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Un nuovo mito per l’Antropocene

Il mito del progresso era fondato sull'idea che l'essere umano potesse continuamente migliorare la propria condizione anche attraverso una tecnologia capace di dominare la Natura. Tuttavia, Claudio Fiocchi mostra come i cambiamenti climatici impongano un progresso diverso, nel quale Homo sapiens diventi custode e non dominatore del pianeta.
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Che il clima influenzi la vita dell’essere umano e la civiltà è un fatto che la filosofia e le scienze umane considerano assodato da secoli. Ma che possa essere l’essere umano a influenzare il clima, questa è una novità inaspettata, che induce a ripensare il futuro dell’umanità e del pianeta.  

Una riflessione molto antica

Fin dall’epoca di Aristotele, la cultura ha colto un nesso tra il clima e il comportamento degli esseri umani. Per il filosofo greco un clima caldo induce comportamenti di scarso coraggio e la propensione ad accettare il dispotismo, un clima freddo dà origine a un’insopprimibile tensione alla libertà e solo un clima temperato (non a caso quello della Grecia) dà vita a popoli che sanno reprimere i loro istinti e vivere in istituzioni libere. La tesi di Aristotele ha viaggiato nel corso dei secoli insieme al testo dove è esposta, la Politica, ed è stata ripresa e approfondita da autori successivi, come Nicole Oresme (autore del XIV secolo che ha scritto un commento alla Politica) e Charles-Louis de Montesquieu, il filosofo che ha scritto Lo spirito delle leggi dove formula una teoria dei climi sul rapporto tra ambiente e caratteri di un popolo.  

Il concetto di Antropocene

Oggi la questione si è rovesciata e il tema non è ciò che il clima provoca nell’essere umano, ma ciò che l’essere umano provoca al clima. Evolutosi da un fitto gruppo di ominidi, nel corso dei millenni l’homo sapiens ha sviluppato una capacità di agire sull’ambiente circostante incomparabilmente superiore a quello di qualsiasi altra specie. Proprio per indicare l’epoca in cui si manifestano questo potere dell’essere umano e i suoi effetti, il premio Nobel Paul Crutzen suggerisce di usare l’espressione “Antropocene”, un termine imparentato con tutti gli altri che indicano una fase della storia della Terra (e in particolare le epoche geologiche, come l’olocene e il pleistocene), e che mette in rilievo l’impronta lasciata dagli esseri umani (anthropos in greco) sul pianeta.
Qui trovi una breve biografia di Paul Crutzen
Quali sono gli indicatori del ruolo dell’essere umano nella trasformazione della Terra? Sono indicati dal Programma Internazionale Geosfera Biosfera e dallo Stockholm Resilience Centre: tra i più noti e semplici da capire vi sono l’anomalia della temperatura alla superficie, la diminuzione delle foreste tropicali, l’aumento dell’azoto nell’atmosfera. Gli studi indicano che anche se l’essere umano ha iniziato secoli addietro a modificare il pianeta, la Grande accelerazione si deve al ventesimo secolo, quando l’industrializzazione e il modello economico capitalistico si sono imposte non solo in Europa, ma in molte altre parti della terra.
Per maggiori informazioni sul Stockholm Resilience Centre è utile consultare il sito Stockholm Resilience Centre - Stockholm Resilience Centre
La consapevolezza che le attività dell’essere umano stanno modificano il clima e l’ambiente si è imposta lentamente e solo nel corso degli ultimi anni, ma i campanelli d’allarme, basati sui dati scientifici, sono iniziati a suonare negli anni Cinquanta e hanno portato oggi alla formulazione del progetto dell’Agenda 2030, una serie di riforme correlate tra di loro che hanno lo scopo di modificare in profondità molti aspetti della vita economica e sociale, per rendere le società più giuste e il nostro stile di vita più sostenibile.
Per una visione sintetica dei temi dell’Agenda 2030 e dei suoi obiettivi, è utile consultare un sito istituzionale come Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile - Agenzia per la coesione territoriale (agenziacoesione.gov.it)
 

Il mito del progresso

L’Antropocene è dunque un’epoca maledetta, di sfruttamento indiscriminato e inquinamento, destinata a distruggere il pianeta e la specie umana? Se alcuni scienziati sono convinti che sarà la stessa tecnologia a redimere se stessa, promuovendo una forma di sviluppo ecocompatibile, l’antropologia sceglie una prospettiva diversa, che innanzitutto è in grado di suggerire una chiave di lettura del nostro comportamento autodistruttivo.  Secondo gli antropologi, infatti, ogni civiltà possiede dei miti collettivi che sono alla base dei suoi valori. Il mito più radicato nella società capitalista – sottolinea l’antropologo Marco Aime (Aime, Favole, Remotti, Il mondo che avrete. Virus, antropocene, rivoluzione, Utet, Torino 2020) – è quello dello sviluppo, inteso come un costante aumento della produzione di beni e servizi, da cui scaturirebbero ricchezza, benessere, salute. Lo sviluppo, insomma, sarebbe la chiave del progresso e del miglioramento della qualità della vita. Si tratta di un mito che affonda le radici nell’epoca moderna, segnata dallo sviluppo scientifico, dalla nascita dei traffici oceanici, dalle prime forme di industrializzazione. Ora però sembra che questo mito stia sopravvivendo ai propri esiti contraddittori, visto che è proprio lo sviluppo a provocare i disastri ecologici e a mettere a repentaglio ogni forma di sviluppo. Che fare, dunque? È impossibile cambiare di colpo un intero sistema produttivo e “fornire a tutti i cittadini del mondo un appezzamento di terra da coltivare, ai piedi del loro condominio”, sintetizzano ironicamente i ricercatori François Gemenne et Aleksandar Rankovic nel loro Atlante dell’antropocene (Mimesis, Sesto San Giovanni 2021). La strada sostenuta da altri, come Emilio Padoa-Schioppa (docente di ecologia del paesaggio e autore di Antropocene. Una nuova epoca per la Terra, una sfida per l’umanità, Il Mulino, Bologna 2021), promuove un combinato disposto di politiche coordinate a livello mondiale e scelte individuali, basate sulla mitigazione degli effetti delle nostre azioni, la compensazione dei nostri comportamenti antiecologici con altri più ecologici, e l’adattamento al cambiamento climatico e ambientale.  

La necessità di un nuovo mito

Per molti antropologi, la via d’uscita non sta in una palingenesi tecnologica, ossia in una tecnologia in grado di risanare le alterazioni climatiche e i suoi effetti lasciando inalterato il mito dello sviluppo, ma in una rivoluzione culturale, ossia in una rifondazione dei nostri miti che all’ideale dell’essere umano padrone della natura sostituisca quello di un rapporto paritetico con l’ambiente. In poche parole, se l’essere umano è un animale culturale, è la sua cultura che deve cambiare, rendendo accettabile il ridimensionamento del nostro stile di vita. La recente pandemia, che ha imposto forme di sospensione come i lockdown e ci ha mostrato la nostra debolezza di fronte all’inaspettato, appare alle occhi di molti antropologi come il possibile catalizzatore di una nuova epoca, fondata su un rapporto responsabile con l’ambiente: un Antropocene “meno antropocentrico”, dove quelle scimmie che sono diventati dèi (secondo la sferzante espressione dello storico Yuval Harari) possono scegliere per sé non il ruolo di spietati sfruttatori, ma quello di tecnologici e amorevoli custodi del pianeta.
Qui trovi la pagina del sito di Yuval Harari dedicata al libro Sapiens. Da scimmie a Dei.
  Crediti immagini: Apertura: Raggi del sole sulla Terra (Pixabay) Box: Yuval Noah Harari (Wikimedia Commons)
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