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Uguali e diversi

Seneca e l’utopia dell’uguaglianza

Michela Mariotti affronta il tema dell’uguaglianza nel mondo antico analizzando il concetto di schiavitù, in particolare nell’Epistola 47 di Seneca

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Servi e liberi, ugualmente soggetti al dominio della fortuna

Nell’epistola 47 Seneca loda Lucilio perché tratta i suoi servi con familiarità, e corregge chi obietta: «Ma sono schiavi!», con una potente climax in cui definisce i servi prima homines, poi contubernales («persone che vivono sotto lo stesso tetto»), quindi humili amici, infine conservi («compagni di schiavitù»), perché tutti gli uomini, servi e liberi, sono ugualmente soggetti al potere tirannico della fortuna, esperta nel beffardo gioco di rovesciare le sorti umane. Può accadere, infatti, che il servo ottenga la libertà e il padrone sia ridotto in schiavitù. Seneca cita l’esempio dei nobili romani militanti nell’esercito di Quintilio Varo a Teutoburgo, degradati a mansioni servili dopo la clamorosa disfatta del 9 a.C., e conclude stigmatizzando il disprezzo dei domini verso i servi con un efficace poliptoto (la ripetizione del verbo contemno in due voci diverse della flessione) che sottolinea il repentino, spiazzante operare della sorte: «Disprezza (Contemne) ora l’uomo che si trova in  quella condizione di inferiorità in cui tu stesso puoi cadere mentre lo disprezzi (dum contemnis)» (epist. 47,10).

Anche Platone, che pur legittimando la schiavitù ne riconosceva l’estraneità al diritto naturale, affermava che «non c’è re che non discenda da schiavi, e non c’è schiavo che non discenda da re»: ricordando questa massima nell’epistola 44,4, Seneca ribadisce che lo status di un individuo dipende esclusivamente dalla fortuna: «Il lungo alternarsi degli eventi ha mescolato tutte le condizioni sociali e la sorte le ha rivoltate sotto sopra (sursum deorsum fortuna versavit)».

Il paradosso del servo libero: la schiavitù è del corpo, ma non dell’anima

L’uomo libero, quindi, è servo della fortuna alla pari di chi è servo de iure. Ma nell’epistola 47 Seneca spinge più a fondo l’attacco alla superbia dei padroni arrivando al paradosso: poiché non esiste schiavitù peggiore dell’asservimento alle passioni, e in questo l’aristocrazia romana vanta indubbiamente un primato, può accadere che l’uomo veramente libero sia il servo, mentre il padrone è schiavo di molte passioni; schiavitù, questa, non assegnata dalla sorte, ma volontaria e quindi colpevole. ’Servus est.’ Sed fortasse liber animo. La vera libertà è quella spirituale: se l’uomo è liber animo, la schiavitù non può recargli alcun danno.

La schiavitù infatti non riguarda l’uomo nella sua interezza, ma solo il corpo: l’anima, pars eius melior, ne è esclusa. Seneca sviluppa questo argomento nel terzo libro del De beneficiis, quando confuta la tesi di Ecatone, secondo il quale «il servo non può essere benefattore del suo padrone» (ben. 3,18,1): «sono i corpi a essere soggetti e assegnati ai loro padroni, l’anima invece è autonoma, ed è a tal punto indipendente e libera che neppure in questo carcere in cui è racchiusa può esserle proibito di servirsi del suo slancio, di immaginare grandi cose e di spingersi fuori, nell’infinito in compagnia delle realtà celesti» (ben. 3,20,1; trad. M. Menghi). Il corpo è soggetto alla fortuna, ma l’anima è inalienabile e libera, come è libero ogni atto che da essa proviene.

Uguali perché a tutti è accessibile la virtù

L’uguaglianza tra servi e padroni si misura dunque non solo in base a un fattore esterno, la comune soggezione alla fortuna, ma anche in base a un elemento intrinseco alla natura umana, la capacità morale, riconosciuta a tutti gli esseri umani indipendentemente dalla condizione sociale. Tutti gli esseri umani, in quanto tali, senza distinzione di genere, censo o classe sociale, hanno la capacità di attingere il sommo bene, che è la virtù: «Chi nega che uno schiavo possa talvolta beneficare il suo padrone ignora il diritto umano (ius humanum)… A nessuno è preclusa la virtù: essa si apre a tutti, accoglie e invita tutti, i liberi, gli affrancati, gli schiavi, i re, gli esuli; non sceglie la casa né il censo, si accontenta dell’uomo puro e semplice (nudo homine contenta est)» (ben. 3,18,2; trad. M. Menghi). La controversa espressione ius humanum ha poco a che fare con i “diritti umani” come noi li concepiamo, ma indica un diritto di cui lo schiavo gode in quanto essere umano e che condivide con gli altri esseri umani: la capacità di compiere un beneficio (o altra azione virtuosa). Al netto delle differenze sociali, determinate da fattori storici e giuridici, resta l’«uomo nudo», l’uomo nella sua condizione naturale che è uguale per tutti. Il diritto naturale non contempla la schiavitù, che è prodotto della legge umana, del diritto positivo.

Tutti uguali per natura

Tutti gli esseri umani sono uguali per natura: lo riconoscono già i Sofisti, che per primi riflettono sull’opposizione tra natura (physis) e legge (nomos). Antifonte, ateniese del V secolo, sostiene l’uguaglianza di tutti gli esseri umani per natura sulla base delle comuni necessità: «tutti quanti respiriamo l’aria con la bocca e con il naso, e tutti quanti mangiamo con la bocca» (Aletheia, fr. 44B col.2 DK). È lo stesso argomento usato da Seneca quando invita Lucilio a pensare che «costui che tu chiami tuo servo, è nato dallo stesso seme, gode dello stesso cielo, respira, vive e muore proprio come te!» (epist. 47,10). Sono temi di divulgazione filosofica che affiorano perfino sulla bocca di un illetterato con pretese di cultura come Trimalchione, il liberto arricchito del Satyricon, quando annuncia l’intenzione di affrancare gli schiavi alla sua morte: «Anche i servi sono uomini, e hanno bevuto lo stesso latte come noi (et servi homines sunt, et aeque unum lactem biberunt), anche se un destino maligno (malus fatus) li ha colpiti» (Petron. 71,1).

L’uguaglianza per natura, secondo gli Stoici

Anche nel De beneficiis Seneca impiega questo argomento: «Abbiamo tutti gli stessi inizi e la stessa origine (Eadem omnibus principia eademque origo)», ma lo sviluppa in una formulazione più propriamente stoica: «l’unico genitore comune a tutti è l’universo (unus omnium parens mundus est); a questo si riconduce la prima origine di ciascuno…» (ben. 3,28,1). Per gli Stoici l’universo è un essere vivente dotato di logos, l’anima razionale che compenetra la materia dandole movimento e forma, e che si identifica con Dio. Dall’anima universale deriva l’anima dell’uomo, corporea particella di quel logos divino. L’impulso dell’anima (lo «slancio» che porta anche l’anima dello schiavo a «spingersi fuori, nell’infinito in compagnia delle realtà celesti», di cui parla Seneca, ben. 3,20,1) permette all’uomo di scoprire l’ordine che anima il mondo e passare dall’impulso di autoconservazione (comune a tutti gli animali) alla cohaerentia (homologìa), cioè alla volontà di conformarsi al logos universale di cui è parte, di conservarne l’ordine e l’armonia. Ecco il fine della vita morale, «vivere secondo natura». Questa possibilità è aperta a tutti gli uomini, schiavi o liberi, poveri o ricchi, clienti e patroni. Tutti sono uguali in base alla capacità di realizzare il fine della vita umana.

Non solo uguali: fratelli

L’etica stoica è intimamente connessa alla fisica. La conoscenza della natura conduce l’uomo, dotato di anima razionale, a fare proprie le leggi universali che ordinano la materia nel migliore dei mondi possibili: è l’oikèiosis (conciliatio), il movimento di «appropriazione», cioè accettazione e desiderio, di ciò che l’uomo riconosce conforme a sé. Nell’epistola 95 Seneca indica l’unitarietà dell’universo cui apparteniamo, come formula humani officii, sintesi di tutti i precetti morali: «Tutto ciò che vedi, che include in sé ogni cosa umana e divina, è un tutt’uno: siamo membra di un immenso organismo (membra sumus corporis magni(epist. 95,52; trad. M. Bellincioni). Scoprire l’origine comune del genere umano, l’appartenenza all’universo ordinato dal logos divino illumina il fine stesso della vita umana: «La natura ci ha creato fratelli (natura nos cognatos edidit), generandoci dagli stessi principi e per gli stessi fini (ex isdem et in eadem). Essa ci ha ispirato amore reciproco (amor mutuus) e ci ha fatto socievoli. Essa ha stabilito equità e giustizia…». L’amore reciproco, che lega una società di uomini che si riconoscono fratelli, realizza pienamente il fine della natura umana in armonia con il logos universale.

L’ideale di una società solidale

Un vincolo di solidarietà tra uguali, anzi un vincolo di amore fraterno deve legare tutti gli esseri umani indistintamente. Questo il fine dell’uomo che vive coerentemente con la natura.

In quest’ottica Seneca legge l’ideale di humanitas tramandato dal noto verso di Terenzio (Heaut. 77): Homo sum, humani nihil a me alienum puto, «Sono un uomo, non ritengo che mi possa essere estraneo niente che riguardi l’uomo», che cita in epist. 95,53 e suggella con l’immagine che assimila la società umana ad una volta di mattoni: «cadrebbe, se i mattoni non si sostenessero a vicenda ed è proprio questo che la tiene insieme» (trad. M. Bellincioni).

Così nel De beneficiis la capacità di beneficio è riconosciuta al servo (ma anche ad altre figure socialmente degradate: donne, figli, clienti) tutte le volte che l’azione virtuosa supera i confini del dovuto e trapassa in adfectus amici, diventa atto gratuito liberamente voluto da chi lo compie. Non solo, Seneca libera il beneficium dalle sue componenti materiali, riducendo la disparità tra benefattore e beneficato. «Il beneficio, concepito come atto di generosità spontanea di un uomo verso l’altro, suscita in chi lo riceve un sentimento di riconoscenza, che… rappresenta il primo e forse il più importante momento di «restituzione» del beneficio ricevuto» (M. Menghi, Seneca, Sui benefici, 2019, p. XI) Alla dinamica verticale che subordina il beneficato al benefattore sancendone la superiorità sociale, Seneca sostituisce la dinamica del circolo virtuoso, in cui la gioia (gaudium) del donare e la gratia nel ricevere, ridefiniscono il beneficio come pratica che si svolge inter animos alleggerendo l’obbligo della restituzione.

L’utopia dell’uguaglianza e il controllo delle tensioni sociali

Il sogno di una società fondata sull’amor mutuus, una pratica del beneficio che istituisca rapporti paritari sono le risposte del filosofo alle diseguaglianze profonde che caratterizzano la società romana.

Per noi moderni, dal principio dell’uguaglianza di tutti gli uomini deriva necessariamente il riconoscimento dei diritti inalienabili della persona e la condanna di ogni forma di asservimento. Seneca esorta Lucilio a essere clemente e anche affabile con il suo servo, a parlare con lui, chiedergli consiglio, pranzare con lui (epist. 47,13) Condanna l’arroganza della nobiltà degenerata che punisce con inaudita violenza colpe trascurabili, impone ai servi mansioni umilianti, ne abusa sessualmente; nei confronti dei servi, ammette, siamo superbissimi, crudelissimi, contumeliosissimi. (47,11). Ma l’istituto della schiavitù resta fuori discussione, così come la struttura sociale del principato con tutte le sue drammatiche diseguaglianze. Il messaggio del filosofo si rivolge alla coscienza individuale dei suoi lettori; come il beneficium, è cosa che riguarda la loro anima: non c’è alcuna istanza di cambiamento sociale. Il comportamento umanitario raccomandato a Lucilio si limita a dare per concessione qualcosa che all’uomo spetta di diritto. Cercare di dominare le tensioni, del resto, è da sempre un modo per esercitare il controllo.

Per ascoltare una lezione di M. Bettini su schiavitù antica, diritti umani e “decolonizzazione” dei classici, clicca qui: https://www.youtube.com/watch?v=6P1UKagf7G4

Crediti immagini: Le marché aux esclaves, Gustave Boulanger, 1886 (Wikimedia Commons)

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