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Tra desiderio e necessità. Il ratto delle Sabine

Tra storia e leggenda, il ratto delle Sabine è un momento fondante della storia di Roma. Tra necessità demografiche e desideri di natura sessuale, Romolo decide di ordire un inganno che consenta ai romani di rapire le donne dei popoli attigui. La guerra che ne scaturirà finirà per volere delle donne stesse, ormai legate ai loro rapitori
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Antefatti

Roma, 21 agosto 749 a.C. Nella valle tra i colli Palatino e Aventino i Romani stanno lavorando alacremente all’allestimento di uno spazio destinato ai festeggiamenti per celebrare la scoperta di un altare misterioso, da poco rinvenuto all’interno di una vicina caverna e recante ancora i segni di antichi sacrifici. Gli uomini, ossia la quasi totalità degli abitanti di Roma, costruiscono gradinate fatte di zolle di terra ricoperte con fronde, dalle quali sarà possibile assistere a canti, danze e gare di atleti. Un podio di legno è destinato a ospitare Romolo, il fondatore della città, insieme ai sacerdoti incaricati delle celebrazioni in onore di Conso, dio della fertilità e dispensatore di consigli, cui è stato deciso di dedicare l’altare sotterraneo. Le popolazioni delle città vicine sono state invitate e fin dalla mattina l’area sulla quale sarà in seguito costruito l’ippodromo (il Circo Massimo) inizia a riempirsi di una grande moltitudine di famiglie appartenenti alle limitrofe comunità dei Ceninensi, degli Antemnati e dei Crustumini. Dalla città di Cures giungono anche i Sabini, un antico e fiero popolo stanziato tra l’Appennino marchigiano e la valle dell’alto Tevere. Avvolte nelle loro tuniche bianco candido, le vergini sabine prendono posto sugli spalti insieme ai genitori, abbigliati con tuniche grigie. Il vino, servito in abbondanza, accompagna lo svolgimento della festa; i giochi, le musiche e le danze suscitano applausi e schiamazzi. La folla apprezza lo spettacolo, ma, con lo scorrere delle ore, un osservatore attento potrebbe cogliere senza fatica il montare della tensione che circola nell’aria. Verso la fine del pomeriggio gli occhi dei Romani si rivolgono infatti con crescente insistenza a Romolo, riconoscibile tra i notabili per il mantello color porpora. Sono pronti a rispondere al segnale convenuto,con il quale verrà finalmente svelatala vera finalità della festa, nascosta dietro l’apparente convivialità. È quasi l’imbrunire quando Romolo si alza dallo scranno su cui è seduto, slaccia il mantello, lo ripiega e poi lo indossa nuovamente. Dopo quel gesto lo scenario cambia all’improvviso: la musica si interrompe, gli atleti abbandonano frettolosamente il campo, i volti dei Romani, prima allegri e sorridenti, assumono l’espressione intensa e spietata degli uccelli predatori. Tra le grida e lo stupore generale cade il sipario sulla festa campestre mentre sulle gradinate, armati di spade e coltelli, i sudditi di Romolo si lanciano in una spietata caccia alla donna.  

Le radici del ratto

L’episodio, sospeso tra mito e realtà e passato alla storia come “Il ratto delle sabine”, è giunto fino a noi grazie alla ricostruzione di tre storici dell’antichità: Tito Livio, Plutarco e Dionigi di Alicarnasso. I loro racconti divergono su alcuni particolari, ma sono concordi sulle linee di fondo. A partire dalle motivazioni che furono alla radice dell’evento. La città fondata da Romolo sul colle Palatino è sostanzialmente una città di uomini. I suoi giovani abitanti sono pastori sbandati, esuli dei villaggi vicini, malfattori messi al bando dal loro stesso popolo, schiavi sfuggiti al controllo dei loro padroni. Poche, anzi pochissime, le donne e di dubbia reputazione. È con questa massa di fuoriusciti, scapestrati e avventurieri avvezzi a ogni crimine che il giovane re ha gettato le fondamenta della Città Eterna. Il diritto di asilo concesso entro le mura ai transfughi e ai latitanti accorsi dai quattro angoli del Lazio favorisce un costante aumento della popolazione, ma Romolo è consapevole che, in assenza di donne capaci di procreare eredi, per la sua gente non vi può essere futuro. Le ambascerie inviate nelle città vicine per stringere alleanze e contrarre accordi matrimoniali hanno fatto tristemente ritorno senza alcun risultato. La risposta ricevuta è stata sempre la stessa: la reputazione dei Romani è troppo malfamata, nessun padre concederebbe loro in sposa la propria figlia. Particolarmente sdegnosi si sono mostrati i Sabini, la cui organizzazione sociale attribuisce alla donna una considerazione e un rispetto del tutto incompatibili con la grossolanità dei costumi che vige a Roma. Tremila fanti e trecento cavalieri. A tale cifra ammonta l’esercito nel quale confluisce la popolazione dell’intera città. Tremila fanti e trecento cavalieri destinati a perire non sul campo di battaglia ma per lento soffocamento, condannati senza appello a spegnersi nello spazio di una generazione. Impotente di fronte a un destino che appare ineluttabile, Romolo avverte tutta la gravità dell’ora. La soluzione giunge improvvisa e dall’alto. È il dio Conso in persona a sussurrare alle orecchie del re il consiglio che garantirà la fertilità della stirpe romana nei secoli a venire. Ciò che non si è riuscito a ottenere con le buone maniere, sarà afferrato con la forza. La necessità dettata dalla lotta per la sopravvivenza rivestirà di un manto assolutorio anche le azioni più riprovevoli, come la violazione delle sacre leggi dell’ospitalità.

Carta del Lazio durante la Monarchia a Roma (immagine di ColdEel & Ahenobarbus su Wikipedia, licenza CC-BY-SA)

La guerra

Necessità, dunque, ma anche desiderio. Le donne che dalle gradinate applaudono alle esibizioni sportive e musicali suscitano tra i Romani una bramosia che l’astinenza sessuale rende ancora più acuta. Tra le tante figure femminili, sono le donne sabine a distinguersi per grazia e bellezza ed è soprattutto a loro che sono rivolti gli sguardi dei padroni di casa. Nell’esaltarne la purezza, le vesti candide che adornano le vergini sabine rendono inoltre più agevole il compimento di quella selezione che costituisce un elemento fondamentale nel piano predisposto da Romolo. Nessuna donna maritata dovrà essere toccata, mentre alle fanciulle rapite verranno usate senza risparmio considerazione e rispetto, al fine di addolcire la loro entrata nella comunità di Roma e spingerle a consegnare spontaneamente il cuore a coloro cui sono ora costrette a cedere il corpo. Il piano di Romolo ha funzionato alla perfezione. La sorpresa è stata completa, il numero delle vergini catturate è elevato, mentre i padri, sopraffatti dall’irruenza dei Romani, vengono lasciati fuggire insieme a ciò che resta delle loro famiglie. Solo un particolare impedisce di decretare il totale successo dell’operazione. Nella confusione generale è stata per errore rapita anche una donna sabina che risulta già sposata. Il suo nome è Ersilia. Avvertito dell’accaduto, il primo re di Roma si assumerà direttamente la responsabilità dello sbaglio prendendola in moglie. Il futuro della stirpe pare quindi assicurato, ma adesso i Romani sono circondati da nemici. Bisogna prepararsi ad affrontare il ritorno in armi di quei popoli per i quali l’oltraggio subito non può essere lavato se non col sangue..I primi ad attaccare sono i Ceniniensi guidati dal re Acrone, la cui impazienza si rivelerà fatale. Deciso a chiudere rapidamente la partita, Acrone affronta da solo Romolo in duello e viene da questi ucciso. Privati del loro sovrano, i Ceninensi sbandano e sono piegati rapidamente dall’offensiva nemica. Uguale sorte tocca agli Antemniati, che avevano iniziato a razziare il territorio intorno a Roma, e ai Crustumini. Dopo averne espugnato le città, Romolo invierà coloni Romani nelle campagne circostanti, mentre parte della popolazione sarà spinta a trasferirsi a Roma. Il confronto più temuto è tuttavia quello che si va preparando con i Sabini. La tradizione li vuole discendenti dagli spartani; il loro esercito è forte e ben guidato; il re di Cures, Tito Tazio, sa ben coniugare astuzia e determinazione. A differenza degli altri, i Sabini non si fanno guidare dal furore e preparano la loro mossa con calma. Dopo avere corrotto con false promesse Tarpea, la vestale figlia del comandate della rocca del Campidoglio, si impadroniscono di quell’altura strategica. Per i Romani è un colpo gravissimo tanto sul piano strategico che su quello morale: il tradimento di Tarpea sarà ricordato nei secoli, come scolpito sulla pietra della scarpata del Campidoglio che porterà il suo nome e destinata a diventare il patibolo per i colpevoli di reati contro lo Stato. Lo scontro decisivo si consuma nella spianata del Foro, resa un pantano dallo straripamento del fiume che la attraversa. Un lotta nel fango in cui i Romani paiono avere la peggio. Lo stesso Romolo rimane colpito, forse da una pietra, forse da un fendente. Ciononostante, i difensori resistono con la forza della disperazione, tentando addirittura di contrattaccare. È in questo momento che le donne si impossessano della scena.  

La pace

Guidate da Ersilia, le donne sabine irrompono sul campo di battaglia e, incuranti dei proiettili, si frappongono tra i due schieramenti. Sono nello stesso tempo figlie e mogli, molte hanno già in grembo il frutto del ratto. In esse trova drammaticamente sintesi il contrasto tra i due popoli,quello dal quale sono state strappate con la forza e il popolo in cui ora vivono, cullate dalle attenzioni e dalla passione che i Romani elargiscono senza parsimonia. Come colti da una primitiva “sindrome di Stoccolma” gli ostaggi si sono innamorati dei rapitori e insopportabile risulta loro l’alternativa che si prospetta tra il rimanere vedove e il diventare orfane. I pianti e le grida delle donne trafiggono i cuori dei contendenti, rendendo inconsistente la ragione stessa della lotta. La pace diventa allora l’unica strada percorribile. Quello che si consuma tra gli abitanti di Roma e quelli di Cures è un matrimonio alla pari. Romolo e Tito Tazio regneranno insieme sulla nuova entità statuale che si va costituendo e i due immediati successori di Romolo proverranno dalla gente sabina. Roma assorbirà Cures ma, secondo gli antichi, il ricordo di quest’ultima sopravvivrà nel termine “Quiriti” con il quale i Romani da ora inizieranno a chiamare se stessi e nel toponimo del colle, il Quirinale, destinato ad accogliere l’immigrazione della gente sabina entro le mura dell’Urbe.
Il ratto delle Sabine come raccontato da Tito Livio: clicca qui per accedere al testo (dalle risorse online Zanichelli) Il Ratto delle sabine in un film del 1910: clicca qui per vederlo Per un’interpretazione erudita dell’evento clicca qui (da artericerca.it)
Crediti immagini: Apertura: Pietro da Cortona, "Il ratto delle Sabine", olio su tela, 1629, Roma, Musei Capitolini (Wikimedia Commons) Box: fotografia di Dimitris Kamaras della statua "Il ratto delle Sabine" del Giambologna (flickr)
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