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Cinema e musica

Senza musica non si può. Dai pianisti del muto che strimpellavano ai piedi dello schermo fino agli avvolgenti sistemi audio delle sale più moderne, non si dà cinema senza colonna sonora. “Singing in the rain”, le composizioni di Ennio Morricone, le colonne sonore di tutti, ma proprio tutti i film d’animazione: musica e cinema, il divorzio non ci sarà mai.

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Prima il cinema era muto e poi, a un certo punto è diventato sonoro: e così la musica è arrivata sul grande schermo… Ha tutta l’aria di un’affermazione assolutamente vera, e invece le cose non sono per nulla andate in questo modo. Il cinema ha avuto, a partire dalla sua nascita, un rapporto privilegiato con la musica. Anche nei suoi primi decenni di vita, quando la tecnologia del tempo non permetteva di stampare la colonna sonora direttamente sulla pellicola. Le proiezioni avvenivano allora alla presenza di un pianista, che sottolineava le diverse situazioni: idillio, paura, suspense. E non era affatto raro assistere alle esibizioni di grandi orchestre, che eseguivano musiche composte appositamente da musicisti di fama. Così, quando nel 1927 è partita con “Il cantante di jazz” la rivoluzione del sonoro, quel passaggio epocale è apparso ai più come una diretta conseguenza del passato. La musica, da esterna è “entrata” direttamente nei film, mantenendo la sua funzione di sottolineatura, accompagnamento, rafforzamento dell’immagine proiettata. E in diversi casi è diventata lei stessa protagonista, “rubando la scena” addirittura alle immagini: qualcuno riesce a pensare, giusto per fare un solo esempio, agli “spaghetti western” senza le note di Ennio Morricone?

Allegro non troppo, Bruno Bozzetto (Italia 1976)

Temerario. Sfidare Disney sul suo stesso terreno, l’animazione. Folle! Quante volte Bruno Bozzetto se lo sarà sentito dire, e quante volte se lo sarà detto lui stesso? Perché “Allegro non troppo” nasce esplicitamente come una sorta di risposta al celeberrimo “Fantasia” di Walt Disney. Un film d’animazione in cui protagonista assoluta è la musica: brani conosciutissimi di grandi compositori, “illustrati” sullo schermo dai disegni degli animatori. “Un film nuovo, originale, dove potrete vedere la musica e ascoltare i disegni, in una parola un film pieno di… fantasia”: sono le divertenti parole del presentatore, che addirittura storpia il nome del papà di Topolino: Frisney, Prisney, Grisney… Si tratta dunque di un divertito omaggio, che ben presto diventa assolutamente originale. Sulla base delle musiche (da Debussy a Dvořák, da Ravel a Stravinskij, da Vivaldi a Sibelius) si materializzano immagini ed episodi in estrema libertà creativa. Le note del “Bolero” di Maurice Ravel sono le “responsabili” numero uno dell’operazione: Bozzetto ha sottolineato come proprio l’ascolto di questo brano gli abbia suggerito la visione di una crescita senza fine, spingendolo a dare il via alla creazione del film. Che unisce disegni e personaggi in carne e ossa: fantastica l’orchestra formata da arzille vecchiette, dirette da un maestro quantomeno pazzerello, interpretato dallo stralunato Maurizio Nichetti.

La canzone dell’amore, Gennaro Righelli (Italia 1930)

…e il sonoro arrivò anche in Italia. Un grande successo, ovviamente, visto il desiderio di novità che da sempre affascina e attira il pubblico. È però interessante notare che il motivo della trionfale accoglienza della prima pellicola sonora prodotta nel nostro Paese non fu soltanto la novità “tecnica”. Il regista si affidò in particolare a una canzone destinata a diventare celebre, “Solo per te Lucia”, scritta da Cesare Andrea Bovio. Un motivo estremamente orecchiabile, un successo immediato che funzionò da pubblicità aggiunta per il film. Il quale film, però, sta in piedi ottimamente anche a prescindere dalla canzone. Racconta, in forma di commedia, della tenacia con cui una giovane donna sbroglia una situazione famigliare impossibile. Sua madre ha avuto un bambino fuori dal matrimonio, ed è la figlia che si impegna a crescerlo come se fosse suo. Trame forti, temi sentiti dal popolo, abituato alle storie raccontate dalle pellicole del muto. Il cinema realizzato negli anni del fascismo è molto spesso di questo tipo: opere di immediata fruibilità, storie complesse ma al contempo facili da seguire, raccontate in forma di commedia. Come in un altro grandissimo successo di poco tempo dopo, “Gli uomini che mascalzoni”, diretto nel 1932 da Mario Camerini. Storia spiritosa, commedia brillante, e anche in questo caso una canzone trainante: “Parlami d’amore Mariù”, scritta sempre da Bovio. Protagonista un giovanissimo Vittorio De Sica, che proprio con questo film diventerà uno degli attori preferiti di quegli anni.

Cantando sotto la pioggia, Gene Kelly e Stanley Donen (Usa 1952)

“Il musical è un genere strettamente americano, a noi non può piacere”. In tanti ne sono convinti, ed effettivamente l’affermazione può contenere una parte di verità. Ma basta vedere anche pochi minuti di “Cantando sotto la pioggia” per capire che esistono le eccezioni, eccome se esistono! Un film così vince letteralmente la forza di gravità: Gene Kelly “vola”, si arrampica sui muri, si esibisce in numeri di danza impossibili. È la meraviglia di Hollywood al suo culmine, la quintessenza del cinema come liberazione dai vincoli della quotidianità. Leggerezza, gaiezza, senso di sospensione: il tutto accompagnato da musiche e canzoni “evergreen”, che si imprimono in modo indelebile nella mente. La vicenda è ambientata nel momento epocale (per il cinema) del passaggio dal muto al sonoro, quando molte star dovettero fare i conti con l’impatto sul pubblico della loro voce. In molti non superarono l’esame, dovendo ricorrere alla pratica del doppiaggio. Il film racconta il tutto con toni da commedia, alternando coreografie sfarzose e canzoni celebri (sopra tutte, ovviamente, quella che appare nel titolo, la mitica “Singing in the rain” in originale). Vincono i buoni, mentre la star bizzosa e antipaticissima paga il fio della sua mancanza di umiltà. Happy end da antologia, grandissimo successo di pubblico ma… niente Oscar (solo 2 nomination). Hollywood può essere davvero bizzarra.

I love Radio Rock, Richard Curtis (Gran Bretagna, Francia, Germania 2009)

La musica (rock) come ragione di vita. Come fonte di libertà. Come utopia di un mondo diverso. Ambientato in Inghilterra, negli anni 60 del secolo scorso, “I love Radio Rock” è un inno alla forza invincibile della musica in generale, rock in particolare. Nascono le prime radio libere, che tentano di rompere il monopolio della Bbc. Trasmettono, per pochi minuti al giorno, da navi ancorate al di fuori delle acque territoriali, in modo da aggirare la legge che proibisce la loro presenza entro i confini della Gran Bretagna. In una di queste radio si ritrovano i personaggi del film: il proprietario Quentin e i vari deejay che si alternano nella conduzione dei programmi. Un’allegra brigata, non esente da litigi anche furiosi, vista la rivalità che si accende fra tanti “galletti nel pollaio”. Ma tutti uniti nel respingere le pressioni dell’establishment, rappresentato da un odioso ministro (lo interpreta il bravissimo Kenneth Branagh) deciso a chiudere l’emittente a qualsiasi costo. L’approvazione di una nuova legge, molto più restrittiva della precedente, sembra mettere la parola fine alla vita dell’emittente, soffocata da mille cavilli burocratici. Si potrà continuare a trasmettere solo navigando in continuazione, ma il battello è in realtà una bagnarola che pare stare a galla per miracolo… Ritratto “survoltato” di un’epoca irripetibile, il film vive letteralmente della sua colonna sonora, vera e propria antologia dei maggiori successi di quegli anni. Da ascoltare a tutto volume!

Ballando ballando, Ettore Scola (Italia 1983)

Vietato parlare. Qui si balla soltanto. Mezzo secolo di storia francese raccontato soltanto dalla colonna sonora e dai danzatori che si alternano, nel corso dei decenni, in una balera della banlieue di Parigi. Il film procede a ritroso, partendo dall’anno della sua realizzazione, il 1983. È il sabato sera, e come d’abitudine, uomini e donne si riuniscono per celebrare il rito laico della danza. Coppie giovani e meno giovani, ballerini espertissimi ma non solo, amori che nascono al ritmo delle note. E inizia il flash back, che ci riporta al lontano 1936. Il tempo del governo del Fronte Popolare, la Francia descritta dai capolavori in bianco e nero di Marcel Carné, Julien Duvivier, Jean Renoir. Si passa poi alla notte cupa del 1940, il Paese sotto l’occupazione nazista. Un militare tedesco cerca invano una compagna per danzare: dovrà accontentarsi di fare coppia con un collaborazionista. Gli anni scorrono, torna la libertà: è il 1945, trionfano i ritmi in arrivo dall’America, i balli scatenati che con la loro vitalità sembrano promettere un futuro diverso. E poi ancora il 1956, con la tragedia della guerra in Algeria, e il 1968, le “Jolie Mai” della rivolta studentesca. Cambiano ogni volta musiche e canzoni, si modificano gli arredi, si aggiornano i vestiti: è così che osserviamo e “viviamo” lo scorrere del tempo, il passaggio della Storia riflesso nel microcosmo di una sala da ballo di periferia.

  (Crediti immagini: Peter Zurek - Shutterstock)

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