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Speciale Dante

Ovidio nella Commedia: un classico da superare

Nel poema dantesco Ovidio non si definisce in quanto personaggio a tutto tondo provvisto di una biografia ma entra nel testo come autore delle "Metamorfosi", repertorio di immagini e di miti che attraversano tutte e tre le cantiche
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Ricordato da Dante nelle opere giovanili in quanto autore elegiaco e magister amoris (ma di un amore rifiutato in quanto si riduce a passione terrena), Ovidio è fin da Vita Nuova e de vulgari eloquentia componente fisso del canone dantesco dei poeti classici; nella Commedia, Virgilio lo menziona come terzo, in ordine cronologico dopo Orazio satiro e prima di Lucano (Inf. IV 89-90). Diversamente da Virgilio, presente sia tramite una esibita memoria intertestuale sia come saggio che rimpiange di essere nato e vissuto “nel tempo de li dèi falsi e bugiardi” (Inf. I 72), Ovidio non si definisce in quanto personaggio a tutto tondo provvisto di una biografia (colpisce in particolare la scarsissima attenzione dell’Alighieri alla vicenda, e all’elegia, dell’esilio) ma entra nel testo come autore delle Metamorfosi, repertorio (si è parlato di “deposito”) di immagini e di miti. In ciò, Dante è un tipico esponente dell’Aetas Ovidiana (espressione coniata dal filologo Ludwig Traube per definire la letteratura del tardo Medioevo), quando le Metamorfosi fornivano amplissimi spunti per riletture ‘moralizzate’ sia con le loro singole storie sia per l’impianto complessivo, che partendo dal caos primordiale nel I libro approda alla stabilità dell’impero di Roma nel XV. I riferimenti alle Metamorfosi percorrono l’intero poema e divengono particolarmente pervasivi nel Paradiso: dopo, cioè, che Virgilio personaggio è scomparso per lasciar spazio a Beatrice come guida e, appunto, a Ovidio come intertesto classico principale.  

Dichiarazioni di poetica e divinità ispiratrici

La memoria ovidiana si deposita con particolare densità intorno ad alcuni temi o luoghi specifici, fra cui si segnalano le dichiarazioni di poetica e il motivo del viaggio, strettamente connessi fra loro a livello strutturale. Sia la seconda che la terza cantica si aprono infatti all’insegna di miti di matrice ovidiana: procedendo nel poema e nel pellegrinaggio, Dante si deve misurare con una materia via via più alta e ardua da esprimere in parole e per dare forma letteraria a questo crescendo ricorre a esempi mitologici. Il senso di sempre maggiore difficoltà e innalzamento stilistico è espresso sia nel proemio del Purgatorio (I 9: “e qui Caliopè alquanto surga”) sia specialmente in quello del Paradiso, dove Dante invoca non le Muse ma Apollo, menzionando l’amore del dio per Dafne (la prima storia d’amore narrata nelle Metamorfosi ovidiane) e precisando di aver bisogno ora di una ispirazione ‘doppia’ al fine di affrontare l’ultimo tratto del viaggio (I 13-18: “O buono Apollo, a l’ultimo lavoro / fammi del tuo valor sì fatto vaso, / come dimandi a dar l’amato alloro. / Infino a qui l’un giogo di Parnaso / assai mi fu; ma or con amendue / m’è uopo intrar ne l’aringo rimaso”). In entrambi i brani, l’invocazione si completa tramite un esempio di superbia artistica punita: le Piche nel Purgatorio, con riferimento alla loro gara di poesia con le Muse (Met. V 294ss.), il sileno Marsia nel Paradiso, con riferimento alla sua sfida ad Apollo nel suono del flauto (Met. VI 382ss.). Dante è ben consapevole che solo con l’aiuto di un’ispirazione che viene dalla Grazia può sperare di portare a termine il viaggio e il poema. Non a caso, all’inizio del secondo canto del Paradiso, affermerà di avere in suo aiuto tutte le principali divinità classiche dell’ispirazione e della poesia (vv. 8-9): “Minerva spira, e conducemi Apollo, / e nove Muse mi dimostran l’Orse”.  

Il ‘volo’ di Dante pellegrino e il riuso del mito

Nell’Inferno si concentrano alcuni ‘grandi viaggiatori’ del mito: Icaro, Fetonte, Ulisse. Icaro e Fetonte sono menzionati insieme per esprimere la paura provata da Dante in groppa al centauro Gerione, che volando lo trasporta a Malebolge (Inf. XVII 106-111). Nel passo si osserva da una parte l’attenta adesione alla proposta ovidiana (Ovidio stabilisce infatti una stretta connessione allusiva fra le narrazioni dei due miti), dall’altra la presenza di tratti originali rispetto all’interpretazione moralizzante più diffusa nel Medioevo: in particolare, la caduta di Fetonte era secondo l’Ovidemoralisé allegoria di quella di Lucifero (“Chi vola troppo alto s’inorgoglisce di beni di Dio e non propri… Quelli che cadono somigliano al loro maestro Lucifero e lo seguono fino agli Inferi “), mentre il Fetonte della Commedia non ha nulla di demoniaco ed è semplicemente, come in Ovidio, un uomo in preda al terrore. Il viaggio ‘folle’ dei personaggi antichi è caratterizzato da dismisura e hybris e destinato a sicura rovina, diversamente da quello del pellegrino cristiano. Il ‘volo’ di quest’ultimo, segnato dall’humilitas e dall’aiuto della Grazia, avrà perciò successo: nel Paradiso, Beatrice è colei “ch’a l’alto volo ti vestì le piume” (così l’avo Cacciaguida, XV 54), e Dante stesso definisce la donna “quella pia che guidò le penne / de le mie ali a così alto volo” (XXV 49-50).  

Metamorfosi dei corpi, metamorfosi dell’anima

Oltre che costituire un repertorio di miti, il poema epico di Ovidio fornisce uno specifico modello per rendere visibile il processo delle trasformazioni di varia natura subite dall’individuo nell’aldilà. Nell’Inferno vi sono in particolare due casi nei quali la persona umana perde le proprie caratteristiche fisiche per assumere forma animale o vegetale, mostrando anche in questo modo le conseguenze del peccato che allontana da Dio e dalla somiglianza con lui: i suicidi nel canto XIII (dove intertesto principale è naturalmente il Virgilio di Eneide III ma si riecheggiano anche metamorfosi di personaggi ovidiani in piante, ad es. le Eliadi tramutate in pioppi in Met. II), e i ladri nei canti XXIV e XXV (vedi sotto). Si possono aggiungere anche altri esempi, come la degradazione del corpo dei falsari, sfigurati dalla lebbra e dalla scabbia nei canti XXIX-XXX, da mettere in rapporto con la narrazione ovidiana della peste di Egina (Met. VII 523ss.) – da notare fra l’altro che Dante non conosceva la peste, che avrebbe fatto la sua ricomparsa in Occidente soltanto da lì a poco, con la grande epidemia del 1347. Dietro le riprese del motivo si evidenzia il distanziamento ideologico della metamorfosi cristiana da quella pagana: in Ovidio la metamorfosi è decretata da divinità capricciose, non fa parte di un disegno provvidenziale più ampio né è da intendersi senz’altro come punizione ma rappresenta una via di fuga (Dafne trasformata in alloro per sfuggire alla violenza di Apollo) o pone talvolta fine a un dolore senza sbocco (Niobe; Ceice e Alcione) o costituisce addirittura un premio (Filemone e Bauci trasformati in alberi); nell’ottica cristiana, invece, essa è sempre conseguenza di una condanna senza appello da parte della giustizia divina, rendendo visibile la vera essenza del dannato e del suo peccato. Nelle due cantiche successive non hanno, e non possono avere, luogo metamorfosi fisiche: in esse il mutamento dell’individuo non riguarda la disgregazione e degradazione del corpo ma la salvezza dell’anima. Non vi si parla perciò a rigore di metamorfosi ma di ‘trasumanar’: l’uomo esce cioè dai limiti angusti della propria natura terrena fino a raggiungere il massimo grado di perfezione e di vicinanza a Dio. Anche per illustrare questo processo mistico Dante ricorre a un mito narrato da Ovidio: quello di Glauco, il pescatore che grazie a un’erba miracolosa ottenne natura immortale e divina (Met. XIII 898 ss.). “Nel suo aspetto tal dentro mi fei, / qual si fé Glauco nel gustar de l'erba / che 'l fé consorto in mar de li altri dèi. // Trasumanar significar per verba / non si poria; però l'esemplo basti / a cui esperïenza grazia serba.” (Par. I 67-72). All’opposto di quanto accadeva nell’Inferno, questa trasformazione non è fisica ma interiore (“tal dentro mi fei”), e la natura umana non ne risulta ma perfezionata e completata.  

La settima bolgia: i canti dell’emulazione

Il punto della Commedia più sistematicamente legato alle Metamorfosi è la rappresentazione dei ladri nella settima bolgia (canti XXIV e XXV). Questi dannati cambiano forma continuamente, così da riprodurre non una semplice trasformazione ma il caos primordiale come viene descritto da Ovidio all’inizio del suo poema (cfr. Met. I 17-18: nulli sua forma manebat / obstabatque aliis aliud); soprattutto, i tre episodi narrati più in dettaglio sono caratterizzati, in un crescendo di estensione testuale (rispettivamente cinque, dieci, venti terzine), da una sempre maggiore complicazione nel cangiare delle forme, lanciando dunque alla tecnica poetica di Dante sfide sempre più ardue. Il poeta ricorre a miti e immagini ovidiane: per Vanni Fucci viene riutilizzato il mito della fenice che rinasce dalle proprie ceneri (cfr. Met. XV 392ss.), mentre nel secondo episodio (Cianfa Donati e Agnello dei Brunelleschi) quello di Ermafrodito e della ninfa Salmacide che si fondono in un unico corpo (cfr. Met. IV 356ss.). Ma il terzo (Buoso Donati, dove il serpente si muta in uomo e l’uomo in serpente) risulta privo di una precisa matrice classica, così che Dante sottolinea la novitas della propria rappresentazione poetica dichiarando orgogliosamente “Taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio” (Inf. XXV 97), in quanto non narrò mai la trasformazione reciproca di due nature, “sì ch’amendue le forme / a cambiar lor matera fosser pronte” (vv. 101s.). Nelle metamorfosi dei ladri è insomma evidente la volontà di aemulatio artistica, di vincere sull’intertesto latino dal punto di vista non solo ideologico (come accade nel corso di tutto il poema) ma anche della maestria letteraria, espresso tramite quello che Ernst Robert Curtius chiama modulo della Überbietung (superamento).  

Dante nuovo Orfeo

Un ‘grande assente’ nella Commedia è il personaggio di Orfeo: assenza apparentemente curiosa in quanto un poeta che scende nell’Ade, come narrano ampiamente sia Virgilio che Ovidio, si sarebbe prestato a riprese coerenti con la materia dantesca. Ma è la stessa vicenda di Dante personaggio a ricalcare, pur senza richiamarla apertamente, quella di Orfeo, in una rilettura cristiana del mito nella quale la catabasi non conduce al fallimento e costituisce la prima tappa di un pellegrinaggio religioso e di un’ascesa dell’anima verso Dio. Complessivamente, infatti, il superamento, di ordine sia artistico sia soprattutto ideologico, della Commedia rispetto alle Metamorfosi si esemplifica nelle ultime parole dei due poemi: vivam, con soggetto sottinteso ego, e “stelle”, con soggetto espresso “Amor”: è la vittoria della nuova letteratura cristiana nei confronti dei poemi classici, vittoria ottenuta dal punto di vista di una poesia che si basa non sul solo talento del suo autore ma sulla decisiva cooperazione della Grazia.   Crediti immagini Apertura: La bolgia dei ladri, illustrazione di Gustave Doré (Wikimedia Commons) Box: Jacob Jordaens, Cadmo e Minerva, XVII sec. (Wikimedia Commons)
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