Uno stupro all’origine della Repubblica
Nella tradizione storiografica di Roma la nascita della Repubblica è segnata da uno stupro, la violenza consumata da Sesto Tarquinio, il figlio maggiore dell’ultimo re Tarquinio il Superbo, ai danni di Lucrezia, la bella e fedelissima moglie di Tarquinio Collatino, anche lui un Tarquinio, ma appartenente al ramo cadetto della famiglia reale, che, come dice il nome, occupa Collazia, un piccolo borgo a qualche miglia da Roma. Tra le numerose fonti che ci conservano questa leggenda fondativa, il racconto di Livio (1,57-60) è tra i più dettagliati.
La matrona romana contrapposta alle nuore del re
Nel 509 a.C., fallito il tentativo di conquista al primo assalto, i Romani stringono d’assedio Ardea, ricca città dei Rutuli. Nell’esercito la disciplina si allenta, come accade nei periodi di forzata inattività, e i principi se la spassano a banchetto. Una sera il discorso cade per caso sulle mogli. Ne nasce una disputa su chi sia la più virtuosa e Collatino, vantando la superiorià della sua Lucrezia, propone di montare a cavallo e verificare di persona che cosa accada nelle loro case a Roma e a Collazia. Ebbene, mentre le nuore del re vengono sorprese a banchetto in lieta compagnia, i principi trovano la moglie di Collatino «che siede a tarda notte in mezzo all’atrio, dedita a lavorare la lana tra le ancelle che vegliano con lei» (Liv. 1,57,9): è l’incarnazione della matrona ideale, domiseda (in medio aedium sedentem) e lanifica (deditam lanae).
Ovidio, che riprende da vicino il racconto di Livio nei Fasti (2,721-852), colora di tratti elegiaci la figura di Lucrezia, che si consuma d’amore per lo sposo lontano e tesse per lui una lacerna (il mantello da indossare sull’armatura), mentre sulla tavola delle spose reali è servito del vino, proibito alle donne romane perchè ritenuto l’anticamera dell’adulterio: l’antitesi tra i due tipi, le dissolute donne etrusche e la castissima matrona romana non potrebbe essere più netta.
Lo stupro: un uso deviato della virtù militare
Lucrezia si aggiudica la vittoria nella gara delle donne. Collatino invita a cena i principi ed è allora che Sesto, infiammato dalla bellezza (forma) della giovane sposa e dal gusto perverso di sporcarne la specchiata pudicizia (spectata castitas), è preso dalla mala libido di usarle violenza (Liv. 1,57,10).
Il drappello torna all’accampamento, ma dopo qualche giorno, all’insaputa di Collatino, Sesto si reca di nuovo a Collazia in compagnia di un solo schiavo ed è accolto secondo le regole dell’ospitalità da Lucrezia che nulla sospetta delle sue reali intenzioni. Di notte, quando su tutta la casa regna il silenzio, Sesto lascia le sue stanze e spada in pugno (stricto gladio, 1,58,2) assale Lucrezia, svegliandola di soprassalto, le intima di tacere minacciandola di morte, e prova a sedurla con lusinghe e preghiere.
Ma la donna non si lascia piegare. Solo quando Sesto le preannuncia che farà trovare accanto al suo cadavere quello di uno schiavo nudo strangolato, e dichiarerà di averla colta in flagrante adulterio – un adulterio tanto più turpe, nella mentalità romana, in quanto consumato con uno schiavo – Lucrezia cede per evitare un disonore più grande.
Livio e le altre fonti insistono sulla terminologia militare, che rappresenta la pudicitia della matrona come una roccaforte inespugnabile e sottolinea l’uso deviato e paradossale del valore militare di Sesto, dispiegato nell’assalto erotico invece che, più opportunamente, nella guerra contro Ardea: cum vicisset obstinatam pudicitiam velut victrix libido, «dopo che la libidine a forza vincitrice ebbe sconfitto la pudicizia ostinata»; Tarquinius ferox expugnato decore muliebri, «Tarquinio fiero di avere espugnato l’onore della donna» (Liv. 1,58,5); hostis pro hospite, «nemico sotto le mentite spoglie di ospite»; vi armatus, «con la violenza e con le armi» (1,58,8).
Il violentatore che tradisce il proprio ruolo sociale
La violenza di Sesto è resa ancora più odiosa dal vincolo di parentela che lega lo stupratore alla sua vittima, un vincolo che nel mondo romano assume un valore ben più cogente del mero obbligo morale. Non è chiaro se Sesto e Collatino fossero cugini di primo o di secondo grado (Egerio, il padre di Collatino, è indicato nelle fonti ora come fratello ora come cugino del re); in ogni caso, nei confronti di Lucrezia Sesto godeva dello ius osculi, il «diritto di bacio», uno strumento di controllo messo a punto dal diritto romano per sorvegliare il comportamento matronale.
Ogni matrona aveva infatti l’obbligo di baciare ogni giorno, la prima volta che li incontrava, i parenti maschi fino al sesto grado di parentela: essi potevano così verificare che la donna si astenesse dal consumo di vino, come prescritto dalla legge a partire da Romolo. Un’altra norma poi impediva ai parenti fino al sesto grado di parentela, gli stessi cioè che godevano dello ius osculi, di unirsi in matrimonio con la congiunta. L’atto di Sesto si rivela quindi particolarmente turpe perché per legge egli aveva da una parte l’obbligo di sorvegliare e proteggere la pudicizia della donna che invece violenta, dall’altra il divieto di unirsi carnalmente con lei.
Il marito imprudente
D’altra parte, nemmeno il comportamento del marito è ineccepibile. Collatino si profonde nelle lodi di Lucrezia mentre per gli antichi una donna onesta non deve essere oggetto di conversazione: Liv. 1,57,6 incidit de uxoribus mentio, «il discorso cadde sulle mogli», è in evidente contraddizione con il precetto conservatoci da Sen. Contr. 2,7,9 «la pudicizia di una donna consiste prima di tutto nel non cadere in nessuna conversazione (in nullam incidisse fabulam)».
Ed è sempre Collatino a proporre di verificare personalmente che cosa facciano le mogli, aprendo l’intimità della propria casa e svelando ad estranei aspetti della vita coniugale che devono rimanere noti al solo marito. Ma è proprio l’idea di quell’arrivo a sorpresa per controllare il comportamento delle donne che viola apertamente il galateo romano: esso prescrive che quando un uomo torna da un viaggio, dalla campagna o dalla guerra, mandi avanti uno schiavo per avvertire del suo arrivo la moglie rimasta a casa (l’usanza è discussa da Plutarco, Quaest. Rom. 9). Il comportamento di Collatino è irrispettoso e offensivo nei confronti di Lucrezia perché si lascia interpretare come una forma di controllo dettata dal sospetto.
Non si deve dimenticare che anche Collatino fa parte del clan dei Tarquini, e come tutti i Tarquini è caratterizzato, nella narrazione liviana, dalla tendenza a eccedere e trasgredire. Dopo il suicidio di Lucrezia, non a caso sarà Bruto a prendere l’iniziativa, mentre la stella di Collatino tramonterà ben presto, prima della fine del suo consolato.
La vittima che sceglie il suicidio
Rimasta sola dopo la violenza subita, Lucrezia invia un servo a chiamare a Roma il padre, ad Ardea il marito, con la richiesta di farsi accompagnare ognuno da un parente o da un amico. Giungono a Collazia il padre Lucrezio Tricipitino con Publio Valerio (il futuro Publicola) e Collatino con Giunio Bruto.
Appena li vede, Lucrezia, che siede afflitta nella sua stanza, scoppia in lacrime e al marito che le chiede «Stai bene?», risponde: Quid… salvi est mulieri amissa pudicitia?, «Che cosa può andar bene a una donna che abbia perduto la pudicizia?» (Liv. 1,58,7).
Quindi denuncia lo stupro e il suo autore, proclamando la propria innocenza: corpus est tantum violatum, animus insons, «il corpo soltanto è stato violato, l’animo è innocente»; e invoca la morte a testimone: mors testis erit. Le parole di consolazione che padre e marito pronunciano per convincerla a rinunciare al funesto proposito così annunciato – «è la mente a commettere la colpa, non il corpo (mentem peccare, non corpus)», «dove manchi l’intenzione manca anche la colpa» (1,58,9) –, in realtà non aggiungono nessun argomento nuovo a quanto la donna ha già detto, niente dunque che possa mutarne la decisione.
Lucrezia affida ai parenti la punizione di Sesto, ma per quanto sia consapevole di non avere alcuna colpa, non si sottrae alla pena: ego me etsi peccato absolvo, supplicio non libero, e spiega così le sue intenzioni: «d’ora in poi nessuna donna potrà vivere da svergognata invocando il precedente di Lucrezia» (1,58,10). Poi estrae il pugnale e si trafigge il petto.
Il corpo violato
Lucrezia, che amissa pudicitia si toglie la vita, diventa modello insuperato di virtù muliebre: dux Romanae pudicitiae, «guida della pudicizia romana», la definisce Valerio Massimo (6,1,1), riconoscendole un animo virile, che per un errore maligno della sorte è capitato nel corpo di una donna. Certo, il suicidio di Lucrezia, con il ferro, è degno di un eroe (le donne preferivano il laccio, meno cruento), ma non è un martirio, la testimonianza coraggiosa di un ideale cui si è consacrata la vita. Lucrezia non si uccide per vergogna, perché non sopporta il disonore. Il suo gesto nasce piuttosto dalla lucida consapevolezza di non poter svolgere più alcun ruolo sociale. Sebbene Lucrezia sia vittima di violenza e non ci sia stata intenzionalità da parte sua (animus insons), resta il fatto che il suo corpo è stato violato (corpus violatum).
Adulterium, stuprum e pudicitia
Nel mondo romano la violenza subita dalla moglie di Collatino si configura come «adulterio», non come «stupro»: la stessa Lucrezia nella narrazione liviana definisce adulter il proprio stupratore (1,58,8). Il termine adulterium indica, infatti, il rapporto sessuale con una donna sposata, mentre stuprum è la relazione con una ragazza di condizione libera o con una vedova, indipendentemente dal fatto che il rapporto sia consensuale o meno. L’adulterio invalida il matrimonio, che a Roma ha finalità riproduttiva e deve garantire la certezza della paternità della prole. La pudicitia della matrona, il suo essere univira, donna di un uomo solo, è condizione necessaria a questo fine. L’adulterio infatti “sporca, guasta” per sempre il corpo della donna.
Questione di sangue
Secondo le nebulose conoscenze scientifiche degli antichi, nel rapporto sessuale il seme maschile, un derivato del sangue come dal sangue deriva il latte materno, si riversa nel corpo della donna mescolandosi al sangue femminile, che nell’adulterio viene pertanto “adulterato”, irreparabilmente corrotto (così indica anche l’etimologia di adulterium, dal verbo adultero, «altero aggiungendo»). E poiché nella formazione e nella crescita del feto il sangue femminile ha un ruolo importante, come dimostra la scomparsa del mestruo durante la gravidanza, la moglie adultera non è più idonea alla procreazione di una prole certa.
Non a caso quando Bruto raccoglie il pugnale insanguinato dal corpo di Lucrezia, giura vendetta per il suo sangue castissimum ante regiam iniuriam, castissimo sì, ma prima della violenza di Sesto (Liv. 1,59,1). La matrona pudica è l’anello di congiunzione tra gli antenati e i discendenti di un gruppo familiare: attraverso il suo corpo passa il sangue degli ascendenti, che conferisce ai nuovi nati la loro appartenenza identitaria (ce lo fa capire molto bene il fr. 50 Vottero del De matrimonio di Seneca). Ma ora che è stata defraudata del suo ruolo di moglie e madre di figli legittimi, Lucrezia non ha più identità, è un relitto sociale. Per questo la morte è per lei l’unica scelta.
Lucrezia imputata, avvocato e giudice del proprio processo
Prima però Lucrezia segue fedelmente la procedura stabilita dal diritto romano, che a partire da Romolo assegna il crimine d’adulterio al giudizio di un tribunale domestico, formato dai parenti della donna e del marito, il quale aveva diritto di vita e di morte sulla moglie, una volta che essa fosse passata dalla tutela paterna alla propria. È Lucrezia stessa a convocare questo «consiglio dei parenti (concilium necessariorum)», come lo definisce Val. Max. 6,1,1: in esso siede come imputata, pronuncia il discorso della difesa, emette il verdetto, e, in assenza di testimoni in suo favore, chiama la morte a garantire la propria innocenza. Il termine testis in Liv. 1,58,7 ha una sua pertinenza giuridica, mentre grida al lettore moderno la tragica solitudine della vittima.
Lucrezia, Virginia e il corpo politico dello stato
Il corpo di Lucrezia dalla casa di Collatino, tempio profanato della sua vita matronale, viene portato nello spazio pubblico del Foro, dove lo sdegno per il crimine commesso da Sesto Tarquinio innesca la rivolta contro la dinastia etrusca e sancisce la fine della monarchia.
Nello stesso modo la caduta del decemvirato, la magistratura istituita per la redazione di un codice scritto di leggi (le XII tavole), che subisce una deriva autoritaria nel secondo anno di carica, è innescata dalla morte di Virginia, uccisa dal padre pur di sottrarla allo stupro di Appio Claudio. La narrazione di Livio in 3,44-58 è condotta sulla falsariga dell’episodio di Lucrezia e lo stesso Livio sottolinea la analogia tra le due vicende (3,44,1).
L’aggressione al corpo femminile, destinato alla procreazione dei figli della classe dirigente romana, e quindi garanzia della sopravvivenza stessa del corpo politico dello Stato, nella tradizione storiografica diventa emblema e monito contro i pericoli della tirannide: l’abuso di potere, il mancato rispetto delle regole sancite dai Padri, è capace di colpire al cuore la vita dello Stato, distruggendone il futuro.
Suggerimenti di lettura
Sulla figura di Lucrezia puoi leggere M. Lentano, Lucrezia, Vita e morte di una matrona romana, Roma 2021, che questa pagina ampiamente presuppone.
Sulla condizione femminile a Roma resta fondamentale il contributo di E. Cantarella, La vita delle donne, in A. Momigliano, A. Schiavone (a cura di), Storia di Roma, vol. IV, Torino 1989, p. 558 ss.
Sul confronto tra l’adulterium di Lucrezia e lo stuprum di Virginia, e sul significato politico delle loro storie puoi vedere S.R. Joshel, The body female and the body politic: Livy’s Lucretia and Verginia, in A. Richlin, Pornography and representation in Greece and Rome, Oxford-New York 1992, p. 112 ss.
Crediti immagini: Tiziano Vecellio, "Tarquinio e Lucrezia", olio su tela, 1571, Cambridge, Fitzwilliam Museum (Wikipedia)