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Piccola antropologia del turismo

"L’occhio dello straniero vede solo ciò che già conosce" recita un proverbio africano. A partire da questo proverbio, un viaggio virtuale tra le esperienze vissute dal turista di ieri e da quello di oggi. Per una nuova antropologia del turismo.
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"L’occhio dello straniero vede solo ciò che già conosce" recita un proverbio africano, che esprime in modo esemplare l’equivoco che spesso segna l’incontro del turista con un mondo lontano dal suo. Questo perché, fin dal momento in cui la ipotizziamo, viviamo la nostra esperienza turistica all’interno di un immaginario globalizzato, che ci fornisce in abbondanza dati, informazioni e immagini sulla nostra meta. Scegliamo di andare in un posto perché sappiamo com’è, lo abbiamo visto alla televisione, sulle riviste specializzate, sui cataloghi turistici, nelle proiezioni degli amici: il viaggio da scoperta diventa sempre più una verifica di ciò che conosciamo già.

 Che cos'è l'antropologia del turismo? Scoprilo qui.

Il turismo etnico

L’atlante mentale turistico dei viaggiatori classifica le mete sulla base della loro offerta vacanziera. Per esempio, l’Africa australe è soprattutto ambita per le bellezze naturali, per i suoi paesaggi e per i parchi con gli animali; in Egitto o in Messico si va per ammirarne i resti archeologici; la Nuova Guinea, Sulawezi o l’Africa occidentale attirano i turisti puntando sull’attrattiva fornita dalle loro popolazioni «tribali». Nei primi due casi (natura e monumenti) la promozione turistica agisce tramite codici già collaudati per il mondo occidentale. Bellezze naturali e testimonianze architettoniche storiche non sono certo una novità per il turista occidentale, abituato a ritrovarle anche nel proprio contesto. Qualcosa cambia quando ci si trova di fronte alla «questione etnica».

Leggendo i cataloghi turistici o ascoltando i commenti di molti turisti, ci si rende conto dello sguardo più o meno inconsciamente etnocentrico con cui vengono osservate e giudicate le altre popolazioni. In molti casi non si parla di società, ma di culture. Termine che spesso si accompagna con aggettivi come “tradizionali”, “isolate”, “incontaminate” che tendono a collocare queste società in un tempo che è altro dal nostro, quasi remoto, comunque astorico. Descrizioni, spesso intrise di esotismo e primitivismo se non di paternalismo, che spingono le popolazioni descritte verso uno stato di natura, estraneo e precedente alla civiltà – termine che segna uno spartiacque tra noi e loro. Così come quando parliamo del nostro passato lo chiamiamo storia, gli altri, invece, hanno le tradizioni. Le parole non sono casuali, tradiscono un pensiero.

La messinscena dell’alterità

Gli aspetti che il turista “etnico” apprezza di più sono il folklore, l’artigianato, i rituali: tutte cose che l’Occidente sembra aver perduto. Pur con l’intenzione di valorizzarli, vediamo gli altri come dei “noi” in negativo, come qualcosa che non siamo. In realtà, quelle società che ci piace pensare immobili, succubi delle loro tradizioni, mostrano un’incredibile vitalità. Come nel caso dei dogon del Mali, oggi in gran parte musulmani, ma che talvolta recitano o enfatizzano la loro tradizione animista, mettendo in scena ciò che il turista si attende di vedere. O come i toraja di Sulawezi, divenuti celebri per i loro funerali rituali, che celebrano finte cerimonie funebri per i turisti.

Il turista «etnico» è solitamente un po’ conservatore, rifugge le contaminazioni della modernità in favore di una presunta autenticità, negando così di fatto l’idea che quei popoli possano fare «storia».

In realtà, se da un lato le performances culturali possono essere lette da alcuni come semplici espressioni di «colore», dall’altro la performance turistica contribuisce a mantenere in vita, sebbene più a livello di forma che di contenuto, tradizioni in via di sparizione. Da queste performances nascono nuove forme di espressione culturale, basate sull’incontro e sull’apertura. La messa in scena non è dunque completamente teatrale, poiché in essa si inseriscono attitudini riservate al contesto rituale tradizionale. Vedere i propri costumi diventare oggetto di un’attenzione sempre crescente da parte dei visitatori può inoltre contribuire a promuovere nei nativi una presa di coscienza del valore della propria cultura. Il turismo può convincere i locali di essere i produttori o gli eredi di qualcosa di prezioso e questo finisce per mutare il modo con cui loro percepiscono se stessi.

 Guarda una danza tradizionale (per turisti) dei Toraja di Sulawezi:

Il nuovo esotismo

Oggi ci sono forme di turismo che si pongono in alternativa ai modelli di massa e che stanno tentando di proporre un tipo diverso di incontro con l’altro. Il cosiddetto turismo responsabile, etico, sostenibile ha dato vita a nuovi immaginari, a «esotismi» diversi, che spostano il turismo dalla sua tradizionale dimensione di svago a quella dell’esperienza. La nuova etica suggerisce che il viaggio diventi non solo scambio di denaro per servizi, ma anche di emozioni. Il nuovo esotismo non si basa più sulla ricerca dello stupore di fronte al diverso, ma sul tentativo di comprendere, conoscere, approfondire e soprattutto vivere diversamente le relazioni. Si tratta di passare dal turismo come prodotto di consumo al turismo come pratica, con valenza esistenziale. Il rischio è però che i paesi del Sud del mondo diventino, come l’Oriente anni Settanta, una sorta di approdo psicoanalitico per occidentali scontenti della propria civiltà, animati da un bisogno terapeutico di capire e aiutare gli altri. Senza contare che, continuando a concepire il turismo come esperienza (nostra) si rischia di rendere per scontata l’idea che i locali esistano principalmente per uso e consumo dei turisti.

Guarda il sito della rete del turismo responsabile.

Ogni cultura è multiculturale

Non è così. Quelle società umane, di cui magari amiamo solo gli aspetti più estetizzanti, non sono l’espressione infantile della nostra, il gradino basso della scala evolutiva. «La cultura è tutto quello che l’uomo ha inventato per rendere il mondo vivibile e la morte accettabile», così scriveva Aimé Césaire. Ogni società ha saputo dare vita a una propria riflessione sul mondo, a una sua specifica antropologia, ponendosi di fronte ai grandi problemi dell’esistenza. E ogni società ha saputo fornire delle risposte. Perché i problemi sono esistenziali e pertanto sono universali, ma le loro soluzioni, essendo umane, sono diverse.

In un’epoca in cui il pianeta è sempre più simile al villaggio globale di McLuhan, diventa quanto mai importante saper guardare agli altri da pari, quali sono e siamo. La storia e l’antropologia ci insegnano che ogni cultura è il prodotto di lunghi e continui scambi con altre culture. Potremmo dire che ogni cultura è multiculturale. Ecco allora l’importanza della diversità, della pluralità e della relazione con il diverso. E se a volte questo altro può apparirci piccolo, insignificante, estraneo alla nostra esistenza, è solo conseguenza della nostra presunzione.

L’incontro con l’altro risulta spesso essere viziato o interrotto da equivoci, malintesi e dalle aspettative precostruite con cui tutti noi spesso viaggiamo. Insieme con gli abiti, le medicine, le guide il bagaglio del viaggiatore contiene innanzitutto le sue incertezze, le sue paure, la sua visione del luogo e delle persone che sta per incontrare. La costruzione dell’immaginario turistico, sia esso fondato sull’esotismo sia sull’attenzione alle questioni sociali, come nel caso del turismo alternativo, dà sempre vita a chiavi di lettura che ci accompagnano fin dalla partenza.

Chi è Marshall McLuhan? Scoprilo qui e qui.

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