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Naturali, politici, esistenziali: perché non si può fare a meno dei nemici

Condanna o risorsa? Il concetto di nemico va di pari passo con la storia dell'umanità. Da Aristotele a Carl Schmitt, da Hobbes a Hannah Arendt: un'analisi del motivo per cui, a quanto pare, non possiamo proprio rinunciare ad avere dei nemici
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Perché esiste il nemico? Pare che la maggior parte dei filosofi abbia sempre preferito parlare dell'amicizia piuttosto che dell'inimicizia. Aristotele e Cicerone, per esempio, hanno dedicato alcune delle loro migliori pagine proprio all'amicizia. Ma già la filosofia cristiana ha iniziato a riflettere con una certa insistenza sulla condizione di endemica inimicizia che contraddistingue la specie umana.  Per Agostino di Ippona una volta che Adamo ha compiuto il peccato originale, gli uomini, macchiati dalla colpa, sono entrati in conflitto tra loro. E amare i propri nemici, che sono anch'essi il nostro prossimo, è apparso un atto tanto difficile quanto meritorio dato che “la natura induce a odiare il dissimile”, afferma in pieno medioevo Tommaso d'Aquino (nel Commento alle Sentenze di Pier Lombardo, III, 30, 1, 1). La guerra appare come una conseguenza inevitabile, quando gli uomini sono lasciati a se stessi e privi di autorità, secondo il filosofo inglese Thomas Hobbes: prima che esistesse lo Stato, costretti a vivere una vita bestiale e breve, gli esseri umani erano spinti dalla diffidenza reciproca a competere gli uni con gli altri con gli altri, scatenando una “guerra di tutti contro tutti”.
Frontespizio del "Leviatano" di Hobbes (immagine: Wikipedia)
Qualche generazione dopo, gli autori dell'Illuminismo, guardavano all'uomo con più ottimismo: secondo Voltaire, nell'animo umano albergavano sia l'istinto di conservazione si una certa naturale benevolenza. Ma alla domanda “perché esiste il nemico?” queste posizioni non sono più in grado di dare una risposta adeguata nel corso dell'Ottocento, quando sulla scena della storia si affacciano nuovi nemici, come i nemici della classe proletaria, i grassi capitalisti, e i nemici per natura, le razze antagoniste. E tanto meno bastano nel corso del Novecento, quando le guerre assumono dimensioni mondiali e provocato milioni di morti. Ma quello che emerge in tutte le riflessioni è che il nemico non è solo un “oggetto” della politica, ma si radica in profondità nella natura umana.   È utile avere un nemico? Per capire questa inevitabile presenza del nemico, proviamo a chiederci non quale sia la causa dell'esistenza di un nemico ma quale sia il suo scopo o il suo senso.  Ovviamente questa domanda non è del tutto nuova. Molti secoli fa, Aristotele non avrebbe avuto problemi a rispondere che il nemico è di grande utilità a chi governa. Adombrare la presenza di un nemico alle porte è uno stratagemma ingegnoso ed efficace per compattare il proprio popolo e distrarlo dai problemi interni. Aristotele attribuiva questo comportamento agli astuti tiranni che cercavano di restare in sella senza farsi disarcionare da una rivolta di popolo: “i tiranni si danno spesso alla guerra, perché i cittadini restino impegnati e abbiamo bisogno di un capo” (Politica, V, 1313b28-29). Con queste parole rapide, quasi incidentali, sembra che Aristotele ricordi una verità nota a tutti: il nemico alle volte è un'utile invenzione – utile, beninteso, a chi governa. La sconcertante suggestione dell'utilità del nemico si dilata a dismisura in un pensatore del Novecento, Carl Schmitt, secondo il quale la contrapposizione amico-nemico è la base della dimensione politica e il compito dello Stato è individuare i nemici, interni o esterni, che minacciano l'ordine e la sicurezza. Senza nemici e senza la guerra non esisterebbe neppure la dimensione politica. Ma cosa fare se il nemico non c'è? In alcuni casi, se il nemico non è esterno, lo si trova all'interno. E quando non c'è, lo si inventa. In buona sostanza, è quello che ha scoperto Hannah Arendt studiando gli Stati totalitari (la Germani nazista e l'Urss staliniana): la polizia segreta va a caccia del “nemico oggettivo”. Che cos'è il nemico oggettivo? Si tratta di una categoria di persone che appaiono antitetiche alla logica del regime, anche se nel concreto non stanno facendo nulla per ostacolarlo o abbatterlo. E dato che il regime totalitario è sempre in costante metamorfosi, ha una natura dinamica e ha una necessità vitale di ostacoli e avversari per imporre una situazione di eccezionalità, anche il nemico oggettivo cambia costantemente aspetto: e così in Unione sovietica vengono perseguitati dapprima i discendenti delle vecchie classi dominanti, poi i kulaki e dopo di loro tocca ai russi di origine polacca ecc. In realtà per i vertici del regime è piuttosto facile individuare un possibile nemico oggettivo a cui dare la caccia. Anche perché, sintetizza la Arendt, “a causa della loro capacità di pensare gli uomini sono sospetti per definizione”, scrive nelle Origini del totalitarismo (1951). Ma perché allora scegliere una categoria e non un'altra?  Perché il nemico oggettivo deve essere plausibile, in modo che la propaganda possa farne un uso conveniente. D'altro canto, il nemico accantonato oggi, potrà tornare utile dopo qualche tempo. Nemici di questo genere non sono strumentali, ma sono una necessità per un certo tipo di stato o di governo: senza di essi, uno Stato totalitario o un governo dittatoriale faticherebbero a giustificare provvedimenti straordinari, riduzione delle libertà individuali, epurazioni di avversari politici. Il nemico appartiene alla patologia o alla fisiologia dei rapporti sociali? Sorge allora spontanea la domanda se il nemico non sia caratteristico di situazioni patologiche, come la guerra o le società totalitarie. No, avrebbe risposto Michel Foucault, a meno di non considerare l'intera società come un'immensa patologia. Il pensatore francese, tra gli anni Sessanta e Ottanta, ha dedicato grandi energie a ricostruire la genesi della microfisica del potere nella società moderna e contemporanea e ha notato  le metamorfosi della figura del criminale come “nemico sociale”, che devia dai meccanismi di controllo e di disciplina che la società industriale elabora. La società si protegge quindi da queste “cellule impazzite”, che mettono in forse la salute del corpo sociale (ed è fin troppo semplice simpatizzare per questi individui così insofferenti al conformismo). Foucault sottolinea però che le resistenze al potere diffuso nella società sono “l'altro termine nelle relazioni di potere”: perché vi siano relazioni di potere, devono esistere anche le resistenze al potere. Giunti a questo punto, il nemico appare una presenza inevitabile, ma anche una grande risorsa. Il nemico serve a definire noi stessi in un gioco di polarità opposte. Al nemico si attribuiscono tratti estetici e caratteriali antitetici ai propri. Dai barbari agli ebrei, dagli eretici ai “porci capitalisti”, quando un gruppo sociale o una comunità individua il proprio nemico, ne costruisce l'identità, attribuendogli aspetto fisico, odori, comportamenti, abbigliamento, lingua, credenza e religione fino a delineare uno stereotipo. Costruendo il nemico, si elabora anche l'immagine di se stessi, ovviamente per contrasto, come ben sanno gli esperti di comunicazione di guerra, che sottopongono agli spettatori immagini che ritraggono i nemici come esseri bestiali e privi di umanità.
Questo sito è un ampio repertorio di immagini di propaganda di guerra. Al suo interno sia trovano fotografie, disegni, manifesti di diverso genere; alcuni inneggiano positivamente alla propria patria, alti invece denigrano il nemico, come questa.
Siamo condannati ad avere un nemico? Ma siamo dunque condannati ad avere dei nemici? Qualche filosofo avrebbe risposto di sì: l'altro, in quanto tale, è un nemico, sembra dire l'esistenzialista Jean Paul Sarte, perché gli uomini proiettano sugli altri una rete di significati e di valori che portano a un inevitabile scontro. In poche parole, la vita è una guerra perenne. A questa sconsolante risposta è forse bene opporre l'opinione di Irenäus Eibl-Eibesfeldt, il padre dell'etologia umana, abituato a considerare l'uomo come un animale che “ha corso” troppo velocemente rispetto alla propria natura: orientato dall'evoluzione precedente a vivere in piccoli gruppi, l'uomo non ha ancora sviluppato una capacità innata di convivere armoniosamente con gli altri all'interno di grandi comunità. Ma attenzione, sottolinea Eibl-Eibesfeldt: amicizia e inimicizia non sono condizioni inevitabili, ma possibilità relazionali radicate nel nostro essere, sulle quali agisce la forza della cultura.
Per capire di più l'etologia umana puoi leggere questa intervista a  Eibl-Eibesfeldt.
Immagine in apertura: Juliusz Kossak, Battaglia di Chocim nel 1621 (via Wikimedia Commons Immagine in Homepage: Utagawa Kuniyoshi, Difesa dall'attacco dei nemici (via Wikipaintings)
Defending_the_Polish_banner_at_Chocim,_by_Juliusz_Kossak,_1892
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