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Il passato ci parla

Lavoro: ponos, ergon, negotium, otium

Nell'Antica Grecia il lavoro era considerato negativamente. Nel mondo romano al di fuori del lavoro, nel sacro otium, c'è la costruzione dell'uomo politico. Roberta Ioli mostra come gli antichi tendessero a disprezzare il lavoro come produzione frenetica e fatica svuotata di senso, ostaggio di una eccessiva smania di ricchezza
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Il disprezzo per il lavoro 

Il lavoro non era amato nel mondo antico. Secondo il mito di Pandora tramandatoci da Esiodo, un tempo la stirpe degli uomini viveva felice sulla terra, priva di affanni, di malattie, e soprattutto libera dalla fatica del lavoro. Quest’ultimo compare sulla terra insieme al dono ingannevole di Pandora, creatura per bellezza simile agli dei, ma che “versò sugli uomini dolorosi affanni”. La condanna al lavoro risponde, prima di tutto, al peccato di tracotanza commesso da Prometeo, che rubò per i mortali il fuoco a Zeus. Quel primo gesto di oltraggio verso gli dei viene punito con una perenne dipendenza dalla costrizione del lavoro. La diffidenza verso il lavoro manuale è evidente anche nell’iconografia tradizionale di Efesto, il dio fabbro, protettore delle tecniche e della pratica artigianale, rappresentato come divinità zoppa e deforme, vincolata allo spazio tellurico di una fucina quasi infernale. Il disprezzo aristocratico verso il lavoro inteso come poíesis, come “fare”, si manifesta però soprattutto nella relazione di dipendenza da un committente esterno, nella subordinazione dell’attività manuale non all’uso personale, ma alla vendita o al commercio, dunque alla produzione di un oggetto che sfugge al proprio controllo. Non vi è nulla di sconveniente nell’immagine di Penelope che tesse la tela, o nella perizia con cui Odisseo fabbrica la propria zattera da consegnare al mare: ciò che viene visto negativamente non è la pratica finalizzata al soddisfacimento di un bisogno, ma la relazione necessitata del lavoro alle richieste della committenza. Aspetto, quest’ultimo, che i Greci collegano a una condizione servile e che ha conservato una certa vitalità nella storia, se pensiamo alla dialettica hegeliana servo-padrone, ma anche alle teorie sull’alienazione del lavoro nella società industriale e postindustriale.  

In Grecia: Ponos / ergon 

La lingua greca si serve di due termini prevalenti per indicare il lavoro: ponos corrisponde alla brutalità della fatica fisica, ed ergon, che nel tempo consolida un significato meno negativo, indica non solo l’impegno manuale (lavoro agricolo, artigianale, produzione di manufatti), ma anche l’opera finita, il risultato di quella medesima abilità e fatica. Lo stesso ponos, poi, assume diverse connotazioni a seconda dei contesti culturali: quando il poeta Pindaro esalta con questo termine l’impegno dell’atleta nella gara sportiva, ciò che tradizionalmente è associato alla misera condizione del lavoro nei campi viene nobilitato come fatica agonale, espressione di uno spirito libero e amante della bellezza.  

A Roma: Labor / negotium

Un’analoga complessità semantica, legata all’idea di lavoro, ricorre nella lingua latina attraverso il binomio labor/negotium. Labor deriva dal verbo laborare, forse a sua volta ricavato da labare, cioè “vacillare sotto un peso”, per indicare il duro lavoro assimilabile al ponos dei Greci, cioè a una condizione lavorativa di tipo servile. Negotium implica invece principalmente un’attività pubblica, un impegno politico all’interno della città, spesso al servizio dello stato. Colpisce che in questo caso il lavoro non sia individuato da un termine proprio, ma attraverso una definizione in negativo: negotium, infatti, è nec-otium, “ciò che non è otium”, quindi ciò che si dà come negazione del tempo libero. Manca una caratterizzazione specifica del lavoro che, in quanto negotium, vive non per un intrinseco valore, ma come negazione del tempo dedicato a sé e ai propri interessi più elevati. L’otium (corrispondente al greco scholé) è infatti una dimensione sacra per il mondo antico: è il tempo necessario per coltivare il pensiero, per esercitare la virtù, ma anche per la gioia degli amici e la contemplazione disinteressata della natura. Senza otium non c’è la costruzione dell’uomo politico e filosofico, dunque la cura della parte più nobile della nostra anima.  

Il lavoro agricolo

Tuttavia, nonostante la scarsa considerazione per l’attività manuale, soprattutto artigianale, va ricordato che sia la Grecia arcaica sia la Roma repubblicana e imperiale mostrano un notevole rispetto per il lavoro agricolo, sentito come mezzo per rafforzare il corpo e l’anima, espressione di un legame vitale con la natura. Lo stesso Esiodo, rivolgendosi al fratello Perse nelle Opere e giorni, lo invita a un’esistenza operosa, in cui il lavoro diventi espressione della benevolenza degli dei, dal momento che “il lavoro non è vergogna; è l'ozio vergogna”. Dunque quel lavoro che è considerato sofferenza e frutto della degenerazione dell’umanità, è pur sempre l’unico strumento concesso all’uomo per riscattare la propria condizione e vivere secondo giustizia. Ancora più radicalmente, per Virgilio il lavoro agricolo descritto nelle Georgiche rappresenterà lo stimolo necessario per consolidare la nostra natura fragile: il labor a cui ci ha costretto la perdita dell’unione edenica con una natura felice non è più una dolorosa condanna, ma addirittura un dono degli dei affinché la mente non si infiacchisca e ritrovi vigore nel contatto con una terra ostile e generosa insieme.  

"Che il lavoro abbia uno scopo!"

Il rapporto ambivalente degli antichi con la pratica manuale rispecchia forse una duplicità intrinseca nell’idea stessa di lavoro, che dovrebbe sollecitare corpo e anima, rispondendo alla dimensione sociale ma anche creativa del nostro stare nel mondo. Soprattutto, il lavoro non può diventare un assillo onnivoro che, dietro la spinta imperante della produttività (mai così pressante come oggi), costringa a dimenticare la vitalità del tempo libero, il valore del ‘disimpegno’ come nutrimento dell’anima. Che il lavoro abbia uno scopo! Lo diceva benissimo Seneca quando, definendo i lavoratori occupati, li descriveva come prigionieri, troppo spesso, di una fatica svuotata di senso, ostaggi di una frenesia inutile perché non guidata né da una scelta consapevole né da un desiderio profondo, se non la smania di ricchezza. Nella sua galleria degli impegnati oziosi, ritrae individui stanchi che, come brulicanti formiche, corrono tra la piazza, il tribunale, le frequentazioni importanti, solo per sfuggire a ciò che risulta loro più penoso: la compagnia della propria solitudine. Crediti immagini: Apertura: Diego Velázquez, La fucina di Vulcano, Madrid, Museo del Prado (Wikipedia) Box: Rubens, Vulcano forgia le folgori per Giove (Wikipedia)
Velázquez_-_La_Fragua_de_Vulcano_(Museo_del_Prado,_1630)
Rubens_-_Vulcano_forjando_los_rayos_de_Júpiter

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