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Il passato ci parla

Clima, cambiamento, armonia: lo sguardo degli antichi sull’ambiente

Gli antichi Greci non ci hanno tramandato un concetto preciso per definire il rapporto tra essere umano e ambiente. Eppure, in diversi racconti, troviamo umani puniti dalla natura e dalle sue divinità per aver utilizzato le risorse in modo indiscriminato: Roberta Ioli analizza l'Agamennone eschileo, l'Inno a Demetra di Callimaco, Le opere e i giorni di Esiodo.

"C’era un pioppo, albero grande che toccava il cielo,

presso il quale venivano a scherzare le ninfe a mezzogiorno.

Il primo colpo cadde su questo, e un grido doloroso mandava agli altri."

(Callimaco, Inno a Demetra, vv. 37-39)

    Il termine ecologia, introdotto per la prima volta dal biologo tedesco Ernst Haeckel nel 1866, è un conio dal greco che unisce il nome oikos, “casa”, “abitazione”, e logos, “discorso”, “ragionamento”: indica cioè la scienza che, letteralmente, studia quella grande casa che è il mondo. Se è inappropriato applicare i termini di una moderna riflessione ecologica agli antichi, si può però opportunamente parlare di una ecologia sociale come attenzione che intreccia l’interesse per l’ambiente, l’economia e gli insediamenti umani. I Greci non disponevano di un concetto preciso per descrivere il rapporto tra essere umano e ambiente, né di una specifica nozione di ambiente. Essi personificavano fiumi e monti, assegnavano potere sacro e capacità performativa ad animali e piante, e amavano raccontare le trasformazioni degli esseri umani negli uni e nelle altre. La natura era popolata di dèi: i sacri boschi non andavano abbattuti, la legna non doveva essere tagliata, né il bestiame fatto pascolare nel temenos dei santuari. Insensibile al grido di dolore degli alberi, il giovane Erisittone dell’Inno a Demetra di Callimaco verrà punito con una fame inestinguibile proprio per aver calato la sua scure sul bosco sacro alla dea. Fin dall’epos arcaico la terra e le sue risorse sono oggetto di una cura e di un’attenzione particolari: nel rapporto con la natura devono cioè rispecchiarsi l’armonia delle relazioni sociali e la giusta distribuzione dei beni naturali, come testimonia Esiodo nel suo poema Le opere e i giorni (vv. 225-235). Il tradimento dei sacri vincoli della Dikē si tradurrà infatti in una catastrofica trasformazione della terra, a sua volta causa di fame, carestie e successive migrazioni; viceversa, “mai la carestia o la sventura si accompagna con gli uomini dalla retta giustizia” (Op. 230-231). Il mancato rispetto nei confronti della natura e lo sfruttamento indiscriminato delle sue risorse sono segno di empietà e comportano un pericoloso sovvertimento dei vincoli sociali. Nell’Agamennone eschileo (vv. 945-962), il sovrano acheo ha “vergogna” (aidōs, v. 948) e timore di contaminare con il proprio incedere i tappeti di preziosa porpora stesi dalla sua sposa e prefigurazione del destino infausto che lo attende. Alla ritrosia del sovrano risponde l’arroganza di Clitennestra che, oltraggiosamente, considera il mare una ricchezza inesauribile, al pari degli organismi che da esso traggono nutrimento e da cui si estrae la porpora (come il murex). La condanna rivolta al lusso e alla pretesa di attingere in modo smisurato alle risorse naturali rivela il profondo rispetto dei Greci per la terra e la sacralità dei suoi beni. D’altra parte, se per gli antichi non esisteva ancora il concetto di ambiente, esisteva però quello di physis, che abbraccia sia la natura e le sue creature, sia la complessità dei fenomeni percepibili e le loro trasformazioni. Saranno i filosofi (a partire dai pensatori di Mileto) e, in seguito, i medici ippocratici a indagare le cause fisiche dei fenomeni naturali e atmosferici e l’origine delle malattie, sottraendole all’arbitrio del divino. Sarà infine Aristotele a conferire alla physis lo statuto di autonomo oggetto di ricerca, dotato di una propria sistematicità, di limiti e proprietà classificabili in termini razionali. Fra i trattati ippocratici va ricordato Arie acque e luoghi per la sua indagine accurata della relazione esistente tra salute e ambiente fisico: l’autore riconosce infatti che malattie ed epidemie sono spesso legate alla particolare esposizione climatica delle città, ai cambiamenti stagionali e ai movimenti degli astri. Inoltre, le condizioni più favorevoli all’uomo sono definite in termini di metriotēs o giusto mezzo: l’equilibrio ambientale che si traduce in un clima temperato, così come l’assenza di repentini mutamenti meteorologici, assicurano livelli di vita ottimali. Al contrario, i territori soggetti a frequenti “cambiamenti” (metabolai) erano considerati meno accoglienti, pur avendo il vantaggio di stimolare l’intelligenza dei loro abitanti, resi più attivi a causa della necessità di un continuo adattamento. Metriotēs e metabolē, moderazione e cambiamento, descrivono in maniera dialettica e complessa la relazione dei Greci con l’ambiente circostante, confermando non solo il valore attribuito alla natura del territorio, ma anche l’importanza di una vigile attenzione verso l’armonia del paesaggio. Esistono inoltre sorprendenti analogie con la modernità in alcune concezioni del mondo antico relativamente al clima: la scienza greca, per esempio, riconosce l’esistenza sulla sfera terrestre di cinque zone molto simili alle nostre fasce climatiche. Il termine clima, voce dotta del latino tardo, deriva dal sostantivo greco klima (“inclinazione”) e dal verbo klinein (“piegare”, “piegarsi”, “inclinare”), utilizzati soprattutto in età ellenistica per indicare l’inclinazione della terra dall’equatore ai poli. A partire dall’accezione più generica di “regione”, klima verrà via via impiegato per segnalare la zona posta a una certa latitudine e, dunque, caratterizzata da determinate condizioni climatico-ambientali. Secondo la testimonianza di Posidonio, Parmenide di Elea fu il primo filosofo, nel V secolo a.C., a dividere il mondo in cinque zone, individuando un’area centrale più ampia delle altre chiamata “fascia bruciata” (28A44a DK), confinante, a nord e a sud, con due zone temperate molto più ristrette e, infine, con due zone ghiacciate in prossimità dei poli. Questa divisione sarà adottata anche successivamente, come testimonia Strabone nella sua Geografia (II 5, 3): l’equatore che separa i due emisferi è per i geografi d’età ellenistica l’Oceano, cioè un ampio spazio liquido che non scorre intorno alla Terra, come nelle dottrine più antiche, ma cinge la sfera terrestre nella sua parte centrale. Nello straordinario Scudo di Achille descritto nell’Iliade (XVIII vv. 478-608) ritroviamo, seppur nel contesto di una ekphrasis poetica e non scientifica, l’illustrazione di un mondo composto da cinque zone diverse. Il capolavoro di Efesto è frutto di un’accurata pratica artigianale: in esso compaiono “la terra, il cielo e il mare, / l’infaticabile sole e la luna piena, / e tutti quanti i segni che incoronano il cielo” (vv. 483-485). Sulla sua superficie convivono città, guerre, campagne; i suoni della folla, i versi degli animali, la voce del fiume animano i cicli stagionali di cui si riproducono colori e movimenti, in un ricco gioco sinestetico. Efesto disegnò sullo scudo cinque fasce, alternando paesaggi urbani e rurali: una città in pace, ma attraversata da contese giudiziarie; una città in guerra, illuminata dallo scintillio delle armi e dominata dal clamore della lotta; un campo pronto per essere arato e animato da buoi e contadini, dietro il cui lavoro la terra cambiava il proprio colore. Vi erano poi un terreno brulicante di mietitori, una vigna carica di grappoli, una mandria minacciata da leoni, e pastori che tentavano di difendere le vacche. Infine, si poteva ammirare una splendida danza di giovani accompagnati da due acrobati e da una folla esultante. A circondare tutto, nell’ultimo cerchio, Efesto scolpì la “grande possanza del fiume Oceano, / lungo l’ultimo giro del solido scudo” (vv. 606-607). L’arte dei poemi omerici ci offre qui un esempio parlante di come i Greci, fin dall’età arcaica, intendessero la nozione di ambiente: una serie di microcosmi disposti in centri concentrici in cui gli elementi naturali si armonizzano perfettamente con il mondo degli uomini, mentre Oceano, il fiume circolare che non conosce inizio né fine, tutto racchiude con la sua immensa forza e con il suo scorrere incessante.   Crediti immagini Apertura: Angelo Monticelli, Interpretazione dello scudo di Achille, 1820 (Wikimedia Commons) Box: Antonio Tempesta, Insatiabili fame Erisichtonem torquet Fames, 1606 (Wikimedia Commons)  

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