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Il passato ci parla

Migrante, meteco, straniero, ospite

Oggi la figura del migrante si è oggi caricata di valenze simboliche talmente negative da diventare l’emblema di un’alterità onnivora e distruttrice. Nel mondo antico la concezione del migrante era ben diversa, come evidenziato anche dall'organizzazione della polis e da alcuni episodi dei poemi omerici
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Fermatevi ancelle: dove fuggite alla vista d’un uomo? Forse un nemico credete che sia? […] Ma questi è un misero naufrago, che c’è capitato, e dobbiamo curarcene: vengon tutti da Zeus gli ospiti e i poveri; e un dono, anche piccolo, è caro.”

(Odissea, VI 199-208)

Migrano gli uccelli quando lasciano la terra divenuta inospitale nella stagione fredda per raggiungerne una mite, che assicuri cibo per loro e per i piccoli. Chi lascia la propria casa, il proprio nido, lo fa spinto dalla necessità. La migrazione è, anche per l’uomo, un’esperienza coatta: si migra quando si lascia una terra per un’altra sotto la spinta di un’urgenza, fame, guerra, carestia. E generalmente, quel viaggio, quella partenza sono accompagnati da una speranza di vita migliore e da un’intensa nostalgia per ciò che si lascia: una casa, dei profumi, il colore di un cielo, per non parlare degli affetti più cari.

La migrazione riguarda, per lo più, una collettività interessata da uno spostamento nello spazio: il verbo migrare discende infatti dal latino dotto migrare, a sua volta forse derivato da una radice indoeuropea che indica il cambiamento. Nel latino classico compare anche un uso metaforico del termine: la morte è un migrare de vita, un allontanarsi dalla vita, e il mutamento è un omnia migrare (così il poeta Lucrezio), cioè il movimento continuo delle cose, costrette dalla natura e dal tempo a un’instancabile migrazione.

Il corrispettivo greco di migrazione è apoíkesis, che indica letteralmente la lontananza dalla propria casa (apò più oikía). Emigravano generalmente in cerca di fortuna quei Greci che poi divennero fondatori di colonie (apoikíai): il primo grande flusso migratorio della civiltà greca avvenne intorno all’VIII secolo a.C., quando un nutrito numero di abitanti dell’Ellade decise di abbandonare il proprio paese in cerca di nuovi mercati, nuove terre e possibilità di vita. Fu così che nacque e si sviluppò la Magna Grecia, quel territorio dell’Italia meridionale che, affacciato sul Mediterraneo, per alcuni secoli strappò alla madrepatria la palma dell’eccellenza in campo artistico, filosofico, scientifico.

Se apoíkesis è migrazione come “allontanamento da casa”, il termine metoíkesis ne coglie invece l’idea di cambiamento (metà più oikía), suggerito dalla preposizione metà (“dopo”), per indicare un mutamento nello spazio e nel tempo. O forse dovremmo pensare all’altro significato della preposizione metà (“con”), che sembra alludere alla convivenza di migrante e cittadino all’interno della stessa casa, cioè della medesima comunità. Lo straniero otterrà così lo statuto giuridico di meteco (da métoikos): meteco è, soprattutto in Attica, chi risiede stabilmente in una polis, nella quale gode di una posizione giuridica intermedia tra quella di cittadino e quella di schiavo; pur non essendogli riconosciuti pieni diritti politici, il meteco è un uomo libero dotato di una straordinaria autonomia economica, tanto da ricoprire spesso incarichi di grande prestigio in ambito commerciale, navale o, più modestamente, artistico-artigianale (famosi tra di loro erano i ceramisti stanziati in Atene). Intorno alla metà del V secolo a.C., nel periodo d’oro della polis ateniese, circa un quarto della sua popolazione maschile era composta da meteci, cioè da stranieri.

Oggi la migrazione è tema di attualità scottante, e su questa emergenza si scontrano politiche economiche, sociali e culturali molto diverse. Sarebbe retorico appellarsi a un umanitarismo generico e buonista, ma è indubbio che la figura del migrante si è oggi caricata di valenze simboliche talmente negative da diventare l’emblema di un’alterità onnivora e distruttrice. Lo straniero non è più solo il diverso, l’altro da noi, ma è visto, più che mai, come il barbaro, portatore di un pensiero retrivo e violento, usurpatore di un benessere faticosamente conquistato.

Anche il mondo classico mostrava una certa diffidenza verso gli stranieri: bárbaros, “balbettante”, era considerato chiunque non parlasse greco. Tuttavia, lo straniero godeva di un particolare statuto e privilegio soprattutto se risultava ospite, cioè se veniva accolto in una casa a lui sconosciuta in cerca di aiuto. Che la casa fosse ricca o povera, l’ospite era comunque considerato una presenza sacra a cui tributare rispetto e onori. Quando Odisseo giunge naufrago nell’isola dei Feaci, è uno straniero sporco, con le vesti stracciate, ignoto a tutti. Eppure, viene accolto nella reggia di Alcinoo come l’ospite più prezioso: lavato, profumato, nutrito di cibo prelibato, dilettato con la poesia del più noto cantore. Analogo è il destino dell’eroe ramingo quando questi raggiunge, dopo vent’anni di lontananza, la sua Itaca. Non riconosciuto da Eumeo, che in lui vede solo la solitudine di un vecchio mendicante, verrà accolto come un fratello nell’umile dimora del porcaro, e per lui, per quel presunto mendico, verrano uccisi i maiali più grassi. Odisseo ricambierà questa generosa accoglienza semplicemente narrando una storia: il suo racconto di viaggi e avventure incanta l’anziano Eumeo, come se il tempo si fosse fermato.

Al migrante si chiedeva il nome, la memoria della storia familiare e poco altro. Se era di passaggio verso altra terra, era importante che fosse degnamente accolto nel tempo in cui sostava bisognoso, e ricoperto di doni prima di affrontare il nuovo viaggio. Qualora poi l’ospitante si fosse trovato a sua volta in difficoltà nella terra dell’ospitato, quest’ultimo avrebbe allora ricambiato la generosità di cui era stato il beneficiario offrendo a sua volta doni e riparo. Non è un caso che in greco la stessa parola, xenos, indichi sia lo straniero sia l’ospite.

Così, quando nell’Iliade il licio Glauco e il greco Diomede sono ormai pronti a fronteggiarsi in battaglia, nello scontro che vedrà solo uno dei due vincitore e superstite, attraverso i propri nomi e la propria stirpe scoprono che un’antica relazione di ospitalità legava le rispettive famiglie. “Non incrociamo le lance fra noi, anche se siamo in battaglia […]. Scambiamoci invece le armi perché sappiano anche costoro che siamo ospiti per tradizione antica e questo è il nostro vanto”.

La battaglia non avrà più luogo. I due eroi, stranieri l’uno all’altro, si scambieranno quelle armi che per un guerriero sono il simbolo più sacro della propria identità. In questo modo, per un attimo, Glauco diventa Diomede, e Diomede Glauco.

Crediti immagine:

Apertura: particolare del dipinto di Francesco Hayez "Ulisse alla corte di Alcinoo"

Box: il filosofo Aristotele, uno fra i meteci più celebri. Particolare del dipinto di Raffaello "La scuola di Atene"

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