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Incontrare Dante dove meno te l’aspetti…

In questo primo scorcio di XXI secolo, Dante resta il poeta d’Europa e della “contemporaneità”. Dopo i rifacimenti novecenteschi di Pasolini e Sanguineti, l’eco dantesca aleggia fin dalle prime pagine nel libro-reportage di Hisham Matar, Il ritorno, che indaga la storia recente della Libia.

«La contemplazione dell’orrido o del sordido o del disgustoso da parte di un artista è l’aspetto necessario e negativo di quell’impulso che porta alla ricerca della bellezza.» (T.S.Eliot)[1]

  1.  Il romanzo di Hisham Matar, Il ritorno. Padri, figli e la terra fra di loro,[2] indaga la storia recente della Libia, dal colpo di stato nel 1969 alla fine della dittatura di Mu'ammar Gheddafi nel 2011, sorprendendo fin dalle prime pagine per l’eco dantesca più o meno manifesta che vi aleggia. L’autore-narratore-protagonista vive a Londra e non rientra nel suo paese d’origine da oltre trent’anni, da quando cioè ne fuoriuscì bambino, con i genitori dissidenti e il fratello poco più grande di lui. Finalmente vi ritorna in visita privata nel marzo del 2012, insieme con la moglie e la madre, quando, in seguito alla primavera araba e alla rivoluzione dell’anno prima, già si sono spezzate le catene delle prigioni per migliaia di oppositori politici. Ma non per il padre, Jaballa Matar, seppellito chissà quando e chissà dove sotto il silenzio reticente degli apparati di stato, probabilmente vittima del massacro nel famigerato carcere a Abu Salim di Tripoli, nel giugno 1996. Il viaggio di ritorno, annunciato nel titolo, comincia con la proemiale attesa del decollo per Bengasi nell’area dei voli internazionali dell’aeroporto del Cairo, città dove ancora vive la madre dal lontano anno 1980, quando la famiglia vi si era stabilita «in un esilio indefinito» (p.9). L’autore indugia sui dettagli di contesto per contenere l’angoscia che gli provoca quella partenza, muto per la paura inconfessabile di ritrovarsi di nuovo smarrito nella “selva oscura” del trauma di un lutto tanto doloroso quanto oltraggioso, inevitabilmente risvegliato. Il lettore è avvisato: lo spazio e il tempo circostanziati della partenza (quell’aeroporto, quel mattino) non sono separabili dai quarantadue anni di regime militare e dai muri che ne hanno occultato i crimini. Alla narrazione in soggettiva l’autore si affida per scandagliare con onestà la portata non solo privata ma anche storica della sua vicenda famigliare, oscillando fra autobiografia e racconto sociale, inchiesta politica e indagine introspettiva. Ripercorre la vita del padre, prima e dopo il sequestro nella sua casa del Cairo alla fine degli anni ‘80, con l’intento di squarciare la scandalosa contraffazione di fatti, ambienti, esistenze, perpetrata in nome del riscatto anti-occidentale e anti-americano della nazione panaraba professato dalla mitologia di regime. Nella tensione morale e formale verso il disvelamento di una verità particolare destinata a restare oscura, l’autore, arabo di origine, europeo d’adozione, poliglotta e studioso di letterature comparate, nel qui e ora del nostro mondo attuale, lascia intendere di aver individuato la sua guida in quel Dante che seppe vedere e dire «tutto ciò che l’uomo è capace di sperimentare tra la disperazione della depravazione e la visione della beatitudine»[3]. Ma il viaggio nella terra dei padri di Hisham Matar non è ricerca di un riscatto metafisico e nemmeno fuga regressiva nell’innocenza dell’infanzia; piuttosto è la risposta necessitante all’urgenza della verità nel qui e ora della storia. 2. Nella sua permanenza in Libia, dunque, l’autore Hisham Matar non si risparmia gli incontri perturbanti con chi ha condiviso l’inferno carcerario con il padre Jaballa e ora vuole raccontarne. Nello shock misto a vergogna che gli producono quelle testimonianze, tutte ugualmente insistenti sull’irriconoscibilità dei prigionieri seviziati, il suo pensiero corre al fiorentino Ciacco, deturpato dalla «piova etterna, maladetta, fredda e greve», che Dante non riconobbe tra i golosi nel terzo girone infernale: «…L’angoscia che tu hai / forse ti tira fuor de la mia mente / sí che non par ch’i ti vedessi mai. / Ma dimmi chi tu se’ che in sí dolente loco / se’ messo e hai sí fatta pena, / che s’altra è maggio, nulla è sí spiacente»[4].  Come ad Auschwitz Primo Levi frugava nella memoria a brandelli per recuperare l’«orazion picciola» dell’Ulisse infernale e consegnare al compagno francese parole italiane che portassero scolpita l’essenza dell’uomo («fatti non foste a viver come bruti / ma per seguire virtute e canoscenza»), a fronte di sopravvissuti ad altre infernali reclusioni, è ancora la Commedia a fornire all’autore che ne scrive un’immagine ipostatizzata dell’orrore. In questo primo scorcio di XXI secolo, sul piano planetario non meno tragico di quello precedente, Dante resta il "poeta d’Europa" e della “contemporaneità”, come Osip Mandel'štam (1891-1938), Thomas S. Eliot (1888-1965) e Ezra Pound (1885-1972) affermarono concordi. La sua lingua squarciata e distorta nell’Inferno o trapuntata di neologismi nel Paradiso, lancia in avanti nel futuro di chi la legge - e di chi la narra - le icastiche immagini di personaggi e fatti locali quale viatico per comprendere altre vicende particolari e situarle nella Storia universale dell’umanità nel mondo[5]. 3. Nel Novecento Dante è soprattutto il poeta del realismo allegorico, della concretezza linguistica, del significato che s’impone sulla forma e non del verbo profetico che si rivela nella forma. Nei decenni del trionfo della società di massa degli anni Settanta-Ottanta, in Italia è anche il poeta della “città perduta”, memento severo per gli scrittori e i poeti a contrastare l’omologazione del pensiero perseguendo l’esercizio della critica militante attraverso la letteratura. La Divina Mimesis (1975)[6] di Pier Paolo Pasolini e la Commedia dell’Inferno (1989) di Edoardo Sanguineti[7] ne sono esempi significativi, il primo, consegnato all’editore dall’autore appena prima di morire nella forma di «documento», il secondo prima parte di un rifacimento teatrale dell’intera Commedia per mano di Edoardo Sanguineti (Inferno), Mario Luzi (Purgatorio) e Giovanni Giudici (Paradiso). Nella riscrittura dei primi due canti infernali Pasolini si sdoppia nel ruolo sia di Dante perduto nella selva sia di Virgilio che lo soccorre. L’io narrante è solo, «noioso superstite per gli amici, personaggio estraneo a me stesso», cioè a quel «piccolo poeta civile degli Anni Cinquanta», ora ridotto a «un’ombra, una sopravvivenza»[8] nella società del consumismo che mortifica la cultura e la mediazione intellettuale. Ma è seguendo quell’ombra che il Pasolini-Dante, incerto sul suo ruolo di poeta, si ritrova fedele alla divina mimesis, cioè all’impegno di mettere al servizio dell’interpretazione del mondo la sua scrittura e la sua immaginazione. Nella Commedia infernale il poeta-performer Sanguineti è compagno di Dante e di Virgilio in una grottesca discesa nell’inferno della società post-moderna, per parlare di noi e per noi assuefatti al degrado dei corpi e delle parole. L’attraversamento di Malebolge e della palude ghiacciata si conclude nel disfacimento scenico - allegoria crudele della perdita dell’umano - prodotto da un Lucifero divenuto «una vera macchina infernale»[9], che si rompe in mille pezzi producendo rumori sempre più assordanti. Rispetto a questi rifacimenti novecenteschi, dalla forte impronta sperimentale e provocatoria, la presenza di Dante nel romanzo di Hisham Matar, è più discreta, quasi pudica, come lo era in Se questo è un uomo di Primo Levi. Raccontando l’oscenità di un potere che rivendica a sé la damnatio memoriae, prima rendendo i prigionieri irriconoscibili anche a loro stessi, poi distruggendone le ossa e cancellandone il nome dalle anagrafi dei morti, l’autore trova in Dante e nella grande letteratura il coraggio di indagare le apocalissi che la storia rinnova, perché nella scrittura sta la vera vendetta degli oltraggi all’umanità. È questo il “paradiso minore” che può scorgere chi sa che, se il mondo esiste prima e anche senza la parola, è ancora la parola a renderlo un po’ meno opaco ed estraneo: «Forse i monumenti e i rituali del lutto, religiosi e laici, nel corso della storia umana non sono che gesti falliti. I morti vivono con noi. Il dolore non è un libro giallo o un rebus da risolvere, bensì un’impresa attiva e vibrante. È un lavoro duro, onesto. Ti può spezzare la schiena. È parte integrante dell’iniziazione alla morte e - non so perché, non ho modo di dimostrarlo - è una parte colma di speranza. La cosa più straordinaria è che, qualunque cosa sia successa, il cuore allinea naturalmente con la luce»[10].


[1] T.S. Eliot, Scritti su Dante (a cura di R. Sanesi), Bompiani, Bologna 2001, p.12 [2] H. Matar, Il ritorno. Padri, figli e la terra fra di loro (trad. di A. Nadotti), Einaudi, Torino 2017 [3] T.S. Eliot, Scritti su Dante, cit., p. 78 [4] H. Matar, Il ritorno, cit., p. 61 [5] Osip Mandel'štam, Conversazione su Dante (trad. R. Giaquinta), Il nuovo Melangolo, Genova 2007 [6] P.P. Pasolini, La Divina Mimesis, Mondadori, Milano 2006 [7] E. Sanguineti, Commedia dell’inferno. Un travestimento dantesco (a cura di N. Lorenzini), Carocci, Roma 2005 [8] P.P. Pasolini, La Divina Mimesis, cit., p.13 [9] E. Sanguineti, Commedia dell’inferno, cit. p. 93. [10] H. Matar, Il ritorno, cit., p. 143   Crediti immaginiDante incontra Ciacco. Illustrazione da Gustave Doré (Wikimedia Commons

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