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La ricerca della felicità

La felicità nella soggezione

Ludovico Testa analizza il complesso tema della felicità nella soggezione, nello specifico si occupa del ruolo dell’obbedienza e della partecipazione nel Terzo Reich. Lo Stato totalitario infatti, fa affidamento proprio sull’entusiastica adesione al sistema da parte delle masse.

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Lo Stato totalitario non si accontenta dell’obbedienza, non si accontenta di forgiare semplici esecutori degli ordini provenienti dall’alto. Lo Stato totalitario fa affidamento sulla complicità del singolo e dell’apparato, sulla loro mobilitazione, sulla loro entusiastica adesione alla costruzione del sistema. Obbedienza e partecipazione costituiscono nei regimi totalitari due principi complementari, due facce della stessa medaglia, sulla quale è raffigurato il profilo capo, fonte indiscussa dell’autorità.
Nella Germania nazionalsocialista, le parole pronunciate dal Ministro della Giustizia Hans Frank in merito alle prerogative del Führer non lasciano spazio alle incertezze: «Il diritto pubblico del Terzo Reich» affermava «è la formulazione giuridica della volontà storica del Führer. Che il Führer governi in conformità a una Costituzione formale, scritta oppure no, non è questione giuridica di primaria importanza. Questione giuridica è soltanto se con il suo operare il Führer garantisce la vita del popolo tedesco»[1]. Tali erano i fondamenti del Führerprinzip, che innalzavano il capo al rango di fonte suprema del diritto.

Lavorare per il Führer

Il nuovo ordine imposto dal governo nazionalsocialista alla società tedesca trovò fedele riproduzione nel mondo del lavoro, la cui riorganizzazione ispirata ai dettami del Führerprinzip fu accompagnata da una vasta attività legislativa, volta a irreggimentare le masse lavoratrici sulla base di nuove regole e di nuovi principi etici.
Il “Fronte tedesco del lavoro” (Deutsche Arbeitsfront) – il nuovo ente parastatale guidato da Robert Ley e istituito sulle macerie del movimento sindacale – si impegnò a deviare le rivendicazioni materiali dei lavoratori verso obiettivi più astratti, quali l’impegno al servizio dei prioritari interessi della comunità popolare, per la cui difesa e rafforzamento il contadino come l’operaio erano tenuti a svolgere il proprio compito con la stessa disciplina, lo stesso entusiasmo e lo stesso spirito di sacrificio del soldato. Esaltando la componente paternalistica della nuova etica del lavoro, Ley faceva notare quindi come, per l’operaio, la stretta di mano riconoscente del suo direttore costituisse una ben più alta gratificazione del semplice, freddo compenso pecuniario.

Con i suoi 25 milioni di iscritti e il suo mastodontico apparato burocratico, il Fronte del lavoro costituiva una struttura collaterale al Partito nazista, dotata di ampia autonoma e di ingenti risorse finanziarie. Ciò rese possibile destinare importanti finanziamenti all’organizzazione del tempo libero delle masse lavoratrici. A tal fine la Kraft durch Freude (Forza attraverso la gioia), un’organizzazione equivalente alla fascista “Opera nazionale del dopolavoro”, si occupò di garantire anche per i ceti meno abbienti la possibilità di partecipare ad attività culturali e ricreative (gite turistiche, spettacoli teatrali, crociere, viaggi all’estero), fino ad allora accessibili soltanto alle classi agiate. Lo stesso nome dell’organizzazione indicava come la forza della comunità nazionale costituisse il derivato della felicità generata in ciascuno dei suoi membri dal completo abbandono tra le braccia del regime.

Lavorare incontro al Führer

Nel Terzo Reich l’ampia autonomia riconosciuta al Fronte del lavoro nel contribuire alla realizzazione della politica economica del regime non costituiva una singolarità. Corollario importante del Führerprinzip era costituito infatti dal “lavorare incontro al Führer”, formula con la quale veniva indicato un metodo di operare che non si esauriva nell’obbedire passivamente agli ordini, ma richiedeva a ciascuno partecipazione convinta, entusiasmo e impegno per comprendere, interpretare e realizzare la volontà del capo.
«Chiunque abbia la possibilità di osservarlo» spiegava nel 1934 un funzionario del ministero dell’agricoltura, «sa che il Führer non può certo dettare dall’alto tutto ciò che intende prima o poi realizzare. Molto spesso e in campi diversi vi sono stati casi nei quali gli individui hanno semplicemente atteso ordini e istruzioni. La stessa cosa, purtroppo, potrebbe ripetersi in futuro; dovere di ciascuno è però cercare di lavorare in funzione del Führer lungo le linee che egli vorrà. Chi commette errori lo capirà molto presto. Ma chiunque lavori veramente in funzione del Führer seguendo le sue linee e per i suoi obiettivi, un giorno, oggi o nel futuro, certamente avrà la migliore ricompensa in un inatteso riconoscimento ufficiale del suo lavoro».[2]

Se il Führerprinzip offriva quindi la possibilità di scaricare le responsabilità decisionali sui superiori attraverso il principio dell’obbedienza gerarchica, il “lavorare incontro” o “in funzione, del Führer” si fondava al contrario sulla partecipazione attiva di ogni componente dell’apparato, sul suo coinvolgimento diretto nel funzionamento della catena di comando. L’interpretazione e l’attuazione delle direttive indicate a grandi linee da Hitler nel corso di lunghi e ripetitivi monologhi, favorì il consolidamento nella struttura organizzativa del partito e dello stato di significativi spazi di autonomia decisionale e di un’estrema flessibilità nella scelta delle procedure necessarie al conseguimento degli obbiettivi.

La svastica e il mestolo 

«Hitler non le prendeva sulla carta le sue decisioni» affermava nel 1981 Gertrude Scholtz-Klink, dirigente dell’organizzazione femminile del Terzo Reich, «si limitava a farci capire cosa voleva, stava poi a noi tradurlo in politica».

Potrebbe essere questa la chiave per comprendere come mai un partito profondamente maschilista e misogino come quello nazista abbia ottenuto, quasi fin da subito, ampi consensi nel mondo femminile. È possibile che, anche in questo ambito, l’”andare incontro al Führer” favorisse la diffusa convinzione che tante affermazioni radicali di Hitler, come quella sul ruolo di forte subordinazione riservato alle donne nello Stato nazista, non dovessero essere prese alla lettera, ma bisognasse interpretarle in modo elastico e aperto. Ciò poteva smussare le rigidità della netta separazione tra i sessi e della soggezione della donna all’uomo, sostenuti dalla dottrina nazionalsocialista ma ricalcati sui modelli culturali tradizionali, che avevano fatto da sfondo all’educazione di gran parte delle donne tedesche e che il processo di emancipazione verificatosi negli anni della Repubblica di Weimar aveva solo superficialmente scalfiti.

In tal senso, Gertrud Scholtz-Klink si mostrò ampiamente all’altezza delle aspettative dei gerarchi nazisti. Il suo programma mirava a risvegliare nelle donne l’”orgoglio materno”, per metterlo con entusiasmo al servizio delle esigenze collettive. Il suo modello era la famiglia patriarcale contadina, dove le mansioni della donna e dell’uomo erano ben definite e, soprattutto, dove la donna non nutriva alcuna aspirazione che potesse interferire con le funzioni riservate all’uomo. Il femminismo, l’individualismo e l’intellettualismo che avevano caratterizzato il periodo weimariano, sosteneva Scholtz-Klink, si erano rivelati assai dannosi per gli interessi delle donne, la cui purezza di spirito era stata inquinata dalle rivendicazioni politiche e materiali dettate dalla ragione. La felicità della donna tedesca doveva quindi trovare spazio tra le mura domestiche e, «anche se la nostra unica arma dovesse essere un mestolo di legno» affermava, «la sua forza non sarà minore di quella delle altre armi»[3].

Sulla condizione della donna nel Terzo reich
http://www.storiain.net/storia/la-donna-nella-germania-nazista/

Realizzare la profezia

L’idealizzazione di una società preindustriale e patriarcale operata dall’ideologia nazionalsocialista si pose in stridente contrasto con il moderno principio di “produttività ed efficienza”, che trovò ampia applicazione anche nell’operazione di sterminio delle minoranze ebraiche presenti in Europa. La scientifica organizzazione dei lager e la complessa struttura dell’apparato burocratico, dai quali dipese la realizzazione della Endlosung (soluzione finale), costituirono i frutti avvelenati di una società a capitalismo avanzato, nella quale l’interazione tra burocrazia e tecnologia si risolse nel più mostruoso dei epigoni.
Se non esiste un preciso ordine scritto di Hitler relativo allo sterminio degli ebrei, numerose sono però le sue prese di posizione in merito, tra le quali spicca la cosiddetta “profezia” del gennaio 1939, con la quale il Führer aveva prospettato «la distruzione (Vernichtung) della razza giudea in Europa».
Amplissima fu l’autonomia decisionale e organizzativa che caratterizzò l’attività dei responsabili dello sterminio, consapevoli di andare, anche in questo campo, incontro alla volontà del Führer. Più in generale, sarà proprio su questo aver lavorato “incontro al Führer” che si fonderà la motivazione del verdetto di condanna, emesso il primo ottobre 1946 dal tribunale internazionale contro 19 dei 22 imputati al processo di Norimberga.


[1] E. Collotti, Nazismo e società tedesca 1933-45, Loescher, Torino 1982, p. 100

[2] I. Kershaw, "Lavorare in funzione del Führer": riflessioni sulla natura della dittatura di Hitler, in I. Kershaw – M. Lewin (a cura di),Stalinismo e nazismo. Dittature a confronto, Editori Riuniti, Roma 2002, p. 139. Traduzione di F. Buzza

[3] J. C. Fest, Il volto del Terzo Reich, Mursia, Milano 1970, p. 420.Traduzione di L. Berlot


I giudici del processo di Norimberga (Crediti immagine: Wikimedia Commons)

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