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Tra rischi e opportunità

Il silenzio come figura retorica

Usare il silenzio come un artificio retorico: tramite la poesia Veglia di Ungaretti, Andrea Tarabbia riconosce l’importanza di questo stratagemma nella scrittura.

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L’opera che trovate a questo link: https://www.youtube.com/watch?v=JTEFKFiXSx4 si chiama 4’33’’: è un’opera musicale, lo è davvero, è stata composta nel 1952 dal grande compositore americano John Cage e può essere eseguita da qualunque strumento o ensemble musicale – così dice una nota sullo spartito. Sono 3 movimenti, nel senso che il primo dura per i primi 30’’, il secondo 2’23’’, il terzo 1’40’’. Sono 4’33’’ di completo, assoluto silenzio – anche se, diceva Cage, il silenzio non c’era mai del tutto: nei teatri, durante l’esecuzione, c’era sempre un colpo di tosse, un fruscio, insomma il rumore normale del mondo che, nelle intenzioni del compositore, era ed è parte integrante di 4’33’’. Ma su disco, per esempio, non si sente nulla, ed è una sensazione stranissima: là dove ci dovrebbero essere suoni non c’è niente, c’è lo zero assoluto.

Ora, direte voi, cosa c’entra tutto questo con le figure retoriche? C’entra, perché anche il silenzio è un artificio retorico. È il punto d’approdo più radicale di pratiche come la preterizione, l’ellissi, lo zeugma – insomma di tutte quelle figure che lavorano sul non detto, sulla sottrazione.

Pensate agli spazi bianchi, al niente, di certe poesie. Vi faccio un esempio, Veglia di Ungaretti:

Un’intera nottata
Buttato vicino
A un compagno
Massacrato
Con la bocca
Digrignata
Volta al plenilunio
Con la congestione
Delle sue mani
Penetrata
Nel mio silenzio
Ho scritto
Lettere piene d’amore

Non sono mai stato
Tanto
Attaccato alla vita.

Ora, si tratta di una poesia di immediata comprensione, con tutti quei participi passati messi lì a specchio, e lasciati soli nel verso come solo è chi scrive e chi muore («buttato»/ «massacrato», «digrignata»/«penetrata»), e senza dubbio quando ve la spiegano vi raccontano della forza di quei versi brevissimi. Un bravo professore vi dirà però anche che il momento chiave di Veglia è lo spazio bianco che c’è prima dei tre versi finali. Cioè quel momento di silenzio, di niente, che Ungaretti ha messo prima di quella chiusa paradossale e potentissima. Non vi fidate? Fate la prova, togliete lo spazio bianco:

Un’intera nottata
Buttato vicino
A un compagno
Massacrato
Con la bocca
Digrignata
Volta al plenilunio
Con la congestione
Delle sue mani
Penetrata
Nel mio silenzio
Ho scritto
Lettere piene d’amore.
Non sono mai stato
Tanto
Attaccato alla vita.

È ugualmente forte? No, dai. A leggerla di fila, senza quello stacco, si sente meno il paradosso degli ultimi versi, e verrebbe da dire che Ungaretti poteva tranquillamente chiudere dopo le «Lettere piene d’amore» (dopotutto, il concetto di vita è contenuto anche in quel verso). In questa forma “senza silenzio”, gli ultimi tre versi non sembrano più necessari.
Ma attenzione: è importante sapere anche quando è giusto tacere, o mettere uno spazio bianco. Proviamo a fare un altro esperimento, sempre su Veglia, dividendola in modo didascalico: i primi undici versi che parlano di morte e poi, dopo lo stacco, quelli su amore/vita. Eccola:

Un’intera nottata
Buttato vicino
A un compagno
Massacrato
Con la bocca
Digrignata
Volta al plenilunio
Con la congestione
Delle sue mani
Penetrata
Nel mio silenzio.

Ho scritto
Lettere piene d’amore
Non sono mai stato
Tanto
Attaccato alla vita.

È un po’ moscia, vero? Di nuovo dà la sensazione che gli ultimi tre versi siano un po’ ridondanti, ma soprattutto la divisione in due tronconi così monolitici, così monotematici, rende il tutto un po’ rigido, un po’ “spiegato”.
Ecco, il silenzio è un artificio retorico, qualcosa che dà forza alle parole che si usano prima e dopo di lui: è per questo che è importante riconoscere quando si può, o si deve, tacere.


(Crediti immagine: EliFrancis, Pixabay)

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