Che essere felici sia un bene è assolutamente ovvio, dato che la felicità è una condizione di benessere. Al pari della filosofia, però, anche la psicologia si interroga su cosa sia veramente la felicità e quali siano gli ostacoli al suo raggiungimento. Varie riflessioni suggeriscono che la felicità sia il combinato dell’appagamento dei nostri desideri e della consapevolezza di tale stato, ma capire il peso di ciascuno dei due fattori è tutt’altro che facile.
Quali sono i nostri desideri?
A una prima impressione potrebbe sembrare che ciascuno di noi abbia bisogni e desideri differenti. Ma è possibile che essi siano puramente soggettivi? Non per lo psicologo Abraham Maslow, per il quale i nostri bisogni appartengono ad alcune specifiche categorie, anzi a una vera e propria gerarchia: il bisogno di cibo è più fondamentale di quello di sicurezza, questo secondo di quello affettivo, seguono poi il bisogno di stima e di autosoddisfazione. Anche se Maslow nella sua voluminosa monografia Motivazione e personalità (Armando editore, Roma 1973) non parla di felicità, possiamo intendere in questi termini la realizzazione complessiva di un individuo. Non è un caso che Maslow citi Aristotele a tal proposito: «Possiamo essere d’accordo con Aristotele nel sostenere che la buona vita consiste nel vivere secondo la vera natura umana; ma dobbiamo aggiungere che egli conosceva ben poco di questa vera natura». Maslow invece ritiene di aver colto la natura umana in questa ricerca di soddisfazione di bisogni sempre più elevati.
Marlow precisa inoltre che la soddisfazione dei bisogni avviene secondo strategie complesse: basta una parziale soddisfazione di un bisogno di livello inferiore per innescare la ricerca della soddisfazione di un bisogno di livello superiore. E inoltre un soggetto è in grado di sopportare la frustrazione di un bisogno ora insoddisfatto, se è in passato, invece, il suo appagamento è stato completo. Questi fenomeni, per Maslow, non sono soggetti a variazioni culturali, ma sono una costante della vita umana.
Per approfondire: https://www.treccani.it/enciclopedia/abraham-h-maslow/
Tre ambiti fondamentali per la felicità
Possiamo allora chiederci se la soddisfazione di un bisogno sia una forma di felicità o se il discorso vada approfondito. Su questa strada ci aiuta lo psicologo sociale Michael Argyle (in Psicologia della felicità, Raffaello Cortina editore, Milano 1988): la felicità, a suo avviso, non è uno scopo da raggiungere, ma è la conseguenza del raggiungimento di altri obiettivi. Per fornire una definizione più intuitiva della felicità egli propone di considerarla «una riflessione sull’appagamento della vita» o «la frequenza e l’intensità di emozioni positive». Si tratta di una definizione volutamente sfumata che include tanto un aspetto emotivo quanto un aspetto cognitivo. In poche parole, da un lato occorre che i nostri bisogni siano appagati (anche grazie all’effetto di emozioni positive), ma occorre che il soggetto ne sia consapevole.
Le aree della vita in cui le soddisfazioni sono più significative – prosegue Argyle – sono quelle dei rapporti sociali, del lavoro e dello svago, che egli ha individuato sulla base di studi fondati su interviste. Ma la dinamica della felicità non è del tutto identica in questi ambiti: l’aumento della relazioni sociali appaganti (matrimonio, amicizia ecc.) incrementa la felicità, mentre un semplice aumento di stipendio non incide se non perché posto in relazione alla situazione di vita, alla percezione del proprio valore, alla retribuzione dei colleghi.
Quest’ultima notazione solleva una domanda: è più importante la soddisfazione che proviamo o la consapevolezza della nostra soddisfazione? E il nostro giudizio sugli eventi può essere un ostacolo alla felicità?
Quando la mente è di ostacolo
A questa domanda lo psicologo Paolo Legrenzi, nel volume Felicità. Quali trappole mentali ci impediscono di essere felici? (Il Mulino, Bologna 2020, ediz. aggiornata) risponde affermativamente: alcuni meccanismi mentali concorrono alla nostra infelicità. Per esempio, dati sperimentali mostrano che per le persone è maggiore il dolore provato nel perdere qualcosa di proprio rispetto alla gioia provata nel ricevere qualcosa di nuovo, un dato interpretabile alla luce di una concezione espansiva dell’Io, che si “allarga” ai beni posseduti dal soggetto. Guadagnare e perdere non sono quindi eventi perfettamente simmetrici, perché la perdita di un bene viene vissuta come una menomazione di sé.
Un altro meccanismo mentale che mina la nostra aspirazione alla felicità è la sopravvalutazione del ruolo delle nostre scelte e delle nostre capacità e la corrispondente minimizzazione degli altri fattori: cosa che rende più difficile apprezzare i successi parziali che non coincidono con le aspirazioni.
Questa prospettiva implica un’analisi in chiave soggettiva concentrata sul Sé, quella sorta di schema con cui circoscriviamo la nostra identità, come spiega lo psicologo Luigi Castello (Psicologia sociale cognitiva. Un’introduzione, Editori Laterza, Roma-Bari 2004). La rappresentazione di noi stessi invoca un principio di coerenza per il quale reinterpretiamo il nostro passato alla luce del presente. Ma cosa accade se nella percezione di noi stessi la lancetta punta su un’immagine fallimentare? La nostra mente rievocherà una lunga serie di insuccessi, che confermeranno il giudizio che ci siamo formulati.
Quale strada verso la felicità?
Questi esempi di meccanismi mentali capaci di boicottare la nostra valutazione della realtà sono parte di noi stessi. Se ne deduce che esserne consapevoli ridimensiona le cause dell’infelicità.
Tali riflessioni circoscrivono alcune questioni, ma lasciano possibili varie soluzioni: la vera felicità sta nella serenità di una buona e consapevole condizione di vita oppure occorre una intensa dose di frequenti emozioni positive? E si può essere felici da soli o l’importanza delle relazioni per il nostro benessere implica che si sia felici almeno in due?
Quale che sia la risposta che preferiamo, sembra inevitabile che, per essere felici, occorra imparare ad esserlo.
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