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Scrivere a tempo

Esistono libri che funzionano come opere musicali; il loro ritmo, la loro struttura, il loro linguaggio sono mutuati dalla musica. Da Kerouac a Truman Capote, romanzi e poesie scritti a tempo di jazz o di musica da camera.

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Ii-di-li-iah! Crak, ta-ra-ta-bum, crak! eccetera Si sa che Jack Kerouac impiegò poco più di tre settimane per scrivere Sulla strada, il romanzo-manifesto della beat generation, e che lo fece su un rotolo per telex lungo 36 metri che divenne negli anni successivi un oggetto di culto. Era il 1957, e quasi mezzo secolo dopo il rotolo fu venduto all’asta per oltre 2 milioni di dollari. La velocità, si direbbe la frenesia con cui Kerouac scrisse il suo romanzo fecero dire di lui dal suo grande contemporaneo Truman Capote che, più che uno scrittore, Kerouac era un dattilografo.

Diviso in cinque parti, il romanzo (francamente bruttino e i cui sessant’anni compiuti, leggendolo, si sentono proprio tutti) racconta i vagabondaggi per l’America di Sal Paradise (alter ego dell’autore) e dell’inseparabile amico Dean Moriarty, tra sogni letterari, droghe, viaggi senza meta, strade deserte e luoghi simbolo della controcultura americana. Ma Sulla strada è anche un libro pieno di musica. Ora, vorrei evitare che chi legge possa cadere in un equivoco: questo pezzo non vuole essere un elenco più o meno ragionato di romanzi che parlano di musica, o che contengono titoli di canzoni o opere, o che le citano; vorrei provare a parlare di quei libri che funzionano come opere musicali, ossia il cui ritmo, la cui struttura, il cui linguaggio è mutuato dalla musica. Sulla strada è un buon esempio: benché non sia un capolavoro, ampi stralci del romanzo sono scritti a ritmo di jazz – una musica che Kerouac amava e conosceva e che ascoltava mentre scriveva. Anzi: esistono sue dichiarazioni in cui confessa che, mentre scrive, si diverte a battere sui tasti al ritmo della batteria delle orchestre jazz che ascolta. Nel romanzo, Sal e Dean passano parecchie serate in club più o meno malfamati in cui si suona. E la musica modella il ritmo delle frasi di Kerouac. Ecco un esempio: è il quarto capitolo della terza parte, Sal e Dean sono a San Francisco, vanno verso Folsom Street, una via del quartiere afroamericano, che è uno dei centri nevralgici della subcultura americana. La strada pullula di locali e di suonatori e Kerouac la descrive così:

Il sax-tenore col cappello stava suonando sull’onda di un meraviglioso soddisfacente motivo improvvisato, una frase ripetuta che si alzava e ricadeva e andava da «Ii-iah!» fino a un più indiavolato «Ii-di-li-iah!» e imperversava al suono della cascata scrosciante della batteria incrinata, martellata da un grosso negro brutale dal collo taurino cui non importava un corno di niente fuorché di castigare i suoi logori tamburi. «crak, ta-ra-ta-bum, crak». Scrosciar di musica col sax-tenore ch’era in istato di grazia e tutti lo sapevano. Dean si stava afferrando la testa tra la folla, ed era una folla di pazzi. Stavano tutti a incitare il sassofonista, con urli e stralunar d’occhi, perché tenesse duro e continuasse, e lui si sollevava sulle ginocchia e si abbassava di nuovo col suo strumento, lanciandolo alto in un chiaro grido sopra il furore. Una negra ossuta altissima dondolava le sue ossa contro la bocca del sassofono di lui, ed egli lo spingeva verso di lei: «Iih! iih! iih!».

Il capitolo è pieno di suoni come crak-crak-crak, ta-ra-ta-bum!; i fiati, ma anche le risate, fanno Iiiihhh-aahhh!, i personaggi parlano tra loro facendo continuamente esclamazioni come Ui-hi!, che letteralmente suonano come suonano gli strumenti che Kerouac mette in scena. Uomini, tamburi, sax e pianoforti parlano per alcune pagine la stessa lingua, come se tutta la scena fosse una grande variazione jazz in cui non conta ciò che si dice (i dialoghi, infatti, sono ridotti al minimo), ma come lo si dice. E travolti da questa festa di musica in cui tutti i personaggi parlano come strumenti e gli strumenti suonano come voci, Sal e Dean si perdono, e hanno dialoghi surreali come questo, dove a parlare non è più un uomo, ma un sax: «Sì! Non c’è niente che mi piaccia più di una bella baldoria! Dove andiamo?». Dean saltava su e giù sul sedile, ridacchiando come un pazzo. «Dopo! Dopo!» esclamò il sax-tenore.

Mandare a gambe all’aria la sintassi

Esiste dunque la possibilità di costruire opere letterarie come se fossero pezzi musicali. Il jazz è stato sicuramente la più grande rivoluzione musicale del Novecento, e sui suoi ritmi sincopati, sull’idea di arte come improvvisazione intere generazioni di poeti e scrittori hanno basato le loro carriere: pensate agli esperimenti linguistici dei futuristi, e alle strutture sghembe delle loro poesie. Che cosa affascinava tanto, del jazz? Sicuramente il rumore, la possibilità di uscire dagli schemi preconfezionati della musica per come la si era ascoltata finora, e anche l’idea di libertà assoluta che ispirava: se un musicista jazz, improvvisando, può addirittura permettersi di uscire dall’accordo, perché non lo possono fare i poeti, e rovesciare la sintassi, mandarla proprio a gambe all’aria? Filippo Tommaso Marinetti, capitano dei futuristi italiani, nel 1921 lesse pubblicamente uno dei tanti manifesti del movimento, che non a caso aveva intitolato L’improvvisazione musicale: in esso, ovviamente, si celebrava l’idea dell’improvvisazione in poesia, l’onomatopea, l’apparente disordine linguistico. Come accade in quella che forse è una delle sue composizioni più celebri, Zang Tumb Tumb, che il poeta leggeva a volte addirittura canticchiando dei versi. Ascoltate:

Filippo Tommaso Marinetti legge Zang Tumb Tumb: http://www.fareletteratura.it/2012/02/21/video-marinetti-legge-zang-tumb-tumb/ Qui, invece, potete leggere l’estratto di un interessante saggio sui rapporti tra futurismo italiano e jazz: http://www.luciaianniello.com/wp-content/uploads/2014/06/Futurismo-e-jazz.pdf

Una suite nazista

Toccata, Allemanda I e II, Corrente, Sarabanda, Minuetto (in rondò), Aria, Giga. Cosa sono? Sono forme musicali, perlopiù danze, che di solito, soprattutto nella musica barocca, compongono una suite – ossia un insieme di brani. Ma sono anche i titoli dei capitoli di uno dei grandi libri di questo inizio secolo: Le Benevole di Jonathan Littell. Libro di quasi 1000 pagine, Le Benevole (2006) racconta la vita di Maximilien Aue, ufficiale delle SS dal 1937 a 1945. In otto anni, Aue fa carriera, lavora nel Caucaso e a Stalingrado, contribuisce allo sterminio degli ebrei, conosce Himmler, Speer, Eichmann e collabora con loro. Le Benevole ha una particolarità: oltre ad essere un romanzo documentatissimo, è raccontato in prima persona. Vale a dire che la storia di Aue è raccontata da Aue stesso: dunque il libro è uno dei rari casi in cui la ferocia nazista viene raccontata dall’interno, da dentro. Violento, spesso insopportabile, ma anche lirico e profondamente umano, Le Benevole è costruito, appunto, come una lunghissima e foschissima suite musicale. E come in una suite si comincia con la Toccata: in musica, la toccata è un preambolo musicale; qui è il prologo, ovvero il momento in cui Aue si presenta ai lettori (e come si presenta! Sentite qui: «Fratelli umani, lasciate che vi racconti com’è andata. Non siamo tuoi fratelli, ribatterete voi, e non vogliamo saperlo. Ed è ben vero che si tratta di una storia cupa, ma anche edificante, un vero racconto morale, ve l’assicuro. Rischia di essere un po’ lungo, in fondo sono successe tante cose, ma se per caso non andate troppo di fretta, con un po’ di fortuna troverete il tempo. E poi vi riguarda: vedrete che vi riguarda»). Poi viene l’Allemanda, che è una danza dal ritmo moderato: Aue racconta, compassato, l’Operazione Barbarossa, ossia l’invasione dell’Unione Sovietica da parte dei tedeschi. Egli è a Kiev, poi nel Caucaso, sovrintende alle fucilazioni di ebrei e comunisti. La Corrente ha tradizionalmente un ritmo più vivace e movimentato: entrano nel romanzo i problemi personali di Aue (la sua omosessualità repressa, il rapporto morboso con la sorella, il conflitto con la madre), che dunque non si mostra più come un uomo tutto d’un pezzo; intanto rievoca la battaglia di Stalingrado. In Sarabanda Aue, ferito, è a Berlino e conosce Himmler; c’è un episodio non chiaro, qui: per la convalescenza, egli torna a casa, in Costa Azzurra, dove scopre che i figli della sorella sono stati brutalmente uccisi. È stato lui? Erano in realtà figli suoi? Non si sa, e non lo si saprà mai. La sarabanda è una danza solenne, dai toni gravi a cui rimanda il clima plumbeo di questa parte. Durante il Minuetto, sotto la minaccia dell’Armata rossa e con la sensazione crescente di un’imminente sconfitta per la Germania, Aue comincia a ricredersi. Forse il capitolo si intitola Minuetto perché si tratta di un tipo di danza in cui si fanno passi piccoli, molto brevi: sono quelli che fa Aue nella sua coscienza per allontanarsi dall’ideologia nazista. L’aria è invece un brano cantato: in Aria Aue tenta di riconciliarsi con la sorella mentre, tutt’intorno, il mondo nazista sta crollando. Infine la Giga, danza velocissima che Aue usa come epilogo alla sua vicenda: e l’epilogo è proprio come quella danza, rapido, perfino grottesco (ma non vi svelo che cosa succede, se no non lo leggete). Quello che conta è che Littell costruisce il suo romanzo come una suite e, per così dire, al ritmo e al sentimento espresso da ogni forma musicale egli fa corrispondere il tono della narrazione e l’impianto emotivo dei suoi personaggi. Offre insomma, al di là della trama e dei discorsi sulla Storia che innervano Le Benevole, anche un’altra chiave di lettura: quelle dell’estetica barocca, e del significato recondito depositato sotto ritmi, passi, tempi della musica da camera.

Un Faust del Novecento

Ma forse il romanzo musicale per eccellenza è stato composto, tra il 1943 e il 1947, da Thomas Mann: si chiama Doctor Faustus e, fin dal titolo, richiama uno dei miti letterari assoluti di ogni epoca – quello di Faust, lo scienziato medievale che vende l’anima al diavolo in cambio di 24 anni di conoscenza di ogni scibile umano. Mito tedesco e mondiale, Faust non poteva non attrarre Mann, che dal suo esilio americano manda nel mondo la storia di Adrian Leverkühn, musicista di talento che durante un viaggio in Italia firma un contratto con Mefistofele. Da lì in poi diventerà un genio assoluto ma, malato nel fisico e nella psiche, morirà pazzo. Doctor Faustus è la storia della sua vita dall’infanzia alla morte, raccontata a posteriori dall’amico Serenus Zeitblom che, mentre ricostruisce la biografia dell’animo scomparso e ne scopre il patto col diavolo, racconta anche il crollo dell’Europa e della Germania sotto i colpi del regime nazista e della Seconda guerra mondiale. Dopo la pubblicazione del romanzo, Arnold Schönberg, inventore della dodecafonia e con Stravinskij il più importante compositore del secolo, pretese che Mann riconoscesse pubblicamente che Leverkühn era modellato su di lui.

I capitoli più strettamente musicali di Doctor Faustus (soprattutto il XXII), infatti, sono delle specie di trattati di composizione: nei dialoghi tra Adrian e Serenus c’è la teoria della dodecafonia e non c’è dubbio che lo stile e le idee di Leverkühn siano molto simili a quelle di Schönberg. Come Schönberg, Leverkühn è un innovatore, e come lui rischia di non venire capito: ma è geniale.

Elegia finale

Chiudo con un’elegia. Nella prima pagina di L’arpa d’erba, romanzo che Truman Capote (quello che diceva che Kerouac non scriveva, dattilografava) scrisse nel 1951, Collin, il protagonista, un ragazzino adottato da due zitelle di cui una si chiama Dolly, è con lei nel bosco, quando la donna si ferma e dice: «Senti? È l’arpa d’erba, che racconta qualche storia. Conosce la storia di tutta la gente della collina, di tutta la gente che è vissuta, e quando saremo morti racconterà anche la nostra». Tutto il romanzo è la ricerca di quel suono, dei racconti di quelle vite: lo scrittore prende il posto dell’arpa d’erba e riporta in vita persone e luoghi che non ci sono più, li rievoca, a volte li piange. Come se scrivere un libro fosse comporre una musica in grado di ritrovare un mondo. Ed ecco come questa piccola sinfonia di parole e di anime si conclude: «Una cascata di colori fluiva fra le foglie secche e sonore; e io volli allora che il giudice sapesse ciò che Dolly mi aveva detto: che era un’arpa d’erba che registrava i suoni e li riproduceva, un’arpa di voci che ricordavano una storia. Ascoltammo».

Su Truman Capote è stato fatto un film: Truman Capote – A Sangue Freddo. Questo è il trailer: https://www.youtube.com/watch?v=mgYBbQyDpMA

(Crediti immagini: copertina di Zang Tumb Tuum, Wikipedia) 

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