Amnistia, amnesia… Dopo la sconfitta di Atene nella guerra del Peloponneso nel 404 a.C., i “Trenta” (tiranni imposti da Sparta per restaurare il regime oligarchico) cancellarono i diritti politici e condannarono a morte o all’esilio molti democratici. Come spesso accade, ben presto il gruppo fu lacerato da lotte interne e regolamenti di conti. Nell’inverno del 404, il democratico Trasibulo, a capo di un esercito di fuorusciti, attaccò il Pireo, prima tappa per la liberazione di Atene. Era forte il rischio di guerra civile; gli stessi spartani favorirono un compromesso e consentirono che si reinstallasse in città la democrazia. Fu decisa un’amnistia generale che riguardava l’intera cittadinanza ma, particolare importante, escludeva i Trenta e i loro seguaci più compromessi. (Costoro fecero poi una brutta fine: ottennero asilo nella vicina città di Eleusi, ma due anni dopo furono attaccati e massacrati). L’amnistia si basava sul giuramento formulato dai cittadini di “me mnesikakein”, cioè “non serbare rancore, non compiere rappresaglie”. In concreto si proibiva l’uso politico della memoria: ciascuno s’impegnava a non trascinare in tribunale chi, durante il governo tirannico, lo avesse danneggiato. (La questione fu presa molto seriamente: un tale che denunciò l’avversario fu… condannato a morte.) A quell’epoca la parola amnestia significava “oblio, dimenticanza”; più tardi assunse il valore di perdono giudiziario che è rimasto nel termine moderno. Cicerone chiamò lex oblivionis (legge dell’oblio) quell’antico giuramento. Il proposito di uscire da un conflitto civile “dimenticando” il passato è stato applicato in diverse occasioni. Ma come si può obbligare a dimenticare? La memoria, contro l’amnesia Un esempio, fra i tanti. In Spagna, il passaggio alla democrazia dopo la morte di Francisco Franco (1975) fu accompagnato da un compromesso detto “patto dell’oblio”: gli eredi del franchismo avrebbero accettato il regime democratico, gli eredi dei repubblicani avrebbero rinunciato a processare il passato. Su tale base si fondò l’amnistia generale del 1977. Il meccanismo ha funzionato a lungo, anche perché il franchismo era ormai consunto dopo quasi quarant’anni di regime e aveva mantenuto la Spagna in condizioni di arretratezza, dalla quale solo con uno sforzo comune si poteva uscire. D’altronde la guerra civile era sepolta nel silenzio ufficiale ormai da decenni, molti protagonisti e testimoni erano morti da tempo. Solo recentemente, dopo una legge del 2007 voluta dal socialista Zapatero, i simboli del regime sono stati espressamente vietati e si è ricominciato a indagare su crimini della guerra civile. Nel 2013 l’ONU ha chiesto alla Spagna di aderire alla Convenzione per l’imprescrittibilità dei crimini di guerra e contro l’umanità, modificando la legge di amnistia del 1977. Di fatto, le vicende della guerra civile spagnola (di tutte le parti in conflitto) hanno tuttora spazio solo nella memoria privata e nella ricerca storica.
Qualche forma di amnistia è quasi sempre necessaria per uscire da un conflitto civile (accadde anche in Italia dopo la Liberazione con la cosiddetta “amnistia Togliatti”) ma la necessità di rendere possibile la convivenza non può cancellare le memorie contrapposte dei fatti accaduti e vissuti. E soprattutto non deve andare a scapito dell’esercizio della giustizia. Memoria e conciliazione Dopo la fine del regime di apartheid in Sudafrica (1994) fu istituita la Truth and Reconciliation Commission (Commissione per la verità e la riconciliazione), un tribunale speciale che aveva l’incarico di raccogliere testimonianze di coloro che avevano subito la violazione dei diritti umani e di coloro che se ne erano resi colpevoli. Lo scopo finale, in linea con l’idea non-violenta di Nelson Mandela, era di dare la possibilità, a chi ammetteva la sua colpa, di ottenere il perdono delle parti lese, così che l’amnistia ai rei confessi potesse essere accettata da tutti. Questo passaggio avrebbe dovuto facilitare e consolidare la transizione alla democrazia e alla parità dei diritti. La Commissione concluse i suoi lavori nel 1998 e stabilì l’amnistia per circa 850 persone (a più di 5000 richiedenti, invece, questa fu negata). I giudizi su questa esperienza sono contrastanti, e oggi sono molti a pensare che si sia fatto troppo poco per risarcire le vittime e aiutarle nella piena integrazione: in sostanza che si sia data al processo una dimensione morale, anziché puntare a un’opera di giustizia.
Cancellare la memoria La damnatio memoriae era, nel mondo romano, una pena “accessoria” per i reati contro l’integrità dello stato e l’onore del popolo romano, reati puniti con la morte. La pena prevedeva che il praenomen del condannato non si trasmettesse all’interno della famiglia, che i suoi ritratti venissero distrutti e il nome fosse cancellato dalle iscrizioni. Anche alcuni imperatori, che il senato dichiarò nemici dello stato, subirono questa condanna. Fra essi Domiziano, ucciso da una congiura nel 96. Scrive lo storico Svetonio: “il Senato… fece trarre giù e abbattere al suolo i medaglioni e le immagini di lui, decretando da ultimo che dappertutto fossero rase le iscrizioni e fosse distrutta ogni memoria” (Vita di Domiziano, 23).
Alla categoria della damnatio memoriae viene spontaneo ricondurre gesti pubblici molto frequenti anche nella storia recente: il divieto per legge di far uso dei simboli di un regime dopo la sua caduta, la distruzione, rimozione o riuso di statue e monumenti, i cambiamenti nella toponomastica e nelle celebrazioni di anniversari, i tentativi di snazionalizzazione delle minoranze… Da Roma antica ai nostri tempi, però, resta evidente che la memoria (personale e collettiva) si costruisce attraverso dinamiche sulle quali, per fortuna, il potere non può esercitare un controllo totale. Un esempio. La memoria dei massacri nelle trincee della Grande Guerra fu bandita e negata dal regime fascista, sostituita dal culto pubblico dell’eroico valore; ma rimase attiva nel profondo e, secondo alcuni storici, influenzò l’atteggiamento di scarso entusiasmo della gran parte degli italiani per l’ingresso nella nuova guerra. Pluralità delle memorie Chi studia le fonti orali, la memorialistica, i diari, gli epistolari è costantemente a contatto con una realtà ineliminabile: la pluralità di memorie, individuali e collettive. La storia contemporanea ha come oggetto avvenimenti di cui molti testimoni o protagonisti, oppure loro diretti discendenti, sono in vita. Particolarmente problematica è la memoria della seconda guerra mondiale; questa ha coinvolto immensi territori e popoli di tutto il mondo, ha fatto emergere vittime e carnefici, ha avuto un carattere totale e ha visto intrecciarsi la guerra civile alla guerra fra stati. Tutte queste caratteristiche, scrive Claudio Pavone, “hanno reso più differenziata e conflittuale la memoria sia dei combattenti che dei civili, ma hanno anche fatto sedimentare la memoria comune di una catastrofe – da Auschwitz a Hiroshima – capace di travolgere l’intera umanità”. Le memorie dividono e restano divise. Non ha senso chiedere che le memorie dei colonizzati si riconcilino con quelle dei colonizzatori, o quelle dei democratici con quelle di chi ha sostenuto regimi totalitari. Ha senso invece che siano i popoli o i gruppi sociali a riconciliarsi e a trovare un terreno comune su cui confrontarsi, senza eludere la necessità di dare giustizia a chi ha subito torti e violenze. Riferimenti bibliografici J. Foot, Fratture d’Italia, Rizzoli, Milano 2009. T. Judt, L’età dell’oblio. Sulle rimozioni del Novecento, Laterza, Bari 2009. C. Pavone, Prima lezione di storia contemporanea, pp. 65-87, Laterza, Bari 2007. P. P. Portinaro, I conti con il passato, Feltrinelli, Milano 2012. Un’articolata recensione di questo volume si trova qui: https://centrotrame.wordpress.com/2012/02/11/i-conti-con-il-passato-un-libro-di-pier-paolo-portinaro/ Immagine di apertura: incontro da Nelson Mandela e il suo predecessore alla presidenza del Sudafrica, Frederik de Klerk (World Economic Forum via Wikimedia Commons – Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo 2.0 Generico)