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Dai digiunatori ai grandi banchetti. Il rapporto tra cibo e letteratura

La letteratura presenta esempi di due stili alimentari opposti e altrettanto dannosi: il digiuno e le folli abbuffate, come quelle di "Gargantua e Pantagruele" di Francois Rabelais. Invece nel XIX secolo quello dei digiunatori fu un fenomeno di costume descritto più volte da scrittori del calibro di Mark Twain e Franz Kafka
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I quaranta giorni del dottor Tanner Il dottor Henry Tanner, inglese trapiantato negli Stati Uniti, fu il primo: nel 1880, a New York, sotto la supervisione di un pool di medici digiunò per 40 giorni – un limite oltre il quale, lui lo sapeva bene, il corpo umano non può spingersi. Alla fine del digiuno aveva perso venti chili, guadagnato quasi 140.000 dollari ed era diventato così popolare che persino Mark Twain lo citò in un romanzo. Nella sua scia si misero ben presto altri individui, da questa e dall’altra parte dell’Oceano: nel suo Kafka e il digiunatore, particolarissimo libro che Raoul Precht ha dedicato al racconto kafkiano Un digiunatore e alla “nobile arte” del digiuno, si racconta per esempio che il tedesco Riccardo Sacco (il cui vero nome era Wilhelm Bode), nel 1905 digiunò a Vienna per ventuno giorni di fila davanti a un totale di 24.000 spettatori. È però italiano il più grande digiunatore di tutti i tempi: nato a Cesenatico nel 1850, Giovanni Succi digiunò a Milano, Parigi, Bologna, Vienna. Fece insomma una vera e propria tournée in giro per le maggiori città e fiere d’Europa. La sua fama era così alta che fu addirittura raffigurato mentre digiunava su una serie di cartoline stampate in occasione dell’Esposizione industriale di Genova, nel 1901.
Qui di seguito due contenuti per conoscere meglio il digiunatore Giovanni Succi: questo è un articolo del CICAP, questo del materiale dal sito del Comune di Scandicci 
La nobile arte del digiuno Ma come si fa a digiunare e a rendere tutto questo uno spettacolo? Tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, i circhi e i varietà mettevano in mostra, per il diletto del pubblico di ogni età, una serie di bizzarrie e stranezze che attiravano folle entusiaste: uomini volanti, albini, donne barbute, membri di tribù esotiche catturati nei loro Paesi e trapiantati nel centro dell’Europa e dell’America, nani, individui deformi o altissimi, sgorbi, gemelli siamesi. I freak show attiravano il pubblico borghese, che accorreva in massa a osservare questi esemplari umani ridendone e provando allo stesso tempo disgusto e incredulità: non era possibile che esistessero dei tipi umani del genere, eppure erano lì. Naturalmente, spesso si trattava di un’illusione, di un trucco, ma la cosa importante era che si considerava una forma tra le più alte dell’intrattenimento popolare la semplice messa in scena della deformità e dei limiti umani. Così, costantemente monitorati dai medici, i digiunatori trascorrevano le giornate seduti, senza poter mai uscire dalle gabbie di vetro sorvegliate giorno e notte dove erano esposti, e non dovevano fare altro che non mangiare. Digiunare era un mestiere, una forma di spettacolo. A poco a poco, nel Novecento, l’interesse per questo tipo di spettacolo privo di qualunque forma di spettacolarità andò scemando, ma nel nuovo secolo ci fu almeno un personaggio fortemente attratto dall’arte del digiuno: Franz Kafka.
Dal canale YouTube di DigitalePLAY un video dello scrittore Alessandro Piperno che parla di Franz Kafka
Kafka e il digiuno. Poi altri digiunatori nella letteratura Mangiava poco, Franz Kafka. Si può dire che ingurgitasse solo l’indispensabile per vivere. Nella Lettera al padre dedica alcune pagine all’esuberanza del genitore a tavola: gran mangiatore, il padre di Kafka porta il figlio a rifiutare – per respingere simbolicamente la figura paterna – alcuni tipi di cibo, fino a eliminare del tutto la carne. Così, probabilmente, è anche per via delle ossessioni famigliari che lo scrittore è attratto dalle figure dei digiunatori –tanto da dedicar loro uno dei suoi ultimi racconti, Un digiunatore, in cui lo scrittore si identifica con il protagonista: digiunare equivale a esprimere il proprio talento («Ho sempre voluto che ammiraste il mio digiuno» confida il digiunatore al guardiano della sua gabbia, ed è una confessione d’artista in piena regola). Equivale a fare ciò per cui si è nati. Parlare dell’arte del digiuno è allora per Kafka un modo di mettersi a nudo e dare un senso alla propria vita: dietro la figura del digiunatore c’è Kafka stesso, digiunare è uguale a scrivere. Nell’ultima pagina, prima della chiusa beffarda, il digiunatore confida al guardiano che non ha mai potuto fare a meno di digiunare: «E perché mai non potresti farne a meno?» gli chiede l’altro. «Perché […] non sono mai riuscito a trovare il cibo che mi piacesse». È la migliore risposta che si possa dare sull’arte dello scrivere. Ma la letteratura è piena di asceti, folli digiunatori, gente che litiga con il cibo e con sé stessa. Nei Fratelli Karamazov (1880) di Dostoevskij digiunano i monaci: soprattutto Padre Ferapont, un anacoreta che vive in monastero e mangia solo l’indispensabile; egli si fa magro e vecchio e debole per umiltà e fede. Rinuncia a ogni bene terreno, si direbbe che voglia prostrarsi in eterno, farsi piccolo e scomparire – anche fisicamente – per render gloria alla grandezza di Dio. Digiuna suo malgrado il protagonista di uno dei romanzi più fortunati del premio Nobel norvegese Knut Hamsun, Fame (1890): in parte autobiografico, il libro racconta i deliri e le ossessioni di un giovane scrittore di talento che vive nell’indigenza. Mentre spasima perché il mondo si accorga del suo talento è tormentato, molto concretamente, dal più feroce degli avversari: la fame. È attraverso di essa che il narratore – che non ha nome – osserva il mondo, restituendone un ritratto furibondo e visionario. È la fame che lo rende un odiatore della vita urbana e degli altri e che gli fa immaginare mondi che confluiranno nella sua scrittura. Era il 1890: nessuno aveva ancora letto un romanzo tanto violento.
Letteratura e cibo: clicca qui per vedere un video tratto dal sito Rai Letteratura
…e il loro contrario: i mangiatori folli Eppure la letteratura moderna comincia con delle pantagrueliche abbuffate: nel Gargantua e Pantagruele (pubblicato a partire dal 1532), opera capitale di Rabelais che racconta le vite di giganti che ospitano interi villaggi nella dentatura, disquisiscono su ogni cosa in modo coltissimo e sarcastico e visitano luoghi fantastici pieni di creature mostruose, l’assunzione di cibo è uno dei motori della narrazione. Alla nascita, Gargantua deve essere allattato ogni volta con il latte di 17.913 mucche, e per pagine e pagine Rabelais si diverte a descrivere gli impressionanti banchetti (da cui, appunto, l’aggettivo pantagruelico) che i giganti allestiscono ingurgitando migliaia di litri di vino, mangiando anche per molti giorni di seguito e condendo i loro pasti con un’allegria triviale e colta al tempo stesso.
Clicca qui per vedere uno slideshow delle illustrazioni di Gargantua e Pantagruele del grande illustratore Gustave Doré
«L'autore dovrebbe considerare se stesso non come un gentiluomo che offra un pranzo in forma privata o d'elemosina, bensì come il padrone d'una taverna aperta a chiunque paghi. Nel primo caso, colui che invita offre naturalmente il cibo che vuole, e quand'anche questo sia mediocre e magari sgradevole ai loro gusti, gli ospiti non debbono protestare; ché l'educazione impone loro d'approvare e lodare qualunque cosa venga loro posta dinanzi. Proprio il contrario accade al padrone d'una taverna. Quelli che pagano vogliono dar soddisfazione al proprio palato, anche quando questo sia raffinato e capriccioso, e se non è tutto di loro gusto, si sentono in diritto di criticare, di protestare, d'imprecar magari contro il pranzo, senz'alcun ritegno». È così che Henry Fielding, scrittore inglese tra i padri del romanzo moderno, apriva, nel 1949, il suo romanzo più celebre, il Tom Jones. La metafora della letteratura come banchetto allestito per i lettori è diventata molto famosa e citata, perché attraverso quest’immagine, per la prima volta, Fielding metteva su pagina il cosiddetto “patto narrativo”, ovvero il tacito accordo che, a ogni nuovo libro, l’autore e il lettore implicitamente stipulano.
Clicca qui per leggere un articolo sul patto narrativo dal blog "Collettanea"
Immagine di apertura: illustrazione dell'infanzia di Pantagruele di Gustave Doré  (via Wikimedia Commons) Immagine del box: illustrazione di Pantagruele di Gustave Doré (pubblico dominio, via Wikimedia Commons
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Caravaggio.emmaus.750pix
Pantagruel's_childhood

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