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Nuovo Cinema Paini

Cinema e confini

I cineasti hanno declinato in molti modi i concetti di "confine". Luigi Paini propone una rassegna che tiene in considerazione i confini territoriali ("Niente da dichiarare?"), storici ("La scelta di Barbara"), metafisici e astratti ("Linea mortale" e "The Village") e anche corporei ("Inside Out")

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Oltre. Andare oltre è l’essenza stessa della macchina dei sogni. Non ci possono essere confini per il cinema. I confini fanno parte della realtà quotidiana; i film creano una dimensione altra, una “più-realtà” in cui tutto è possibile, basta soltanto che il regista lo voglia. E all’inizio fu subito tutto. Nelle opere dei fratelli Lumière e di Georges Méliès ogni possibilità era già esplorata. I documentari di viaggio dei primi, le immagini tremolanti di luoghi esotici  che superavano i confini materiali, permettendo allo stupito spettatore di recarsi in Africa, Asia, America senza staccarsi dalla sua comoda poltrona. I viaggi immaginari del secondo, che con i suoi magici trucchi (omaggiati da Martin Scorsese nell’ispirato Hugo Cabret) scatenava la più sfrenata delle fantasie, dai sogni alle spedizioni sulla Luna, senza curarsi minimamente della verosimiglianza, inseguendo soltanto i labirinti del suo inesauribile universo onirico.  

Inside out, film d’animazione di Pete Docter e Ronnie del Carmen (Usa 2015)

Il più recente è il più antico. Un film del 2015 che porta al parossismo le visioni di Georges Méliès. L’animazione al suo virtuosistico vertice, chiamata a illustrare i confini della psiche di Riley, una ragazzina di 11 anni alle prese con un oceano di problemi(ni). “Inside” e “Out”: dentro e fuori, l’apparire e l’essere, l’esterno e l’interno. In una dialettica senza fine, scatenata dal trasloco di Riley insieme alla famiglia. Dall’adorato Minnesota alla detestata (in un primo momento) San Francisco, lontano da tutte quelle sicurezze che le hanno garantito un’infanzia serena, una lunga età dell’oro che sembra giunta davvero alla fine. Prendono corpo, sul grande schermo, le emozioni della protagonista: Gioia, Tristezza, Disgusto, Paura, Rabbia. Con la lettera maiuscola, perché sono altrettanti personaggi, ognuno con caratteristiche esteriori che lo rendono immediatamente riconoscibile. Il mondo magico del primo incantatore della storia del cinema ritorna con tutta la sua potenza. “Entriamo” nella mente, nell’anima di Riley, ne “vediamo” il meccanismo, il gioco continuo dei sentimenti e delle emozioni. Dentro-fuori, senza tregua. Alla fine la ragazzina diventa grande, comprende che lo stare bene al mondo dipende soprattutto dal proprio equilibrio interno, piuttosto che dagli stimoli del mondo esterno. E noi capiamo a quali livelli la Pixar, la più innovativa delle case di produzione americane attive nell’animazione, sia riuscita ad allargare i confini del cinema.

Niente da dichiarare?, di Dany Boon (Francia 2010)

Confini veri. Divisioni reali fra Stati separati da reciproca diffidenza. La vecchia Europa è sempre stata una rete fittissima di frontiere, di popoli pronti a guardarsi in cagnesco. Poi, in un attimo della Storia, si è passati dall’impenetrabile Cortina di Ferro, che chiudeva in un’anacronistica prigione a cielo aperto i Paesi del socialismo reale, al “liberi tutti” dei primi anni 90. Niente più controlli doganali, almeno peri cittadini della Ue, che intanto si ingrandiva sempre di più. E niente più frontiere nemmeno tra due Paesi “cugini”, che si sono sempre guardati con un reciproco sentimento di “cordiale antipatia”. Francia e Belgio, un po’ come da noi settentrionali e meridionali. Vicini e lontani, chiamati in causa soprattutto quando si tratta di mettere in campo stereotipi (e, ovviamente, barzellette). Dunque, all’inizio degli anni 90, un doganiere belga, ferocemente francofobo, si trova da un giorno all’altro privato della sua occupazione preferita: vessare i viaggiatori provenienti dall’altra parte, fieramente detestati per tutti i loro innumerevoli, spregevolissimi difetti. Ma c’è di più: ironia del destino, dovrà entrare a far parte di una pattuglia mista franco-belga, andandosene in giro proprio con il “collega” dell’altro Paese che detesta più di tutti. I comportamenti della strana coppia sono ovviamente fonte di infinite situazioni comiche, anche perché il francese ha una tresca, nascosta, con la sorella dell’arcigno nuovo compagno di lavoro. Le frontiere si aprono, i cuori e le menti fanno fatica a seguire la stessa strada. Dany Boon, regista e attore che ama prendersi gioco dei pregiudizi (come nel precedente “Giù al Nord”) castiga, con bonario sorriso, comportamenti  e sentimenti sedimentati nel tempo. Una lezione già attuale quando il film è uscito, cinque anni fa; più che mai urgente nei nostri tempi di nuove divisioni e vecchi nazionalismi. Anche, o forse soprattutto, nella nostra vecchia Europa.

Linea mortale, di Joel Schumacher (Usa 1990)

Questo è il Confine Supremo. Di qui la vita, di là la morte. Un confine che ognuno di noi è destinato a superare, ma che ognuno di noi, in condizioni normali, tende a spostare in avanti il più possibile... I giovani studenti in medicina protagonisti del film, grandi amici, hanno invece un’idea diversa. Vogliono superarlo, quel confine, anche se solo “provvisoriamente”. Vogliono cioè prendersi una parte del privilegio divino di vedere oltre. Morire, sì, ma poi resuscitare, e raccontare ai compagni che cosa si è visto nel mondo altro. Idea folle, idea malata, eppure idea che affascina, che attira magneticamente il gruppo. Come fare praticamente? Semplice: si assumerà una sostanza che fermerà il cuore (Flatliners è il titolo originale che allude alla “linea piatta” dell’elettrocardiogramma). Poi, dopo una manciata di secondi, l’intervento degli amici farà sì che quel viaggio, per tutti senza ritorno, si interrompa, permettendo alla vita di ritornare a scorrere. Trattandosi di un film hollywoodiano è ovvio che questo tuffo nell’abisso sarà condito da un’abbondante dose di suspense. I primi che si sottopongono all’esperimento “muoiono” e “risorgono”, pur tra difficoltà e intoppi. Ognuno vede nel momentaneo aldilà spezzoni della sua vita passata, da sempre rimossi, che alimentano lancinanti sensi di colpa. Nonostante ciò, si tende ad allungare sempre di più la durata della “morte apparente”. Riuscirà l’ultimo del gruppo a risorgere? E riusciranno i temerari studenti, tutti insieme, a superare i traumi indotti da un esperimento così estremo?

Del film sarà girato un remake: ecco alcune news sul cast: http://www.mondofox.it/2016/07/08/kiefer-sutherland-torna-nel-remake-di-linea-mortale/

The Village, di M. Night Shyamalan (Usa 2004)

Un mondo chiuso, un mondo perfetto, un mondo protetto. Gli abitanti del villaggio a cui si riferisce il titolo non sanno dell’esistenza di altri esseri umani. Una fitta foresta delimita da ogni parte i confini della loro terra, e in quella foresta vivono orride creature che impediscono a chiunque di allontanarsi. Ma forse non ci sarebbe nemmeno bisogno di questo deterrente: chi può avere il desiderio di lasciare un posto così protetto, dove regnano sovrane armonia e concordia? E soprattutto, esisterà veramente qualcosa o qualcuno al di là della selva oscura? Come sempre, però, un granello di sabbia inceppa il meccanismo e dà il via alla narrazione. Si tratta di un giovane, Lucius, animato dal desiderio di sapere, di vedere, di conoscere che cosa c’è al di fuori del villaggio. Ma Lucius resta ferito gravemente da un suo rivale in amore e tocca alla donna amata da entrambi, la non vedente Ivy, partire verso l’ignoto alla ricerca di medicine. Sarà proprio lei, priva della vista, a venire a conoscenza della verità. Un altro mondo esiste, oltre la foresta, ed è molto più avanzato rispetto al villaggio, fermo a uno stile di vita ottocentesco. Si tratta infatti di una comunità chiusa, creata decenni prima da antenati desiderosi di trincerarsi lontani da tutti, per dimenticare i dolori e i fallimenti che avevano devastato le loro esistenze. Mai fidarsi dei confini assegnati, dunque, mai rassegnarsi a ciò che è: la vita vera sta nel superamento, nella curiosità, nell’andare oltre se stessi e oltre gli argini ottusi impregnati di pregiudizi.

La scelta di Barbara, di Christian Petzold (Germania 2012)

C’era una volta la Cortina di Ferro. Chi non ha visitato i Paesi dell’Est prima della caduta del Muro di Berlino non sa che cosa sia la negazione assoluta di ogni libertà. Stati di polizia, presenza ossessionante di spie (nella Germania Est la famigerata Stasi), economie al collasso, negozi con gli scaffali desolantemente vuoti. Come non bastasse, una propaganda martellante voleva far credere ai sudditi di vivere nel migliore dei mondi possibili. È da questo incubo che vuole fuggire Barbara, una giovane dottoressa da tempo desiderosa di espatriare nella Germania Occidentale. Di là, dall’altra parte del Muro, vive l’uomo che ama: un incentivo in più per lasciare per sempre l’Est. Incontri furtivi, la paura di essere scorta e denunciata dagli agenti della polizia segreta, l’ansia che aumenta mentre si avvicina il momento del grande passo. Nella vita professionale della donna entra però un fatto nuovo: una ragazza, Stella, profondamente provata dalla vita. Barbara, proprio mentre è arrivato il momento di fuggire, capisce che Stella ha un bisogno estremo del suo aiuto. Che fare: partire o restare? Può essere possibile trovare un senso alla vita anche in un luogo senza futuro come la Germania Est? La scelta di Barbara è stata la scelta alla quale si sono trovate di fronte migliaia di persone dei Paesi satellite dell’Urss. L’Occidente luccicante era un richiamo irresistibile; ma lasciare la patria di origine, i famigliari, gli amici, la propria storia rappresentava un salto nel vuoto che non tutti erano in grado di affrontare.

(Crediti immagini: Peter Zurek – Shutterstock)

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