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Nuovo Cinema Paini

Cinema e sogno

"Sala buia, schermo che illumina. È il cinema, fatto della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni. Uno strumento infinitamente potente, specchio del nostro inconscio". Luigi Paini propone una rassegna di straordinari registi (Porter, Lang, Fellini, Kurosawa e Buñuel) capaci di portare il sogno sul grande schermo

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Gioca in casa il cinema, quando si parla di sogni. Diurni o notturni, a occhi aperti o nati nel profondo del sonno, i sogni hanno trovato sul grande schermo uno dei mezzi (e dei linguaggi) più adatti a rappresentarli. Già all’epoca del muto, la possibilità di manipolare la realtà con il montaggio e i “trucchi” ha dato la possibilità ai primi autori di mimare la sfera dell’onirico. Salti logici e temporali, sovraimpressioni multiple, scenografie tanto ingenue quanto suggestive hanno ricreato un mondo “altro”. Da allora non si è mai smesso: al cinema si va per sognare, il cinema è fatto di sogni. Gli esempi sono davvero infiniti, da Méliès a Fellini, da Lang a Hitchcock. Come ha detto Luis Buñuel (chi meglio di lui?) “Il cinema sembra un’imitazione involontaria del sogno”.  

Dream of a rarebit fiend, di Edwin S. Porter (USA 1906)

Mangiato troppo? Davvero non ha saputo trattenersi, il “rarebit fiend” del titolo. Maniaco (“fiend") di “rarebit”, un indigestissimo piatto gallese a base di pane tostato e formaggio fuso, ne ha ingollato una quantità industriale, bevendoci sopra a volontà. Alcol e cibo, è noto, possono formare una miscela esplosiva. Già il ritorno a casa si presenta molto difficile, con il mondo circostante che si “frantuma” in un delirio di immagini sconnesse. Ma è soprattutto una volta preso sonno che il golosissimo protagonista vive un’avventura ai confini della realtà. Il “dream” (sogno) si trasforma immediatamente in un “nightmare” (incubo). Il cinema delle origini dimostra quanto sia capace, pur con i mezzi limitati di cui ancora dispone, di ricreare l’universo onirico. Tre demoni tormentano la testa del protagonista, sempre più agitato; il letto comincia a danzare freneticamente, poi prende letteralmente il volo, passando a grande altezza sopra la città; finché non finisce per precipitare nella cameretta in cui tutto è iniziato. Il film dura solo sette minuti: un concentrato di “trucchi” cinematografici allo stato nascente, capaci di meravigliare il pubblico del tempo, facendogli rivivere lo spazio allucinato dei sogni. Giovanissimo e potentissimo: la magia del cinema si manifesta immediatamente in tutta la sua forza.

La donna del ritratto, di Fritz Lang (USA 1944)

Cittadino modello, marito e padre attento e affettuoso: il professor Wanley, docente universitario di criminologia, è un esempio per tutti. Non può nemmeno lontanamente immaginare che una tempesta sta per abbattersi sulla sua vita. Dopo avere accompagnato al treno la moglie e i giovani figli in partenza per le vacanze, si reca al club per una serata con gli amici. Più tardi, di fianco all’entrata del locale, viene attratto da una vetrina che espone il ritratto di una donna affascinante. E, incredibile, quella donna appare subito dopo accanto a lui. Dopo aver fatto conoscenza, lei lo invita a casa sua: gli mostrerà i disegni preparatori del ritratto. Sembra un invito innocente, che il professore accetta senza doppi fini. Ma, mentre i due sono in casa, arriva l’amante di lei, un uomo brutale e gelosissimo. Aggredisce il professore difendendosi, finisce per ucciderlo. E ora? Dire tutto alla polizia farebbe scoppiare uno scandalo: che ci faceva un uomo sposato in casa di una donna sola? Sembra esserci una sola soluzione: far sparire il cadavere. Dunque commettere un gravissimo reato. Ed è solo l’inizio di una catena di atti irresponsabili, che avvicinano sempre di più il professore al baratro. Lui, insegnante di criminologia, proprio lui, indagatore e fustigatore delle colpe degli altri, finito nel tritacarne di una storia terribile (non manca nemmeno un ricattatore, che ha visto tutto…). Un vero e proprio incubo, in cui ciascuno può cadere per una serie di casualità e imprudenze. Per fortuna è davvero soltanto un incubo, come lo spettatore scopre alla fine del film. Wanley ha solo vissuto in sogno tutto il suo calvario. C’è da stare sicuri che, d’ora in avanti, sarà molto più attento (e noi con lui) nel giudicare le mancanze degli altri.

8 ½, di Federico Fellini (Italia 1963)

Un ingorgo inestricabile. Decine di automobili bloccate sotto un cavalcavia, in un silenzio irreale. Il prologo di “8 ½” è profondamente inquietante. La macchina da presa si concentra su un guidatore con il cappello n testa, bloccato all’interno della sua macchina. Tenta disperatamente di uscire, ma le portiere non si aprono, mentre il fumo invade l’abitacolo. Poi, all’improvviso, sotto lo sguardo degli altri automobilisti, ecco che incredibilmente inizia a volare, si libra nel cielo, arriva sopra una spiaggia, un piede legato a una corda che lo tiene come se fosse un aquilone. Infine precipita. E in quel preciso istante, Guido Anselmi, il protagonista del film, si sveglia. Era solo un terribile sogno, legato (lo capiremo tra poco) alla situazione di impotenza in cui l’uomo si trova. Di professione regista (è ovviamente l’alter ego di Federico Fellini) è in crisi totale di ispirazione: il film che sta girando sembra inesorabilmente bloccato. Nella città termale in cui si trova tutti sono in attesa delle sue direttive. Lui, intanto pensa, sogna, si agita e si dispera. Riappaiono le donne della sua vita, i fantasmi del passato, in un caleidoscopio di immagini e situazione sempre in bilico tra mondo reale e situazioni oniriche. C’è solo un aggettivo per descrivere questo universo: “felliniano”. Il regista riminese ha regalato un nuovo termine al vocabolario, attingendo al suo personale mondo dei sogni. Dal profondo dell’inconscio attingeva tutte le sue visioni: ne fa fede l’intrigante e magico “Libro dei sogni”, in cui annotava ogni mattina (era anche un disegnatore formidabile) il “resoconto onirico” delle sue notti.

Sogni, di Akira Kurosawa (Giappone 1990)

Ogni capitolo, un sogno. Sono otto, e hanno tutti titoli evocativi e poetici: da “Raggi di sole nella pioggia” a “Il demone che piange“, da Fuji in rosso” a “Il villaggio dei mulini”. Akira Kurosawa, grandissimo maestro del cinema giapponese, condensa in questo film-testamento (era nato nel 1910, morirà nel 1998) alcuni dei motivi principali della sua lunga produzione. L’amore per la natura, la passione per l’arte, i timori per il futuro. Lo fa seguendo uno stile non realistico, affidandosi appunto al linguaggio dei sogni. Nell’episodio che apre il film, “Raggi di sole nella pioggia”, un bambino entra nel bosco nonostante il divieto della madre. Tra il folto della vegetazione disturberà una cerimonia dei demoni-volpe, mettendosi in grave pericolo. E ora che potrà fare per salvarsi? In “Corvi” la realtà si con-fonde con la pittura: “entriamo” in un celebre quadro di Vincent van Gogh, “Campo di grano con volo di corvi”, addentrandoci insieme al protagonista tra le pennellate del pittore olandese. In “Fuji in rosso” emergono le angosce profonde dell’autore: il vulcano simbolo del Giappone erutta, e la sua lava e suoi vapori inondano tutto, distruggendo ogni forma di vita. E ancora, l’episodio “Il demone che piange” ci porta nella desolazione di un mondo investito dalla catastrofe nucleare (tema estremamente sentito in Giappone, vittima dei bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki). Infine, un filo di speranza nel capitolo finale, “Il villaggio dei mulini”. Una natura incontaminata, un universo fiabesco, il sogno (impossibile?) di un universo fatto di amore, dolcezza e rispetto reciproco.

L’angelo sterminatore, di Luis Buñuel (Messico 1960) / Il fascino discreto della borghesia, di Luis Buñuel (Francia 1972)

Un sogno lungo una vita: tutta l’opera di Luis Buñuel sembra uscita dall’universo onirico. Nel cortometraggio “Un chien andalou”, diretto nel 1929 e scritto in collaborazione con Salvador Dalì, l’allora giovanissimo regista spagnolo usava il linguaggio cinematografico per costruire un’opera “folle”, rivoluzionaria, assolutamente priva della logica narrativa a cui il pubblico era (ed è) abituato. Una fantasmagorica serie di immagini e sequenze che si accavallano seguendo pure suggestioni visive e accostamenti fantastici. Una pellicola surrealista, fatta della stessa materia dei sogni. Questa vicinanza alla sfera dell’inconscio resta una delle caratteristiche fondamentali di tutta la produzione del maestro spagnolo. La ritroviamo, insieme a una caustica critica sociale, in due dei film più celebri della sua maturità, “L’angelo sterminatore” e “Il fascino discreto della borghesia”. Nel primo, assistiamo a una cena che, una volta cominciata, non sembra finire mai. A tavola si sono radunati diversi componenti dell’alta borghesia, tutte persone che occupano posti di primo piano nella società. Le ore passano, si fanno le 4 del mattino, ma nessuno accenna ad andarsene. E quando finalmente si decidono, risulta impossibile attraversare la porta di casa, benché sia aperta. Passano addirittura i giorni, un ospite muore, ma niente, vietato per loro uscire e per gli altri entrare. Un vero incubo, come quello vissuto dai protagonisti del secondo film. Anche in questo caso c’è di mezzo una cena, con la differenza che, per un motivo o per l’altro, non si riesce mai a organizzarla. Ancora rappresentanti della migliore società, che il regista ci indica come “sepolcri imbiancati”, tanto rispettabili all’apparenza quanto privi di ogni valore nella sostanza. Sogno e realtà, una volta di più, si intersecano in un groviglio geniale e inestricabile.

Crediti immagini: Peter Zurek - Shutterstock

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