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Come te lo spiego

Verre e Cicerone, due volti del collezionismo romano

L'accusa di concussione sostenuta da Cicerone contro Verre comprende il saccheggio dei tesori artistici di cui la Sicilia era ricchissima. L'insana passione per l'arte rimproverata a Verre rivela, al di là della strategia retorica dell'accusa, un progetto ambizioso che va oltre il desiderio di adornare le proprie ville di opere d'arte, irrinunciabile status symbol della classe dirigente romana: quello di Verre è un collezionismo in grande scala, che si rivolge al mercato di lusso della capitale.
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«Affermo che in tutta la Sicilia, in una provincia così ricca e così antica, in tante città e in tante famiglie così facoltose, non c'è vaso d'argento, corinzio o di Delo, gemma o perla, manufatto d'oro o d'avorio, non c'è statua bronzea, marmorea, eburnea, non c'è dipinto su tavola o su stoffa, che l'imputato non abbia accuratamente cercato, esaminato e, se gli piaceva, portato via», Cicerone Verrinae 4,1.

Verre, i furti di un insaziabile collezionista

Tra i vari capi d'imputazione addebitati a Verre nel processo per concussione del 70 a.C., Cicerone accusa l'ex governatore della Sicilia di aver spogliato la provincia di tutti i suoi tesori artistici. Verre aveva commesso ogni sorta di abuso e malversazione durante il suo governo dell'isola (73-71 a.C.), e i Siciliani avevano incaricato il giovane oratore, che aveva conquistato la loro fiducia durante la questura a Lilibeo (75 a.C.), di sostenerne l'accusa. Cicerone raccolse un'imponente massa di prove e testimonianze, che non fece nemmeno in tempo ad esporre per intero perché l'imputato dopo la prima orazione (l'Actio prima in Verrem), schiacciato dal peso delle accuse, si rese irreperibile e fu condannato in contumacia. Il resto del materiale accusatorio confluì dunque, rielaborato e riordinato per la pubblicazione, nell'Actio secunda, in cinque libri: di questi un intero libro, il quarto, è dedicato ai furti d'arte perpetrati da Verre.

Predatore rapace ma incompetente?

Nel ritratto di Cicerone Verre appare dominato da una passione maniacale per l'arte, una malattia pericolosa (persino i suoi amici parlano di morbus e insania, Verr. 4,1), che lo porta a commettere ogni genere di rapina per accaparrarsi ciò che desidera. Predatore furioso, si dà arie di fine intenditore ma nasconde un'abissale incompetenza; del resto, sottolinea l'oratore, non conosce nemmeno una parola di greco. Eppure tra i primi furti menzionati da Cicerone scopriamo che Verre riesce ad aggiudicarsi, acquistando a prezzo stracciato da un privato (di qui il fondato sospetto di abuso d'ufficio), un Cupido in marmo di Prassitele, un Ercole bronzeo di Mirone, e due canefore, fanciulle offerenti recanti sulla testa un canestro con doni votivi, opera di Policleto. Prassitele, Mirone, Policleto: i grandi nomi della statuaria greca tra V e IV secolo, autori di capolavori come l'Afrodite di Cnido (Prassitele), il Discobolo (Mirone), il Doriforo e il Diadumeno (Policleto). Panfilo di Marsala testimonia che Verre gli ha portato via di prepotenza un'idria cesellata da Boeto, lo stesso autore del Bambino che strozza l'oca, capolavoro dell'arte ellenistica.
Puoi farti un'idea delle opere trafugate da Verre dai capolavori dei medesimi scultori, noti da copie romane in marmo Afrodite cnidia – Wikipedia Discobolo – Wikipedia Diadumeno - Wikipedia

Verre sguinzaglia i Cibyritici canes

Cicerone confessa di essersi stupito del buon gusto dimostrato da Verre. Poi capisce: Verre tiene al suo servizio due fratelli di Cìbira (città della Frigia), Tlepòlemo e Gerone, uno cesellatore, l'altro pittore, che lo hanno seguito dall'Asia, quando vi si è recato al seguito di Cornelio Dolabella (nell'80). Ecco perché: ut iste in furando manibus suis, oculis illorum uteretur, «perché costui potesse rubare usando le proprie mani ma i loro occhi», (Verr. 4,33). Verre vuol passare da esperto d'arte, ma in realtà non ne capisce niente; quindi si serve di consulenti. I due fratelli cibiriti sono come cani da caccia (senz'altro detti Cibyritici canes in 4,47): fiutano e seguono le tracce finché non scovano la preda per il padrone (4,31).

La profanazione del sacro

Nel tracciare il profilo dell'imputato, Cicerone insiste però più sull'empietà del furto che sul valore artistico della refurtiva. Le statue di Prassitele, Mirone e Policleto erano conservate nella cappella privata del nobile mamertino Heius: là ricevettero l'omaggio di tutti i magistrati romani venuti a Messina, ma nessuno prima di Verre osò toccarle poiché si trattava di statue votive. Verre si appropria con l'inganno del candeliere tempestato di gemme, che i figli di Antioco intendevano offrire al tempio di Giove Capitolino (Verr. 4,61 ss.). Fa trafugare le statue di Cerere dal tempio della dea a Catania, interdetto agli uomini (4,99), e dal tempio di Enna, sede di un culto antichissimo, visitato persino dai decemviri su indicazione dei Libri sibillini dopo l'assassinio di Tiberio Gracco (4,108-109). A Siracusa spoglia il tempio di Minerva di tutti i suoi dipinti e dei celebri battenti con fregi d'oro e d'avorio; porta via la statua di Apollo guaritore dal tempio di Esculapio (4,127), quella di Aristeo dal tempio di Libero, dal tempio di Giove la statua di Giove Imperatore, e una testa di Pan dal tempio di Libera (4,128). A buon diritto Cicerone può definirlo sacrorum omnium et religionum hostis praedoque, «nemico e predatore di tutto ciò che è sacro e oggetto di culto religioso» (4,75).

Indifferente alla pietas per lo stato

L'empietà di Verre si estende dalla profanazione del sacro all'irrisione dei valori civili dello stato. Le sue mani rapaci si avventano sulle statue che Scipione Africano aveva restituito a numerose città della Sicilia dopo la conquista di Cartagine, dove erano finite come bottino di guerra. Le sue mani spogliano Siracusa delle statue che nemmeno il conquistatore della città, M. Claudio Marcello, aveva voluto rimuovere, mentre quelle che da trionfatore egli recò a Roma sono visibili a tutti i cittadini nel tempio dell'Onore e della Virtù, e in altri spazi pubblici: Nihil in aedibus, nihil in hortis posuit, nihil in suburbano; putavit, si urbis ornamenta domum suam non contulisset, domum suam ornamento urbi futuram, «Niente collocò in casa sua, niente nei suoi giardini, niente nella villa fuori porta; pensò che se non avesse portato a casa sua opere destinate ad essere ornamento della città, proprio casa sua sarebbe stata di ornamento alla città» (4,121). Le mani rapaci di Verre non risparmiano nemmeno le armi cesellate in stile corinzio che Scipione Emiliano consacrò al tempio della Grande Madre ad Engio, come se Verre soltanto fosse capace di apprezzare la fine qualità artistica di quegli oggetti, e non il coltissimo, raffinatissimo Scipione. Ma proprio perché ne comprendeva la straordinaria bellezza, l'Emiliano existimabat non ad hominum luxuriem, sed ad ornatum fanorum atque oppidorum esse facta, ut posteris nostris monumenta religiosa esse videantur, «pensava che fossero stati creati non per il lusso degli uomini, ma per adornare i santuari e le città, affinché i nostri posteri li ritenessero monumenti degni di devozione sacra» (4,98).  

La difesa del mos maiorum, una strategia oratoria

Pietas, consacrazione del cittadino al bene della civitas, prevalere del ruolo pubblico su qualsiasi aspirazione individuale, condanna del lusso privato: in questi passi delle Verrinae è all'opera lo strumentario tipico del moralismo tardorepubblicano, la lode dei valori che hanno reso grande Roma. Anche il pregiudizio contro l'arte appartiene alla difesa del sistema etico dell'antica repubblica, che esclude in genere ogni attività intellettuale per il cittadino-soldato. Più volte Cicerone dissimula le proprie conoscenze in materia: finge di aver imparato i nomi degli artisti per la prima volta istruendo la causa contro Verre (4,4), liquida la passione per l'arte e il collezionismo come un trastullo privo di valore (nescio quid nugatorium, 4,33). Ma è evidente che si tratta di una strategia retorica: l'oratore assume il punto di vista dei giudici allo scopo di persuaderli. Non a caso, di questo scrupolo etico non resta traccia nelle lettere scritte da Cicerone ad Attico negli anni 68-65 a.C., quando l'amico si trovava ad Atene: Cicerone lo incarica dell'acquisto di opere d'arte per adornare le sue ville di Tuscolo e di Formia, in particolare i giardini che Cicerone aveva organizzato in aree dagli evocativi nomi greci (l'«Accademia», il «Ginnasio»).  

La diffusione del collezionismo d'arte a Roma

La condanna del collezionismo d'arte – come tutta la retorica contro il lusso – ai tempi di Cicerone era assolutamente anacronistica. Nell'età delle conquiste l'afflusso di beni sul mercato di Roma aveva cambiato irreversibilmente gli stili di vita, a dispetto delle molte ma inefficaci leggi suntuarie (per la limitazione delle spese) varate dal governo della repubblica. Tra i bottini di guerra, nei ripetuti trionfi che celebravano le vittorie, sfilarono davanti agli occhi meravigliati del popolo romano le statue, il vasellame, le argenterie sottratte ai vinti. Dal trionfo di Marcello su Siracusa (211 a.C.) a quello, grandioso, di L. Emilio Paolo su Perseo, l'ultimo erede di Alessandro Magno (167 a.C.), che richiese per la sola sfilata delle opere d'arte un'intera giornata e duecentocinquanta carri da trasporto (Plutarco, Vita di Emilio Paolo 32), i Romani impararono a conoscere i capolavori dell'arte greca, mutarono le abitudini e i gusti. Sorsero botteghe specializzate dapprima nella riproduzione in serie degli originali greci, poi nell'elaborazione di opere autonome ispirate ai modelli greci: una produzione che, oltre a diffondere la conoscenza della statuaria ellenica, incrementò la disponibilità di beni artistici per i molti che non potevano accedere direttamente al mercato greco. L'amicizia con Attico, da questo punto di vista, rendeva Cicerone un privilegiato.  

Cicerone e Verre, una passione comune per il collezionismo

Al di là dell'adesione (formale) alla retorica contro il lusso, anche Cicerone è un collezionista d'arte. Dalle Lettere ad Attico si ricava il profilo di un appassionato dal gusto un po' generico, interessato al soggetto dell'opera (che doveva intonarsi al “tema” del luogo di destinazione) più che alla sua qualità artistica. Condizionato evidentemente anche dai limiti delle proprie finanze, Cicerone si accontenta di acquistare i prodotti tipici delle contemporanee botteghe dell'Attica. Di ben altra portata, al di là dei reati indubbiamente commessi per procacciarsi gli oggetti d'arte, il collezionismo di Verre. Prima di tutto, da una ricognizione obiettiva della refurtiva descritta da Cicerone, l'ex governatore appare molto meno sprovveduto e inesperto di quel che il suo accusatore vuol far credere. La raccolta d'arte messa insieme da Verre non sembra affatto incoerente ed eterogenea. Come lo stesso Cicerone riconosce, Verre «ricerca, esamina e, se soddisfa le sue aspettative, acquisisce» il nuovo pezzo (4,1): opera cioè come un vero collezionista di ogni tempo.  

Verre, semplice collezionista o mercante d'arte?

Gli interessi di Verre spaziano dalla statuaria al vasellame cesellato, dall'argenteria da tavola ai dipinti, ai tessuti pregiati. Trattandosi di un'attività su larga scala, Verre si avvale della collaborazione di procacciatori e consulenti: i Cibyritici canes hanno in realtà questa funzione. Nel gestire la sua passione per l'arte, l'ex governatore rivela una mente imprenditoriale: a Siracusa ha impiantato un'officina per la realizzazione di vasi preziosi, in cui i migliori artisti del cesello lavorano alle sue dirette dipendenze (4,54). Ed ecco che anche quella che sembrava una bizzarra follia, la mania di strappare gli emblemata (le statuette e i rilievi lavorati a parte e poi applicati all'argenteria per impreziosirla) dal vasellame dei Siciliani, rivela ora un suo preciso scopo: i cesellatori al servizio di Verre sono infatti impegnati ad assemblare gli emblemata finora tesaurizzati su vasi aurei di nuova produzione. Ai Mamertini, poi, affida la costruzione e l'armamento di una grande nave oneraria destinata alla spedizione in Italia degli oggetti d'arte trafugati o prodotti (4,23). Certo, un tale impegno organizzativo più che sintomo di morbus et insania (4,1), si direbbe frutto di un progetto mercantile ben strutturato. Forse Verre non intendeva soltanto arricchire la propria casa o quella degli amici di pregiate opere d'arte. Forse aveva messo in piedi un commercio destinato al mercato del lusso romano. Circondarsi di oggetti d'arte, nella Roma del I a.C. (e non solo), è più di una moda o di una semplice passione. È un fenomeno di identificazione sociale: adornare la propria casa con oggetti d'arte, simbolo di lusso e di splendore, contribuisce a costruire l'immagine che ogni romano ricco e potente intende dare di sé alla collettività.  
Sull'influsso dell'arte greca nella Roma dell'età delle conquiste vedi

"L'età della conquista. Il fascino dell'arte greca III-I sec. a.C." - Rai Arte

  (Crediti immagini: Wikimedia Commons, Wikimedia Commons)  
Diadoumenos-Atenas
Discobolus_in_National_Roman_Museum_Palazzo_Massimo_alle_Terme

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