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Theresienstadt: il lager dell’inganno

A Theresienstadt, in Repubblica Ceca, il regime nazista organizzò un lager-ghetto riservato ad artisti e intellettuali ebrei. Fu anche un’operazione di depistaggio per mascherare sulle reali intenzioni del governo tedesco rispetto allo sterminio degli ebrei: Goebbels organizzò sopralluoghi e anche riprese video per dimostrare che nel campo le condizioni di vita erano buone. Ma la realtà era ben diversa. 

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Theresienstadt, o Terezín in ceco, rappresenta uno dei luoghi più inquietanti dell’Olocausto. Non fu un campo di sterminio come Auschwitz o Dachau, ma piuttosto un luogo di orrore nascosto, travestito da falsa umanità, un inganno rivolto a una comunità internazionale purtroppo disposta a credere a quella menzogna.

A fare da sfondo a questa vicenda – meno ricordata rispetto ad altre in Italia – è una fortezza asburgica situata 60 km a nord di Praga, oggi nella Repubblica Ceca. Durante l’occupazione tedesca della Cecoslovacchia, i nazisti trasformarono Theresienstadt in un ghetto-lager, presentandolo però come un “ghetto modello”. Il loro scopo era mostrare al mondo come gli ebrei fossero trattati con umanità. In realtà, era un luogo di sofferenza e morte, un tragico inganno creato per mascherare il genocidio.

Il campo fu istituito nel 1941 all’interno della città-fortezza costruita nel 1780 dall’imperatore Giuseppe II d’Austria e dedicata a sua madre, Maria Teresa d’Austria. Sotto il controllo nazista, Theresienstadt divenne un campo di concentramento, prevalentemente di transito, per decine di migliaia di ebrei destinati ai campi di sterminio dell’Est.

I “selezionati”

A Theresienstadt vennero deportati soprattutto intellettuali, artisti, anziani e personalità influenti delle comunità ebraiche di mezza Europa, progressivamente smantellate da leggi razziali e persecuzione sistematica. La propaganda nazista, orchestrata da Joseph Goebbels, presentò Theresienstadt come una “colonia autonoma ebraica”, un’immensa messa in scena ideata per ingannare l’opinione pubblica internazionale, la Croce Rossa che avrebbe dovuto vigilare sul trattamento riservato ai deportati e gli stessi ebrei. Tra i prigionieri di Theresienstadt si trovavano in prevalenza compositori, scrittori, poeti, pittori e scienziati, molti dei quali non erano riusciti o non avevano voluto lasciare l’Europa.

Questo raduno involontario di talenti diede vita a un fenomeno probabilmente inatteso dai tedeschi stessi: una straordinaria produzione culturale, nonostante le condizioni disperate. I nazisti sfruttarono proprio questa creatività artistica a scopi propagandistici.

Operazione abbellimento

L’attività propagandistica culminò nella visita di alcuni delegati della Croce Rossa Internazionale nel giugno 1944. Per l’occasione il ghetto fu trasformato in una scenografia artificiale: vennero creati giardini, organizzati concerti e allestite scuole improvvisate per far credere che gli ebrei godessero di una vita dignitosa. Per non dare l’impressione di un luogo sovraffollato e insalubre, quale Terezín in effetti era, prima della visita ufficiale oltre 7.000 prigionieri furono deportati ad Auschwitz.

Lo scrittore tedesco W.G. Sebald, nel suo libro Austerlitz (Adelphi), ha descritto nel dettaglio questo grottesco inganno, la cosiddetta “Operazione abbellimento”, Verschönerungsaktion in tedesco. I deportati furono costretti a trasformare Theresienstadt in un idilliaco palcoscenico. «Si crearono spazi erbosi, viottoli adatti al passeggio […]; si collocarono panchine per la sosta, segnavia abbelliti alla maniera tedesca con divertenti intagli e ornati floreali, si piantarono oltre mille rosai, si attrezzarono un asilo nido e una scuola materna dalle gradevoli decorazioni, provvista di spazi in cui giocare con la sabbia, di una piccola piscina e di giostre. […] Con oggetti presi dai magazzini delle SS furono aperti negozi di generi alimentari e casalinghi, di abbigliamento […]». Persino di articoli da viaggio: un macabro paradosso, dato che i deportati potevano partire solo verso Auschwitz. Dopo la visita, molti di coloro che avevano contribuito alla messinscena furono infatti deportati e uccisi.

La cultura spezzata

Per la visita della Croce Rossa fu prodotto un film propagandistico dal titolo grottesco Il Führer regala una città agli ebrei (Der Führer schenkt den Juden eine Stadt), diretto sotto costrizione dal regista ebreo Kurt Gerron. La pellicola non fu mai distribuita ed è quasi del tutto perduta, salvo pochi minuti senza audio conservati negli archivi di Berlino. La produzione coinvolse i deportati come attori, sceneggiatori e musicisti, costretti a lavorare per la propaganda. Tra loro c’era Pavel Haas, autore dello Studio per orchestra d’archi che si vede suonare in uno dei frammenti giunti fino a noi. Anche Hass fu poi deportato ad Auschwitz, dove fu ucciso poco dopo il suo arrivo.

Nonostante il lavoro culturale forzato, la presenza di tanti artisti trasformò Theresienstadt in un simbolo di resistenza creativa. Nel ghetto-lager furono composte opere teatrali, musicali e letterarie, in un disperato tentativo di preservare la dignità umana e opporsi alla disumanizzazione.

Il compositore Viktor Ullmann creò gran parte della sua produzione musicale nel lager, tra cui Der Kaiser von Atlantis, un’opera satirica sul regime nazista. Ullmann fu deportato ad Auschwitz e ucciso nel 1944, poco dopo la visita della Croce Rossa. Gideon Klein, violinista, continuò a comporre fino alla sua deportazione e morte. Alice Herz-Sommer, pianista e tra le poche sopravvissute, raccontò come la musica fosse stata essenziale per sopravvivere all’orrore.

Anche Hans Krása, autore dell’opera per bambini Brundibár, fu deportato e ucciso. Brundibár, originariamente composta nel 1938, fu rappresentata più volte a Theresienstadt e usato dai nazisti come strumento propagandistico. Tuttavia l’opera – che narra la storia di due bambini che sconfiggono un tiranno – era anche un simbolo di resistenza contro il regime.

La realtà dietro l’inganno

In Italia, la storia di Theresienstadt è poco conosciuta: gli italiani deportati nella ex fortezza asburgica non furono più di 500 o 600. Nel nostro Paese persiste in alcuni l’idea che potesse essersi trattato davvero di un ghetto modello, seppure fittizio, e che le attività culturali che lì fiorirono dimostrino condizioni di vita accettabili.

W.G. Sebald, ancora una volta, ha svelato la verità dietro la facciata propagandistica: «Una parte consistente di ciò che veniva trasportato ogni giorno a Theresienstadt erano i morti». L’alto numero di deportati, la malnutrizione e le malattie infettive causavano migliaia di decessi: nel 1942-43, le condizioni sanitarie provocarono circa 20 000 decessi in soli 10 mesi. Inoltre, moltissimi a Terezín erano anziani. «A queste persone», scrive Sebald, «prima di deportarle, si era fatto credere che sarebbero andate a soggiornare in una piacevole stazione climatica boema chiamata Theresienbad».

La realtà era ben diversa. In tutto, circa 140.000 persone furono deportate a Theresienstadt tra il 1941 e il 1945. Di queste, 33.000 morirono nel campo, soprattutto per le pessime condizioni, mentre 88.000 internati furono trasferiti ad Auschwitz, dove in gran parte morirono. Soltanto 17.000 dei deportati a Theresienstadt sopravvissero.

Resistenza culturale

Theresienstadt resta il simbolo di una duplice tragedia: da un lato, il suo utilizzo come strumento di inganno per occultare l’Olocausto; dall’altro, la perdita di una generazione di artisti. Le opere d’arte fiorite nel lager non bastarono a salvare i loro autori, ma quella fioritura di creatività sopravvive come testimonianza della forza che può avere lo spirito umano.

Oggi la musica e l’arte nate a Theresienstadt vengono finalmente studiate e fatte conoscere nel mondo. Sono una finestra affacciata su una delle pagine più oscure della storia, ma anche una luce di speranza: la cultura può essere uno strumento di resistenza e memoria.


Crediti immagini: Disegno dal ghetto di Theresienstadt. Crediti: Bedřich Fritta - Fonte: Wikipedia

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