Il 20 gennaio 2017 il repubblicano Donald Trump ha assunto ufficialmente la carica di 45° presidente degli Stati Uniti d’America. Negli Usa e nel resto del mondo la sua elezione ha destato grande sorpresa tra gli analisti, che con poche eccezioni si attendevano una netta affermazione della candidata del Partito democratico Hillary Clinton. Nel contempo essa ha suscitato diffuse preoccupazioni e aperta ostilità in un ampio spettro di forze politiche e settori dell’opinione pubblica, sia in campo «progressista» sia in campo «conservatore». A partire dallo stesso Partito repubblicano di cui Trump è stato il candidato per la corsa alla massima carica della politica americana.
Il neo-presidente, infatti, non è soltanto un outsider politico, privo di qualsiasi pregressa esperienza parlamentare o amministrativa. E non ha soltanto alle sue spalle un passato di miliardario senza scrupoli condito da stili di vita assai poco politically correct. Ha anche vinto le primarie e poi le elezioni con un programma – «Make America Great Again» – in cui si mescolano pulsioni nazionaliste e neo-isolazioniste di segno chiaramente populista e anti-establishment, che rappresentano un elemento di rottura: sia rispetto alle politiche delle ultime amministrazioni Usa, sia rispetto al mondo «globalizzato» che sembrerebbe aver preso forma negli ultimi decenni e di cui gli Stati Uniti hanno costituito, pur tra mille contraddizioni, il centro di irradiazione.
Si tratta, tuttavia, di un elemento di rottura tutt’altro che isolato. La Brexit, il successo crescente dei movimenti nazionalisti ed etno-nazionalisti in Europa, il dilagare dei populismi ci suggeriscono infatti che il successo di Trump possa essere il prodotto di un’onda assai più lunga, che trascende i confini degli Stati Uniti e che rappresenta forse – come molti studiosi sottolineano da tempo – uno dei frutti più avvelenati della «globalizzazione».
È difficile prevedere in che misura il programma del neo-presidente potrà attuarsi e con quali conseguenze. Può essere utile, però, cercare di capire chi è stato fino a pochi mesi fa Trump, come e perché è giunto a conquistare la Presidenza degli Stati Uniti e con quale visione dell’America e del mondo.
Il tycoon
Donald Trump è nato il 14 giugno 1946 a New York, nel Queens. Ha oggi settant’anni. Rampollo di una ricca famiglia di imprenditori immobiliari di origine europea, al principio degli anni Settanta, dopo aver ottenuto una laurea in economia presso la prestigiosa Wharton School of the University of Pennsylvania, assunse in prima persona la direzione dell’azienda di famiglia, trasformandola in una gigantesca società – radicata prevalentemente (ma non solo) nel mercato immobiliare – che gestisce grandissimi capitali a New York, in America e nel resto del mondo: la Trump Organization.
La sua vita turbolenta di businessman è stata più volte messa al microscopio in svariate inchieste giornalistiche (e giudiziarie) ed è assai difficile da seguire nei suoi infiniti dettagli, con le sue luci e le sue ombre. Secondo una interessante ricostruzione dell’«Economist», pubblicata nel febbraio 2016 con il titolo From the Tower to the White House, essa ha attraversato tre diverse fasi. La prima, di grande espansione, si può collocare tra il 1975 e il 1990, quando Trump diede uno straordinario impulso ai suoi affari affermandosi in modo spericolato nel mercato immobiliare di lusso, soprattutto a Manhattan, con la ristrutturazione dell’area circostante la Grand Central Station e di alcuni suoi importanti alberghi, con la costruzione della Trump Tower nella Fifth Avenue (oggi sede della Trump Organization e quartier generale del neo-presidente), con l’acquisto di migliaia di edifici tra Manhattan, Queens, Brooklyn, Staten Island e di alcuni grandi e redditizi casinò ad Atlantic City. La seconda fase – «l’era dell’umiliazione» – durò un altro quindicennio, dal 1990 al 2004, e fu segnata da una serie di fallimenti soprattutto nell’ambito del business dei casinò che portarono il magnate sull’orlo della bancarotta. La terza fase – quella «della celebrità» – ebbe inizio nel 2004 con l’eccezionale successo di pubblico, nazionale e poi globale, dello show televisivo The Apprentice, di cui Trump fu al tempo stesso produttore e star fino al 2015. Fu proprio questo incredibile successo – amplificato dalla sua ripetuta partecipazione a manifestazioni come Miss USA e Miss Universo e dalle sue non infrequenti apparizioni in serie TV e film di cassetta – a trasformare il tycoon in un vero e proprio brand e a moltiplicare i suoi profitti miliardari e la sua popolarità, anche al di là degli Stati Uniti, in molti diversi ambiti: da quelli per lui consolidati dell’edilizia e della gestione di grandi alberghi di lusso in America e all’estero allo sport (golf, wrestling, football americano), dalla commercializzazione dei più svariati beni e servizi attraverso la sua immagine all’organizzazione di corsi di management (la Trump University, trasformata poi più modestamente in Trump Entrepreneurial Institute), fino alla creazione della Donald J. Trump Foundation per la raccolta di fondi e donazioni a scopi caritatevoli.
Oltre che conferenziere strapagato in molte parti del mondo, Trump è autore (insieme a giornalisti e scrittori di professione) di svariati libri, per lo più autobiografici e motivazionali, di enorme successo: da The Art of Deal (1987) – il suo secondo libro preferito dopo la Bibbia, come ha riferito egli stesso – a Surviving at the Top (1990), da Think Like a Billionaire (2004) a Think Big and Kick Ass in Business and Life (2007), da Mida’s Touch: Why Some Entrepreneurs Get Rich – and Why Most Don’t (2011) fino al più recente e più «politico» Crippled America: How to Make America Great Again (2015). Si tratta di una produzione che, fin dai titoli, restituisce la medesima immagine che Trump ha dato di sé, del mondo spietato degli affari e della sua visione dell’America nel già citato e virale The Apprentice (di cui è stata prodotta un’edizione italiana condotta da Flavio Briatore): uno show in cui il Boss Trump mette ruvidamente alla prova le capacità manageriali di due team di aspiranti uomini e donne d’affari e che ha il suo momento clou nell’ormai celebre «you’re fired» (sei licenziato!) con cui egli umilia e maltratta brutalmente i malcapitati del caso.
Sposato tre volte, padre di cinque figli, Trump è oggi uno degli uomini più ricchi del mondo («Forbes» 2016 lo colloca attualmente al 324° posto della classifica) con un patrimonio stimato intorno 3,7 miliardi di dollari. Dopo l’ascesa alla presidenza degli Stati Uniti – il dato è sempre di «Forbes», aggiornato al 21 gennaio 2017 – è il secondo uomo più potente del pianeta, dopo Vladimir Putin e prima di Angela Merkel.
La sua figura presenta molteplici analogie con quella del miliardario texano Ross Perot, che si candidò come indipendente alle elezioni presidenziali americane del 1992, ottenendo allora un significativo successo considerato il tradizionale bipartitismo della politica americana. Dopo quell’esperienza Perot fondò nel 1995 il Reform Party, con il quale si presentò alle presidenziali del 1996, raccogliendo però consensi assai inferiori a quelli della precedente tornata. È almeno in parte in questo quadro che si possono situare alcuni dei più lontani precedenti della ben diversa «scesa in campo» di Donald Trump.
Trump e la politica americana. Prima della candidatura
È difficile, risalendo indietro negli anni, collocare Trump negli schemi della politica statunitense. La sua affiliazione partitica – per quel che può contare per un uomo che ha fatto a lungo degli affari la sua unica missione – è stata complessivamente piuttosto instabile.
Repubblicano nella seconda metà degli anni Ottanta, egli entrò alla fine del 1999 nel Reform Party di Perot partecipando per pochi mesi alle primarie per le presidenziali del 2000 poi vinte dal «paleoconservatore» Pat Buchanan, il quale ottenne a sua volta un risultato assai deludente alle elezioni che portarono alla Presidenza il repubblicano George W. Bush. Dopo quella fugace ma significativa esperienza, e una non breve affiliazione al Partito democratico tra il 2001 e il 2008 (durante l’era Bush), Trump ritornò tra le file dei repubblicani, rimanendovi – con una rapida parentesi tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012 – fino a oggi (durante l’era Obama).
Dopo queste oscillazioni, la sua ascesa ai vertici della politica americana è stata scandita tra il 2015 e il 2016 prima dalla sua corsa vittoriosa alle primarie del Partito repubblicano e poi dalla sua altrettanto vittoriosa campagna – in verità, come vedremo, non così tanto vittoriosa – contro la candidata del Partito democratico Hillary Clinton, moglie del 42° Presidente Usa e Segretario di Stato nella prima amministrazione del Presidente Obama tra il 2009 e il 2013. In entrambi i casi Donald Trump è riuscito ad affermarsi con grande abilità su competitor fortemente legati all’establishment della politica americana. E soprattutto nel secondo caso – si deve aggiungere – grazie anche alle complicatissime regole del sistema elettorale che negli Stati Uniti governa le elezioni presidenziali.
Le primarie del Partito repubblicano (febbraio-luglio 2016)
Le primarie del Partito repubblicano si sono svolte tra il febbraio e il luglio del 2016. In esse si confrontarono ben 17 candidati, tra i quali all’inizio spiccava la figura di Jeb Bush, rispettivamente figlio e fratello del 41° e del 43° Presidente degli Stati Uniti, a sua volta ex governatore della Florida (1999-2007), dato per favorito all’interno del partito. I consensi di Bush, tuttavia, risultarono presto assai deludenti, al punto che egli decise di ritirarsi dalla competizione già alla fine di febbraio. A quella data, altri 11 candidati avevano ormai rinunciato alla corsa. E con le ulteriori votazioni dei delegati di partito dei singoli Stati, i restanti 4 competitor di Trump – Ben Carson, Marco Rubio, Ted Cruz e John Kasich – fecero altrettanto tra marzo e maggio, in una campagna infuocata in cui venne a crearsi un ampio fronte di opposizione al tycoon, accusato da autorevoli membri del partito del calibro di Mitt Romney e John McCain di essere uno spregiudicato manipolatore assai pericoloso per la democrazia. Il 21 luglio 2016, infine, la convention nazionale di Cleveland del GOP (Grand Old Party) – vale a dire del Partito Repubblicano – proclamò Trump candidato alla Presidenza degli Stati Uniti. Come suo Vicepresidente egli scelse Mike Pence, governatore dell’Indiana. Pochi giorni prima il già citato Mitt Romney e i due fratelli Bush, George W. e Jeb, dichiararono che non avrebbero votato Trump alle presidenziali. A quella data era ormai quasi ufficiale che la competitor di Trump per il Partito democratico sarebbe stata Hillary Clinton, eletta il 28 luglio alla convention nazionale dei democratici di Filadelfia dopo una significativa competizione interna con un'altra figura decisamente anti-establisment, l’ex socialista Bernie Sanders.
Quasi nulla lasciava allora presagire che sarebbe stata proprio lei – la prima donna candidata alla Presidenza nella storia degli Usa – la destinataria del più spettacolare «you’re fired» del tycoon.
Le regole del gioco
Prima di analizzare la durissima campagna elettorale che ha visto contrapporsi Clinton e Trump, è opportuno chiarire brevemente quali sono le regole del gioco che governano il processo elettorale per la più alta carica politica dell’Unione federale. È infatti anche grazie a queste regole, da tempo aspramente contestate, che Trump è risultato alla fine il vincitore della competizione.
Le elezioni presidenziali si svolgono negli Stati Uniti con un sistema estremamente complesso fissato dall’articolo 2, sezione 1, della Costituzione. Esse si celebrano ogni quattro anni al principio di novembre in un election day che cade, per evitare la festività del 1°, il martedì immediatamente successivo al primo lunedì del mese oppure il primo martedì dopo il 1°, dunque tra il 2 e l’8 novembre.
In queste elezioni, i cittadini americani non sono chiamati a votare direttamente il futuro Presidente. Votano invece, Stato per Stato, con regole di volta in volta diverse definite dalle singole legislazioni statali, dei «grandi elettori» (di fatto rappresentanti dei partiti in corsa per le elezioni) i quali poi, circa un mese più tardi, eleggono il Presidente, esaurendo in tal modo la propria funzione. Il numero dei «grandi elettori» è complessivamente pari a 538 e corrisponde alla somma dei rappresentanti che ogni singolo Stato, in proporzione ai suoi abitanti, elegge al Congresso: 435 membri per la Camera dei deputati, 100 membri per il Senato, più ancora tre rappresentanti del District of Columbia, dove ha sede la capitale federale, Washington.
La peculiarità di questo sistema – tipicamente maggioritario con l’eccezione del Maine e del Nebraska – è data dal fatto che il partito che ottiene la maggioranza dei voti in un singolo Stato elegge l’intero numero di «grandi elettori» cui quello Stato ha diritto. Il che significa che può prodursi – com’è accaduto più volte, anche nel caso di Trump – un rilevante discostamento tra il cosiddetto «voto popolare» e quello «elettorale»: tra i voti cioè che effettivamente i cittadini danno, attraverso i grandi elettori, al proprio candidato Presidente e la composizione del Collegio elettorale (gli stessi grandi elettori) che dovrà poi effettivamente eleggere a maggioranza (almeno 270 voti) il Presidente stesso il lunedì dopo il secondo martedì del mese di dicembre.
Si tratta dunque di un sistema che attribuisce un peso assai significativo agli Stati più popolosi – ad esempio la California, che ha diritto a 55 «grandi elettori» – e un ruolo chiave ai cosiddetti swing States, gli Stati in bilico, che spesso sono decisivi per il risultato finale dell’intero processo. Nello spirito originario dei padri costituenti, il meccanismo di questa elezione indiretta doveva garantire ai «grandi elettori» la possibilità di votare a prescindere dal mandato popolare, al limite rovesciando l’esito della consultazione nazionale. Di fatto, però, da lunghissimo tempo i «grandi elettori», per lo più funzionari di partito, votano con pochissime eccezioni il candidato del proprio schieramento.
Si deve aggiungere ancora un dato importante. Negli Stati Uniti l’election day è il giorno in cui, oltre al Presidente, si eleggono anche i 435 deputati della Camera (che dura in carica due anni e viene poi rieletta nelle cosiddette elezioni di mid-term) e si rinnova un terzo dei membri del Senato (che dura in carica sei anni, ma con un avvicendamento di 34 senatori ogni due anni). Si tratta, insomma, di un giorno cruciale per il sistema politico americano, che rinnova al tempo stesso il vertice del potere esecutivo e la composizione di quello legislativo. Quasi sempre in concomitanza con altre importanti e talora decisive elezioni di carattere locale o statale.
È con questa enorme posta in gioco che i due contendenti si sono sfidati apertamente – accanto ad altri candidati minori indipendenti o di piccoli partiti quali il Libertarian Party e il Green Party – in una delle più dure e scorrette campagne elettorali della storia degli Stati Uniti, finanziata con centinaia di milioni di dollari (poco più di 300 per Trump, quasi 700 per la Clinton).
La campagna elettorale
Anticipata da molteplici schermaglie prima della nomination dei due candidati, la competizione elettorale è entrata nella sua fase più incandescente tra agosto e settembre 2016, protraendosi senza sosta fino all’Election Day, fissato per l’8 novembre. Essa è stata scandita da migliaia di appuntamenti, incontri, eventi, dichiarazioni incrociate, polemiche, attacchi personali che hanno avuto i loro momenti culminanti in tre seguitissimi dibattiti televisivi – regolamentati da un’apposita Commissione in materia – svoltisi tra settembre e ottobre a Hempstead (26 settembre), Saint Louis (9 ottobre) e Las Vegas (19 ottobre).
Nel corso di questi dibattiti e poi in una miriade di altre occasioni Clinton e Trump hanno interpretato fino alle estreme conseguenze due parti molto diverse, secondo molti osservatori rappresentative di due vere e proprie «Americhe» contrapposte. Da un lato – è il caso della Clinton – l’America dell’establishment, moderata e progressista al tempo stesso, responsabile, esperta, politicamente corretta, ultrasensibile ai diritti delle donne, dei gay, delle minoranze etniche e alle politiche ambientali. Dall’altro – è il caso di Trump – l’America anti-establishment della gente comune, di una classe media (per lo più bianca) impoverita, spaventata, rabbiosa e nel contempo sana e onesta, schiacciata dall’onnipotenza delle élites e dalle politiche a favore degli «ultimi». Un’America messa in ginocchio dalla crisi economica, ossessionata dalla minaccia delle migrazioni, del terrorismo, dell’Islam, gettata sul lastrico dagli sperperi prodotti da una politica internazionale e ambientale dissennata. E decisa a rialzare la testa.
Da qui – al netto di reciproche cadute di stile e colpi bassi di natura personale, quasi sempre più o meno direttamente a sfondo sessista – i programmi dei due candidati. Da un lato, per la Clinton («Stronger Together»), la tassazione dei grandissimi patrimoni e l’avvio di una stagione di consistenti investimenti per rilanciare l’economia, ridurre le ineguaglianze e implementare le politiche sociali nel solco dell’Obamacare; il mantenimento di un ruolo egemone nell’arena della politica mondiale anche attraverso politiche più aggressive nei confronti della Russia; la lotta contro lo jihadismo e il terrorismo internazionale da realizzare però anche attraverso forme più strette di collaborazione con le comunità islamiche; l’integrazione degli immigrati; la difesa dei diritti civili; politiche forti contro il riscaldamento climatico da contrastare attraverso nuove fonti rinnovabili di energia. Dall’altro, per Trump («Make America Great Again»), una drastica riduzione delle tasse per accendere la scintilla dello sviluppo e dell’occupazione e riattivare l’economia nazionale anche con forme spinte di protezionismo, in particolare nei confronti del dinamismo commerciale della Cina; un ritorno – salvo minacce dirette – a un relativo isolazionismo e a politiche più prudenti in politica estera, migliorando e consolidando i rapporti con la Russia di Putin, scaricando almeno in parte sui tradizionali alleati della Nato ed europei i costi tradizionalmente elevatissimi della politica mondiale Usa, rinsaldando i rapporti con Israele e rimettendo in gioco gli accordi con l’Iran sul nucleare; una lotta senza quartiere contro il terrorismo di matrice jihadista all’estero e in patria, da realizzarsi anche con misure drastiche quali il divieto dell’ingresso degli islamici nel paese e al limite la loro espulsione; politiche ferree in materia di immigrazione, soprattutto alla frontiera del Messico, da presidiare con la costruzione di un nuovo «muro» che ponga fine al continuo passaggio di clandestini; e ancora la definitiva messa in soffitta delle politiche e delle bugie ambientaliste da legarsi a un rilancio delle fonti fossili e del petrolio. Il tutto – ancora una volta in netto contrasto con il programma della Clinton – accompagnato da forme ulteriori di liberalizzazione della vendita di armi in patria, in nome del sacrosanto diritto di ciascuno alla propria autodifesa.
Dall’Election Day (8 novembre 2016) all’Inauguration Day (20 gennaio 2017)
Nei sondaggi che hanno costellato la campagna elettorale fino alla vigilia dell’Election Day, Hillary Clinton ha quasi sempre mantenuto, tra alti e bassi, un significativo vantaggio sul suo avversario, con qualche oscillazione negli swing States. Eppure l’8 novembre, a urne aperte, è risultata sconfitta in una competizione cui ha partecipato circa il 60% degli aventi diritto (quasi 140 milioni di elettori statunitensi su oltre 231).
Come si è già anticipato, su quest’esito ha pesato in modo decisivo il sistema elettorale per le presidenziali. Al netto di una non irrilevante dispersione di consensi causata dai «terzi partiti», in particolare dal Green Party, sul piano del «voto popolare» la Clinton ha infatti ottenuto quasi 3 milioni di voti in più di Trump (quasi 66 milioni contro circa 63 milioni). Tradotti in «grandi elettori» secondo la logica maggioritaria, questi voti hanno tuttavia prodotto un Collegio elettorale composto da 306 electors repubblicani e 232 democratici. Da qui la vittoria di Trump, che è stata confermata definitivamente – sia pure con qualche defezione che ha investito anche, e in maggior misura, lo schieramento democratico – dal «voto elettorale» del 19 dicembre: 304 voti contro 227.
Il 20 gennaio dunque – l’Inauguration Day – Donald Trump è diventato ufficialmente il 45° Presidente degli Stati Uniti. Si tratta – com’è stato più volte osservato anche dal suo protagonista – del più outsider dei presidenti Usa, del più vecchio dei presidenti entrati in carica e ancora, e di uno dei più ricchi dell’intera storia del paese.
Contestualmente al successo nelle presidenziali, nell’Election Day i repubblicani hanno conquistato anche la maggioranza sia alla Camera dei Deputati sia al Senato. Il che, data la struttura istituzionale dell’Unione federale e almeno fino alle prossime elezioni di mid-term tra due anni, darà al neo-presidente enormi possibilità di azione. Derivano anche da qui le forti preoccupazioni che si sono diffuse nell’opinione pubblica americana e internazionale. Esse hanno alimentato a più riprese, fino al giorno dell’insediamento di Trump, manifestazioni e contestazioni assai ostili in svariate città dell’America e del mondo. In primo luogo Washington, dove il 21 gennaio si è svolta una gigantesca e pacifica «marcia delle donne» (circa mezzo milione) contro un presidente che è divenuto una vera e propria icona del politically incorrect contemporaneo. A queste contestazioni Trump ha già risposto al termine della cerimonia di insediamento: dichiarando di voler finalmente restituire al «popolo» il potere troppo a lungo concentrato nelle mani delle élites di Washington, di voler dedicare tutte le sue energie alla riscossa del paese («America First») e firmando da ultimo il documento che dà avvio allo smantellamento dell’Obamacare.
Un marziano alla Casa Bianca?
Rimane in conclusione un interrogativo cruciale a cui è difficile rispondere ma che bisogna almeno formulare. Si può considerare davvero l’elezione di Trump come uno strepitoso incidente di percorso? Come l’intrusione di un corpo estraneo nel cuore e alla testa della democrazia più potente del pianeta? Di un paese che gioca un ruolo determinante nei destini del mondo intero? Possiamo davvero considerarlo – come si è scritto – un «marziano alla Casa Bianca»?
Per molti aspetti la risposta non può che essere affermativa. Se si risale a ritroso l’elenco dei presidenti Usa – Obama, Bush jr., Clinton, Bush sr., etc. – sembrerebbero in effetti mancare riferimenti concreti in grado di fornire analogie e precedenti in qualche modo significativi. Vi è soltanto la parziale eccezione di Ronald Reagan, un personaggio non a caso amato da Trump, che con tutti i suoi limiti iniziali divenne poi – secondo un giudizio ormai ampiamente condiviso anche sul piano storiografico – un grande presidente, anch’egli deciso a «rendere nuovamente grande l’America».
Reagan, tuttavia, appartiene a un’altra epoca storica, irrimediabilmente tramontata con la caduta dei comunismi e il pieno dispiegamento della global era. Certo, egli diede un impulso fondamentale, insieme alla Thatcher, a quella rivoluzione neo-liberale che doveva riplasmare in radice il mondo nuovo della globalizzazione. Ma non vide poi le molteplici e drammatiche contraddizioni che quella rivoluzione doveva produrre, su scala planetaria, sul piano dei rapporti politici, economici e sociali, delle diseguaglianze e del nuovo «disordine mondiale», provocando per reazione la rinascita di nazionalismi di ogni sorta e il dilagare di populismi più o meno rabbiosi dai più svariati orientamenti che sono poi diventati caratteristici del nostro tempo. Queste contraddizioni hanno investito direttamente anche l’America, la tenuta del suo tessuto sociale e la stessa domanda sul senso del suo ruolo nel mondo. E Trump, con le sue rudi ricette anti-establishment, il suo neo-isolazionismo, i suoi muri, il suo «America First» – come molti altri leader sempre più suadenti in Europa e in altre parti del mondo – vi ha dato una risposta che poteva risultare convincente. Se di marziano si tratta, bisogna dunque riconoscere che forse è all’ordine del giorno, una vera propria invasione di extraterrestri, che dalla Brexit in poi non sembra promettere nulla di buono.
Va peraltro aggiunto – come ha osservato assai autorevolmente Walter Russell Mead su «Foreign Affairs» il giorno stesso dell’insediamento di Trump – che le ricette del neo-presidente sono tutt’altro che prive di radici nella cultura politica americana. Proprio al contrario, esse sono riconducibili alla lezione del «primo presidente populista» degli Stati Uniti, Andrew Jackson (1829-37): a una sorta di «rivolta jacksoniana» che pone al centro della missione americana il benessere, la sicurezza e la forza dello Stato-nazione e del suo popolo contestualmente alla rinuncia a qualsiasi missione universale e a qualsiasi tentazione di trasformare il mondo a propria immagine e somiglianza. È questo, in fondo, il senso – tutt’altro che marziano – dell’«America First» che il neo-presidente ha scandito più volte nel suo discorso di insediamento.