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Utopie e mondo reale. Quando i muri promettono la felicità

Lo spazio urbano ha riflettuto nel susseguirsi dei secoli precise visioni politiche e sociali. Per Platone è importante abbattere ogni barriera interna alla città che possa causare attriti e tensioni tra i suoi abitanti. Nel progetto di Thomas More, le barriere artificiali e naturali di Utopia la rendono di fatto un luogo inaccessibile dall’esterno. Oggi le “gated community”, aree abitative chiuse e sorvegliate, incentivano la creazione di gruppi sociali omogenei, in opposizione alla visione di città come luogo di incontro.
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Lo spazio urbano, reale o immaginato, ha riflettuto nel susseguirsi dei secoli precise visioni politiche e sociali. Mura e fortificazioni hanno segnato visivamente la distinzione tra un “interno” dominato da ordine e funzionalità rassicuranti, e un “esterno” confuso e destabilizzante, che sfugge al controllo e al dominio umano. Tuttavia, la linea che separa la città ideale dal suo opposto è spesso molto sottile e, anche quando i muri vengono abbattuti, resistono barriere tanto invisibili, quanto invalicabili.  

Confini esterni e coesione interna. Il modello greco

Nell’opera più celebre di Platone, La Repubblica (390-360 a.C.), il filosofo greco riflette sulla costruzione dello stato perfetto inaugurando una tradizione di grande fortuna. L’obiettivo di Platone è rispondere a un’esigenza di giustizia che l’Atene reale del suo tempo non era riuscita a garantire, nel momento in cui il migliore dei suoi cittadini, Socrate, era stato condannato a morte. Nel quarto libro, emergono alcuni elementi significativi. Platone si preoccupa infatti di definire in modo netto i limiti fisici e spaziali della città ideale, che non deve essere «né piccola né grande, ma [avere] una giusta estensione», in modo da preservarne la coesione interna. A vigilare che questo accada sarà una classe specifica, quella dei guardiani, che avrà il compito di occuparsi della guerra e della difesa della città. Un secondo elemento consiste nella consapevolezza di Platone che, per mantenere unita la città al proprio interno, è necessario scongiurare differenze troppo nette rispetto alla distribuzione delle ricchezze. Per Platone, la giustizia e la felicità, che hanno un valore collettivo, hanno uno spazio preciso che deve essere costantemente controllato e tutelato da un gruppo sociale appositamente educato alla guerra. D’altro canto, il filosofo vuole abbattere ogni possibile barriera interna alla città che possa causare attriti e tensioni tra i suoi abitanti: i cittadini sono felici solo se la città è felice e, per esserlo, l’armonia tra le sue parti deve essere salvaguardata. Il modello platonico è rigido, militarista, esclusivo ed esprime una visione politica aristocratica e fortemente gerarchica che sacrifica la libertà dei singoli.
Per un approfondimento sulla città ideale immaginata da Platone, si rimanda alla seguente pagina: http://www.filosofia.rai.it/articoli/platone-la-citt%C3%A0-ideale/6466/default.aspx
 

Le utopie inaccessibili della modernità

Nel 1516, l’umanista e politico inglese Thomas More (1478-1535) pubblica Utopia (dal greco ou topos, luogo che non esiste), testo di grande valore letterario e filosofico, che prende le mosse dalla serrata critica a un presente lacerato, ingiusto e corrotto. More immagina e propone il modello di una società egalitaria, democratica e pacifista, di fatto agli antipodi dello stato perfetto descritto da Platone, sebbene permangano alcuni elementi di continuità, come il rifiuto della proprietà privata. Nonostante l’apparente idillio di questa realtà, è significativo che il primo atto del suo fondatore sia di separarla dal resto del mondo: «[…] una volta questa terra non tutta era circondata da mare; ma Utopo, che conquistandola dette nome all’isola, prima chiamata Abraxa, […] fe’ tagliar la terra per 15 miglia dalla parte dov’era unita al continente e vi trasse il mare all’intorno». La felicità che caratterizza la vita degli abitanti di Utopia non è accessibile a chiunque e può essere garantita solo dall’isolamento. Non esistono muri di pietra, a dimostrazione della natura anti-militarista del progetto di More, ma le barriere naturali e artificiali ne fanno un luogo inaccessibile. Un’altra opera si inserisce nella scia di questa tradizione, spingendosi però a risultati radicali. Si tratta de La città del Sole di Tommaso Campanella (1568-1639), luogo così descritto dal suo autore: «Sorge nell’ampia campagna un colle, sopra il quale sta la maggior parte della città; […] è distinta in sette gironi grandissimi, nominati dalli sette pianeti, e si entra dall’uno all’altro per quattro strade e quattro porte […]; ma sta in modo che, se fosse espugnato il primo girone, bisogna più travaglio al secondo e poi più; talché sette volte bisogna espugnarla per vincerla». La città deve garantire ai suoi abitanti sicurezza e giustizia. Le sette cinte murarie la rendono inespugnabile ed esprimono l’urgenza che il tema della guerra doveva ricoprire per Campanella. La vita della comunità è scandita da rigide norme, dalla dieta alle precauzioni igienico-sanitarie, influenzata in modo deterministico dagli astri e governata da un’élite di sapienti.
L’idea secondo cui per aspirare a una comunità felice sia quasi necessario separarsi dal mondo circostante è un aspetto che accomuna molte delle utopie della storia della filosofia. Per approfondire le caratteristiche di questo particolare genere filosofico, si rimanda al seguente video: http://www.filosofia.rai.it/speciale/l%E2%80%99utopia-della-convivenza-pacifica/1938/38811/default.aspx
 

Dai muri di pietra alle barriere invisibili. Città e rivoluzione industriale

Con la rivoluzione industriale, in particolare nell’Inghilterra tra XVIII e XIX secolo, la fisionomia dello spazio urbano muta radicalmente. Le città si aprono all’esterno, cessando di essere entità ben delimitate, per accogliere grandi masse che si riversano dalle campagne in cerca di lavoro. Non si tratta più di difendersi da un nemico esterno, ma di ri-organizzarsi per rispondere alle esigenze dettate dai nuovi modi e ritmi del processo di produzione. Filosofi sociali come Karl Marx (1818-1883) e Friedrich Engels (1820-1895) individuano e criticano la nuova forma di segregazione che colpisce le classi operaie più povere. Nel testo del 1845, La condizione della classe operaia in Inghilterra, Engels scrive: «Ogni grande città ha uno o più “quartieri brutti”, nei quali si ammassa la classe operaia. È vero che spesso la miseria abita in vicoletti nascosti dietro i palazzi dei ricchi; ma in generale le si è assegnata una zona a parte, nella quale essa, bandita dalla vista delle classi più fortunate, deve cavarsela da sé, in un modo qualunque». Se nei modelli ideali di città dei socialisti utopisti Robert Owen (1771-1858) e Charles Fourier (1772-1837) i problemi di igiene pubblica, povertà e disgregazione sociale venivano risolti attraverso la nostalgica istituzione di comunità autosufficienti, efficienti, ordinate, nelle città reali dell’Ottocento si radicalizzavano quei muri, tanto netti quanto invisibili, tra classi ricche e quelle povere che rintracciamo tuttora, in forme diverse, nelle grandi metropoli contemporanee.  

Fortini contemporanei. Il caso delle gated communities

A partire dagli anni Settanta del Novecento, in particolare negli Stati Uniti e nei paesi dell’America Latina, sono nate e sono andate sempre più diffondendosi le cosiddette gated o walled communities, ovvero aree abitative chiuse e sorvegliate, a cui possono accedere solo i residenti. Chi acquista una proprietà all’interno di questi spazi è tenuto a rispettare specifici regolamenti, che interessano i più disparati aspetti della vita comunitaria: non sono rare, ad esempio, rigide norme sulle modalità di edificazione e manutenzione degli edifici. D’altro canto, i residenti possono accedere a un certo numero di servizi (pulizia delle strade, raccolta di rifiuti, cure mediche, sicurezza), contando sulla possibilità di vivere in un ambiente esclusivo, non soltanto da un punto di vista economico, come nel caso delle comunità riservate alle persone adulte. Questo fenomeno pone questioni rilevanti da un punto di vista filosofico. Lo studioso statunitense Evan McKenzie, in un testo dall’emblematico titolo Privatopia (1994), evidenzia come queste forme contemporanee di convivenza, che incentivano la creazione di gruppi sociali omogenei, si sviluppino in contrapposizione alla visione, tipicamente europea, di città come luogo di incontro e confronto tra le diversità. E non è probabilmente un caso se l’esperienza delle gated communities, seppur presente, si radichi con maggior difficoltà nel vecchio continente, dove resta tuttora centrale il ruolo dello Stato. Risulta inoltre problematica la definizione della natura di queste realtà, che si costituiscono da un lato su accordi privati, ma che dall’altro mettono in condivisione una serie di elementi, creando di fatto una tipologia di spazio inedito, all’interno del quale sembra perdere qualsiasi importanza la categoria del politico.
Per la loro chiusura nei confronti dell’esterno, è particolarmente difficile reperire immagini di vita quotidiana in una gated community. La rivista americana Forbes ha tuttavia stilato una lista delle più importanti aree abitative sorvegliate sul territorio statunitense, mostrandone la varietà e la diffusione:  https://www.forbes.com/pictures/ejef45eeed/conyers-farm-greenwich-connecticut/#eb8693f699a6
  Crediti immagini Apertura: Gated Community, graffiti a Tenderloin, San Francisco (Wikimedia Commons) Box: L'Utopia e la Citta del Sole, di Tommaso Moro e Tommaso Campanella, nella traduzione di Gaspare Gozzi, Milano, 1863 (Wikimedia Commons)
Gated_Community
L'Utopia_e_La_città_del_Sole

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