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Bestie naziste

Nel testo Bestiario nazista lo storico tedesco Jan Mohnhaupt ha approfondito la relazione tra nazismo e tutela degli animali. Il nazismo fu capace di inconcepibili atrocità su donne, uomini e bambini, ma al tempo stesso mitizzò il rispetto per alcune categorie di animali: una contraddizione evidente, che Andrea Tarabbia legge nel ruolo simbolico di alcuni animali per la propaganda di regime.

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Orsi

Appena fuori dal recinto che delimita il campo di concentramento di Buchenwald, a pochi chilometri da Weimar, in Germania, c’è una piccola grotta artificiale, circondata da un muretto di protezione: qui, a una dozzina di metri dai forni crematori, all’epoca in cui il campo era attivo vivevano due orsi, che facevano parte di un piccolo zoo che dilettava le SS e i loro figli nei turni di pausa dal lavoro. La cura di questi animali era affidata a prigionieri sinti e rom, ritenuti adatti perché, spesso, nelle loro vite precedenti erano stati artisti di strada e si erano esibiti con degli animali, orsi compresi; ma soprattutto perché questi popoli erano considerati inferiori, “animaleschi”, e dunque perfettamente in grado di entrare in sintonia con le bestie.

Si sa che Karl Otto Koch, che diresse il campo tra il 1937 e il 1941, aveva molto a cuore gli animali dello zoo: la pena prevista per il prigioniero sotto la cui responsabilità moriva un cucciolo era la morte. A volte, pare che questa morte non avvenisse per fucilazione o tramite le camere a gas: si dice che Koch facesse gettare, ogni tanto, dei prigionieri dentro il recinto e rimanesse lì a guardare mentre gli orsi li sbranavano. Se Koch facesse questo per divertimento o per mettere in scena un’esecuzione esemplare, non lo so. Forse lo faceva per l’una e l’altra cosa insieme. Traggo queste notizie terribili, e altre che verranno, dal lavoro di uno storico tedesco, Jan Mohnhaupt: sono contenute in un libro pubblicato in Italia con il titolo di Bestiario nazista, e dedicato appunto alla relazione tra nazismo – e in senso lato ideologia di estrema destra – e animali.

Si parla sempre molto dell’amore che alcuni gerarchi nazisti nutrivano per l’arte figurativa o per la musica; si parla meno, invece, di quanto amassero e rispettassero alcune specie animali. I nazisti, il cui capo era vegetariano proprio per amore degli animali, furono per esempio tra i primi a introdurre leggi che rendevano meno brutale la macellazione: era il 1933, Hitler era appena salito al potere, e una legge pietosa del Reich stabilì che, prima di essere macellati, gli animali a sangue caldo dovevano essere storditi. (Questo, allo stesso tempo, mise fuori legge le macellerie ebraiche, i cui riti di macellazione non potevano conformarsi alle nuove regole).

In ogni caso, ci si può chiedere: come è possibile che un’ideologia che si prende cura degli animali e che adora i cuccioli mandi a morire milioni di persone, bambini compresi, nei modi orrendi che conosciamo? Detto altrimenti: come fa, un nazista, a non vedere la contraddizione tra il fatto che il suo regime tutela i diritti degli animali e, allo stesso tempo, compie crimini contro l’umanità?

Secondo Mohnhaupt, una risposta possibile a queste domande risiede nel concetto di «vita» che l’ideologia nazista si porta dietro e che, per certi versi, a ottant’anni di distanza dalla sua fine, è ancora sorprendente. Mohnhaupt ricorda come il nazismo misuri il valore di una singola vita sulla base della sua «utilità» alla causa ariana: nel sistema germanico, gli ebrei o i disabili sono considerati nocivi o inutili allo sviluppo della nazione tedesca (la propaganda li paragona spesso a dei parassiti) e le loro vite, in quanto «indegne di essere vissute», vengono rapidamente declassate a «non umane».

La vita di molte specie animali, invece, come vedremo a breve, è considerata molto utile o per lo meno conforme al pensiero di regime: esistono dunque animali che, in ottica nazista, sono tenuti in maggior considerazione di certe categorie di persone.

Per esempio, i canidi.

Cani, lupi, predatori

In L’uomo e la tecnica, saggio che il filosofo reazionario Oswald Spengler pubblicò nel 1931, c’è scritto che «quella del predatore è la forma più elevata di vita attiva». Il predatore per eccellenza, nella cultura nazista allora come oggi, è il lupo: vive nei boschi, uccide per vivere, ha un branco, alleva i cuccioli e sa quando è l’ora di morire. È il principe della categoria degli «animali padroni», ovvero i canidi. In generale, nella visione nazista, gli animali selvatici e in particolare i predatori sono al vertice della piramide, perché non hanno subito la domesticazione: un animale addomesticato è un individuo imborghesito, qualcuno che ha rinunciato al proprio slancio vitale, alla lotta e alla forza bruta in cambio del cibo e delle cure umane.

Epperò i nazisti hanno cani propri, e li amano: Blondi, il pastore tedesco che Hitler avvelenò nel bunker, a Berlino, poco prima di suicidarsi, fa parte dell’iconografia del Führer, e sono moltissime le immagini in cui Hitler accarezza e coccola dei cani – anche appartenenti a razze meno “nobili” del pastore tedesco. Le SS più feroci, nei ricordi dei sopravvissuti, sono spesso accompagnate da cani: a Treblinka, il sanbernardo Barry apparteneva al direttore del campo, Kurt Franz; era un animale tranquillo, che volentieri passava del tempo in compagnia dei prigionieri. Ma tutti ne avevano una paura folle: bastava che il suo padrone glielo ordinasse, e Barry azzannava chiunque. Franz lo aizzava contro i detenuti per capriccio, per un improvviso attacco di rabbia o per divertimento – e molti ne ha sbranati Barry che, per quel sadismo che spesso colora queste storie, rispondeva a un ordine atroce: «Uomo, prendi quel cane!» (Non è un refuso: nell’immaginario di Franz, Barry era più umano, più degno di un detenuto). I cani che presidiavano i campi dovevano essere, secondo Himmler, «bestie dilanianti»: le loro razioni di cibo li mantenevano costantemente sull’orlo della fame, così che fossero sempre aggressivi e pronti a scattare.

Maiali e amor patrio

Ma non ci sono solo lupi, orsi e cani famelici, nel pantheon animale nazista. Ci sono anche esseri più paciosi, che rotolano nel fango e non assaltano nessuno: i maiali. Richard Walther Darré, un generale delle SS che, nel corso della sua vita, si occupò anche di questioni agrarie, pubblicando libri come Il contadinato come fonte vitale della razza nordica (1929) e diventando Ministro per l’alimentazione e l’agricoltura del Reich, sostenne che i suini fossero una delle principali ragioni della superiorità della razza ariana su tutte le altre. In alcuni articoli, che avevano lo scopo di “nazificare” l’agricoltura e l’allevamento (quello con il titolo più buffo è Il suino come criterio distintivo tra popoli nordici e semiti), Darré sostenne – ma non era l’unico – che storicamente era stato il maiale a spingere i popoli nordici a diventare stanziali e dunque a costruire fattorie, villaggi, città e che, di conseguenza, l’allevamento dei suini aveva dato un contributo decisivo alla fondazione della civiltà ariana. Al contrario, i popoli come gli ebrei e i musulmani, che invece rifiutano di cibarsi di maiale e dunque di allevarlo, si autocondannano al nomadismo e all’impossibilità, di fatto, di avere una patria e una cultura.

Pidocchi in divisa

Orsi, lupi, maiali. Vendichiamoci dell’orrore usando degli animali piccoli, fastidiosi – dei parassiti. C’è un racconto di Primo Levi che contiene la piccola storia di alcune donne che, in un lager, lavorano come lavandaie. Loro compito è quello di tener pulite e in ordine le divise delle SS. Così, ogni volta che possono, raccolgono dalle teste e dalle vesti dei morti i pidocchi e li piazzano nei colletti delle uniformi dei soldati, in modo che i parassiti li possano contagiare con il tifo e la febbre petecchiale – malattie portate proprio dai pidocchi e per le quali i prigionieri muoiono a decine. Questa delle lavandaie non è che una piccola rivolta, e forse non ha dato grandi risultati: ma è importante che ci sia stata.


Crediti immagine: porta di ingresso al campo di Buchenwald. Foto di Cyrille LIPS/Shutterstock

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