per accedere ai vantaggi commerciali e finanziari. Sono tuttavia molti i critici, di diversa formazione, che tentano di smascherare la presunta neutralità di questo processo. Tra i filosofi contemporanei, è forse lo statunitense Noam Chomsky, classe 1928, il più deciso oppositore della globalizzazione economica, che egli considera solo una delle possibili «modalità di integrazione internazionale». Da sempre convinto anarchico, Chomsky evidenzia come dietro ai cosiddetti “accordi di libero scambio” si celino in realtà gli interessi di Stati e multinazionali il cui obiettivo è incrementare i profitti sfruttando la mancanza di regolamentazioni locali. Per Chomsky, non solo questi accordi, in quanto di fatto unilaterali, non possono essere ritenuti propriamente tali, ma riguarderebbero prevalentemente i «diritti degli investitori» e non il commercio. Inoltre, in contrasto con gli stessi assiomi del libero mercato, introdurrebbero elementi fortemente protezionistici come nel caso delle tutele dei brevetti intellettuali. Cogliere queste contraddizioni significa mostrare come le leggi del mercato non siano affatto leggi naturali, ma il frutto di decisioni precise prese da un ristretto numero di attori globali.
Intervistato al Festival della Filosofia nel 2016, il giornalista Federico Rampini problematizza in modo sintetico ed efficace le discrepanze tra i modelli economici teorici e la situazione dell’economia reale: http://www.filosofia.rai.it/speciale/l%E2%80%99utopia-della-convivenza-pacifica/1938/38231/default.aspx
 

Resistere alla globalizzazione: dai no global ai nuovi nazionalismi

30 novembre 1999. A dieci anni dalla Caduta del muro di Berlino, l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale si sposta sulla città di Seattle, Stati Uniti. In occasione della conferenza dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, circa 40.000 persone manifestano contro negoziati che mirano a nuove liberalizzazioni. La massa dei dimostranti è eterogenea: attivisti politici, ecologisti, associazioni di consumatori, gruppi che reclamano l’estensione globale dei diritti dei lavoratori, altri che spingono per la cancellazione del debito pubblico per i paesi più poveri, frange estremiste del movimento anarchico (black bloc). Nonostante la trasversalità del movimento, i vari gruppi si coordinano e mettono in atto originali strategie di protesta. La “Battaglia di Seattle” rende per la prima volta visibile al mondo l’esistenza di un fronte antiglobalizzazione, mostrandone però anche le incoerenze interne. In Globalizzazione e libertà (2002), il filosofo ed economista Amartya Sen evidenzia, ad esempio, come «le stesse proteste antiglobalizzazione sono di fatto uno degli eventi più globalizzati del mondo contemporaneo», riconoscendo tuttavia che «la globalizzazione delle relazioni non è certo quello che i partecipanti al movimento vogliono fermare». La resistenza alla globalizzazione si esprime anche sul versante politico opposto. Nel momento in cui lo Stato-nazione si mostra sempre più in difficoltà nel gestire alcuni fenomeni tipicamente contemporanei come le delocalizzazioni e altri, tutt’altro che inediti dal punto di vista storico, come le migrazioni, si assiste a un rinvigorimento dei movimenti nazionalisti che recuperano vecchie narrazioni identitarie o ne costruiscono di nuove. Mentre, quindi, le resistenze di sinistra prendono di mira il cosmopolitismo liberale, quelle di destra osteggiano tanto il cosmopolitismo liberale quanto quello democratico. Già alla fine degli anni Novanta, filosofi come Jürgen Habermas registravano il moltiplicarsi, nelle «società del benessere», di reazioni etnocentriche contro le categorie del diverso. Habermas non si stupiva di questa tendenza, ritenendola fisiologica dei periodi che seguono alle forti spinte modernizzatrici: la nascita e la rapida espansione di nuovi mercati, mezzi di comunicazione e reti culturali hanno creato opportunità, ma anche destabilizzazione e incertezze, pronte a sfociare in reazioni di netta chiusura verso il nuovo e l’esterno. Un processo inevitabile ma non del tutto negativo se, «dopo essersi disintegrato sotto una spinta innovativa», il contesto di riferimento si rinchiude entro «orizzonti più ampi» di quelli di partenza (La costellazione post-nazionale, 1998).   Crediti immagini Apertura: Scontri di Seattle per la conferenza OMC del 1999 (Wikimedia Commons) Box: Edizione originale di "Per la pace perpetua" di Immanuel Kant (Wikimedia Commons)
WTO_protesters_on_7th_Avenue,_1999_(37326739756)
KantZeF1795

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