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Quando arrivarono i primi cinesi in Europa?

Gli storici conoscono bene i viaggi degli occidentali in Cina. Ma molto meno si sa del tragitto opposto: quand'è che i cinesi hanno iniziato a spostarsi verso l'Europa? Gianni Sofri ha ricostruito questa storia in un intervento d'autore del settembre 2015, che ripubblichiamo a distanza di più di tre anni in una nuova versione aggiornata e ampliata, disponibile anche per il download in pdf.
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Una prima stesura di questo articolo fu pubblicata nel settembre 2015, con lo stesso titolo e nella stessa sede, vale a dire l’Aula di Lettere della Zanichelli, rivolta a insegnanti e studenti. Quella che segue è una nuova stesura, ampliata e aggiornata. G.S., ottobre 2018
  Clicca qui per scaricare il pdf del saggio di Gianni Sofri   Ogni anno milioni di turisti cinesi lasciano il loro paese per visitarne altri. Naturalmente, i paesi più visitati sono i più vicini, alcuni dei quali tanto vicini da essere considerati parte della Cina stessa: a Hong Kong vanno mediamente (ma ci sono delle variazioni annuali) 35 milioni di persone, a Macao 21 milioni e mezzo. Taiwan, che rivendica la propria autonomia, è stabile su circa 2 milioni e mezzo di arrivi. Il Giappone riceve circa 10 milioni di cinesi, per lo meno negli anni in cui non ci sono difficoltà politiche tra i due paesi. Difficoltà che sono spesso presenti in quest’area geografica, e non solo. Per esempio, la Corea del Sud era arrivata a ricevere quasi 3 milioni di turisti cinesi, scesi però a meno di 100 mila nel 2016, a causa del peggioramento dei rapporti diplomatici tra i due paesi. Nel Nord America si stima che nel 2017 siano arrivati un po’ più di 3 milioni di turisti cinesi. In Europa, la Francia occupa il primo posto, seguita da Germania e Spagna, a loro volta incalzate dall’Italia, che nel 2017 ha ricevuto poco meno di 1 milione e mezzo di turisti cinesi. Queste cifre fanno una certa impressione se si pensa che solo pochi decenni fa, negli anni della “rivoluzione culturale” (1965-1969) e immediatamente successivi, la Cina era già il paese più popolato della Terra, ma del tutto chiuso ai rapporti con il mondo esterno, e tale rimase fin quasi ai primi anni Ottanta dello scorso secolo (se si eccettuano alcune timide aperture). Il boom arrivò poco dopo, con l’inizio della rapidissima espansione dell’economia, che ha fatto di nuovo della Cina una delle grandi potenze mondiali. Prima di allora, la Cina era già stata per millenni una grande potenza, talmente convinta di esserlo da chiamare se stessa l’Impero del Mezzo (o del Centro): è questo il significato della parola Zhongguo, con cui i cinesi designano il proprio paese. Questo nome voleva dire che tutto il resto del mondo conosciuto, “tutto ciò che si trova sotto il Cielo”, era in qualche modo assoggettato all’Impero cinese. Più in teoria che nei fatti, perché assai di rado gli Imperatori mandavano a controllare che il loro potere fosse ovunque riconosciuto, e a riscuoterne dei doni, spesso solo simbolici, in segno di sottomissione. Un esempio particolarmente curioso? Nel 1793, Lord Macartney, ambasciatore di sua maestà britannica, fu inviato alla corte dell’imperatore Qianlong della dinastia dei Qing, portando con sé munifici doni, trasportati a Pechino da quaranta carrette, duecento cavalli e tremila portatori. I funzionari cinesi li definirono “offerte del tributo” e cercarono di ottenere da Macartney che rispettasse l’etichetta facendo kotow (o kau tau), vale a dire un profondo inchino, prostrarsi, davanti all’imperatore. Macartney accettò solo di piegare un ginocchio, come faceva per Giorgio III. Dopo questa visita, l’imperatore lodò il re d’Inghilterra per il suo “rispettoso spirito di sottomissione”. Ma dichiarò anche: “il nostro Impero celeste possiede tutte le cose in abbondanza”, cosa che rendeva assai poco interessante per la Cina l’idea di commerciare con gli inglesi. C’erano però frequenti guerre con i popoli confinanti, soprattutto con i nomadi delle steppe dell’Asia centrale e settentrionale. E c’era una migrazione sostenuta e continua, in cerca di lavoro e di commerci, verso altri paesi non solo dell’Asia ma anche di altri continenti, dell’America del Nord soprattutto. La cosiddetta diaspora, cioè la dispersione di gruppi di migranti cinesi, ha portato a una presenza cinese all’estero che oggi si aggira attorno ai 50 milioni di persone (in Italia i residenti cinesi sono circa 280 mila). Naturalmente, qui non stiamo parlando di turisti, ma di cinesi che hanno scelto di vivere altrove, in luoghi dove era più facile trovare lavoro. Furono i migranti cinesi, per esempio, a costruire la grande rete ferroviaria americana, soprattutto nella parte che arriva all’Oceano Pacifico. Già nella prima metà del Novecento, in paesi come il nostro, o la Francia, o gli stessi Stati Uniti, i primi nuclei dei quartieri cinesi, in rapida crescita (nelle città di lingua inglese vennero presto chiamati Chinatown), furono costituiti da commercianti, e soprattutto da cuochi e camerieri che aprivano ristoranti. Ma quando arrivò il primo cinese nell’Europa occidentale? Proviamo a ricostruire questa storia, ma sapendo già che sarà molto difficile. Soprattutto dal Medioevo in poi, conosciamo abbastanza la storia dei viaggi e delle esplorazioni di europei nell’Asia centrale e orientale, fino alla Cina. Questo perché molti studiosi se ne sono occupati e hanno cercato, trovato e pubblicato documenti. Ma anche perché, come vedremo, particolari circostanze storiche hanno spinto più volte gli europei a inoltrarsi nella lontana Asia, per molto tempo sconosciuta o quasi. Dei viaggi dei cinesi in Europa sappiamo assai meno. Cercare le origini di un fenomeno, provare ad individuare la prima persona che ha fatto una certa cosa, o la prima volta che un certo evento si è verificato, è sempre un po’ pericoloso e illusorio. Per varie ragioni. La principale è che la ricerca delle origini si svolge sempre al livello che il lavoro degli storici o degli archeologi (di tutti coloro, insomma, che studiano il passato) ha raggiunto a un certo punto. Niente vieta che uno scavo più fortunato di un terreno che copre resti antichi, o una ricerca altrettanto fortunata di nuovi documenti in un archivio storico, modifichino l’insieme delle conoscenze e facciano comparire un personaggio o un fenomeno più antichi. Questo vale anche per il racconto che vi accingete a leggere.  

Roma e i cinesi  

Le signore romane amavano molto vestirsi con delicati e leggeri abiti di seta, e della seta più pregiata si sapeva che arrivava dal lontano Oriente, fabbricata da un popolo misterioso che i romani chiamavano Seres (da qui, l’aggettivo serico per indicare la particolare consistenza della seta). Quanto ai cinesi, essi sapevano che nell’estremo Occidente c’era un grande Paese i cui abitanti amavano i loro prodotti. Lo chiamavano Da Qin: ma secondo alcuni studiosi, Da Qin si riferiva solo alla periferia orientale dell’Impero romano, –per esempio alla Siria- dove ai cinesi era più facile avvicinarsi. Ne avevano comunque poche notizie, e nessuna di prima mano. Ciò nonostante, c’era un vastissimo commercio che dalla Cina portava in Occidente non soltanto la seta, ma anche altri prodotti, come spezie e legni pregiati: per lo più materie prime, mentre da Roma partivano in cambio prodotti lavorati artigianali, gioielli, vetri, vini, il corallo rosso del Mediterraneo, oppure metalli preziosi e monete di oro e di argento. Nel complesso, la bilancia commerciale era a favore dei cinesi: Plinio il Vecchio (ma anche altri) denunciava questo sperpero di denaro, da lui attribuito all’eccessivo gusto del lusso dei suoi concittadini più ricchi. Questi commerci si svolgevano attraverso una serie di strade (“le vie della seta”) il cui ramo centrale, il più importante, era lungo all’incirca 7000 km, da Luoyang, capitale della Cina di allora, fino a Seleucia, città-mercato e luogo di smistamento dei carichi, sul Tigri, nell’attuale Iraq. Le ramificazioni di questa rete, attiva già dal I secolo d. C., arrivavano fino in Russia e in India. Le altre vie, quelle marittime (o tali in prevalenza, perché spesso tratti di mare e terrestri si alternavano), cominciavano col caricare i prodotti sulle navi nei porti della Cina meridionale o dell’attuale Vietnam, e li portavano fino alle coste dell’India. Da qui, per lo più, altre navi imbarcavano le stesse merci e le portavano più lontano, fino al Mar Rosso. Da dove, finalmente, venivano avviate a Roma o in altre città dell’Impero. Malgrado questa fitta rete di viaggi e di commerci, romani e cinesi non si incontravano mai, perché in mezzo, fra gli uni e gli altri, c’erano altri popoli che facevano da intermediari, altri mercanti che prendevano il carico e lo portavano, con le loro carovane, più in là, dove lo avrebbero poi trasmesso a nuovi intermediari. Così, fra cinesi e romani c’erano gli Yuezhi, una popolazione che parlava probabilmente una lingua indoeuropea, il tocario. Poi i Parti e tante altre popolazioni di mercanti, persiani, arabi, armeni, ebrei, greci. Sembra che i romani desiderassero spingersi in direzione della Cina, ma che glielo impedissero i Parti, gelosi del loro ruolo di controllori intermedi del commercio. Lo scrisse anche un cronista cinese: “I loro re [dei Romani] ebbero sempre il desiderio di inviare ambasciate in Cina, ma i Parti desideravano tenere per sé il commercio con loro”. Sembra che i cinesi avessero lo stesso desiderio, ma che un loro ambasciatore, arrivato fin sulla costa del Mediterraneo, se ne fosse ritratto, spaventato dai racconti degli astuti Parti sulla pericolosità della traversata (che comprendeva, tra i vari rischi nominati minacciosamente per dissuaderlo, il farsi affascinare dal canto delle sirene). È quindi possibile che un cinese sia arrivato in qualche località dell’impero romano, se non proprio a Roma. Ma non è probabile, e comunque non se ne trova alcuna traccia nei documenti latini che sono arrivati a noi. Abbiamo invece una curiosa notizia che proviene da una cronaca storica cinese, la Storia dei discendenti degli Han, redatta verso il 430. Vi si racconta che nell’anno 166 d. C. sarebbe arrivata nella capitale cinese per via di mare una delegazione (o forse un gruppo di mercanti) mandata da “Antun”. L’assonanza del nome ha fatto pensare alla dinastia degli Antonini e in particolare ad Antonino Pio, Imperatore dal 138 al 161 d. C. Potrebbe trattarsi invece di Marco Aurelio, che succedette ad Antonino Pio. Oppure ancora, la discrepanza delle date si potrebbe ricondurre alla lunghezza e difficoltà del viaggio. Partiti quando era Imperatore Antonino, i viaggiatori sarebbero arrivati quando Antonino era morto da qualche tempo, ma senza, come ovvio, che nessuno avesse avuto la possibilità di avvertirli. E comunque tutto questo episodio, testimoniato solo da una fonte cinese, è poco più che un’ipotesi. La fonte, in ogni caso, racconta anche che i visitatori arrivarono dall’Imperatore cinese con doni che si erano procurati durante il viaggio, probabilmente in Indocina: zanne di elefante, corna di rinoceronte e gusci di tartaruga. Sembra che l’imperatore cinese e il suo storiografo abbiano capito subito che non poteva trattarsi di prodotti tipici dell’impero romano, ma piuttosto di luoghi molto più vicini; e che abbiano considerato i doni piuttosto volgari e poco adatti a una missione importante. Se tale voleva essere il viaggio di quei romani, è difficile pensare a un suo successo diplomatico e commerciale. In ogni modo, la seta continuò ad arrivare alle signore romane grazie alla mediazione di Yuezhi, Parti e altri mercanti. E comunque l’episodio appena raccontato ha sempre suscitato molta curiosità. Il romanziere inglese William Golding, premio Nobel 1983 per la letteratura, famoso soprattutto per Il signore delle mosche, ne ha tratto lo spunto per un breve romanzo intitolato L’inviato dell’Imperatore (1956). Nei secoli successivi, i commerci continuarono, e anche le guerre. Lentamente aumentarono le conoscenze reciproche degli europei sui cinesi e viceversa, ma continuò anche (almeno per quanto se ne sa) quella curiosa assenza di incontri fisici. Una situazione che si prolungò fino agli ultimi secoli del Medioevo, più precisamente fino al XIII secolo, quando ad interromperla e a modificarla, in un momento storico molto particolare, furono alcuni frati francescani inviati in missione presso l’Imperatore mongolo, ormai anche Imperatore della Cina. Sono stati definiti, e lo furono davvero, “i precursori di Marco Polo”, il quale ne seguì dopo poco tempo le orme. Ma, almeno alcuni di essi, non furono meno importanti di lui o addirittura lo superarono per la ricchezza e precisione delle descrizioni geografiche ed antropologiche dei paesi visitati.  

Gli esploratori del Medioevo

La difficoltà e quindi la rarità delle comunicazioni tra Europa e Asia orientale si accentuarono a partire dal VII secolo d. C., e cioè da quando il rapido progresso delle conquiste arabo-islamiche anche in Asia (gli arabi arrivarono in India già nel VII secolo) crearono una specie di vasta area di frontiera che separava i due mondi. Al punto che un celebre storico belga, Henri Pirenne, in un libro intitolato Maometto e Carlo Magno (pubblicato per la prima volta nel 1937), sostenne che l’espansione araba avesse determinato una pressoché totale rottura delle comunicazioni. In realtà, una rottura completa non ci fu mai, anche perché per alcuni secoli furono proprio gli arabi a fare da tramite, soprattutto per mare, nelle comunicazioni fra Cina e Occidente, fra l’altro importando in Europa invenzioni cinesi come la bussola, la stampa o la polvere da sparo. È certo, però, che andare dall’Europa in Asia Orientale, o viceversa, divenne più difficile. Perché questa situazione cambiasse fu necessario attendere il XIII secolo e una situazione geopolitica molto diversa. Alla metà del Duecento le crociate erano finite. I cristiani non erano riusciti a recuperare i luoghi santi, ma solo a limitare i danni. Si era creata una situazione di stallo, che non eliminava comunque quella che era sentita dall’Europa cristiana come una permanente, pericolosa minaccia da parte dei musulmani. Più a nord, si era sviluppata pochi anni prima una nuova minaccia che a un certo punto era parsa ancora più pericolosa, quella dei Mongoli. Nel 1241 l’esercito di Batu Khan, nipote di Chinghiz Khan e capo del khanato dell’Orda d’Oro, aveva occupato la Polonia, la Boemia e l’Ungheria: aveva sconfitto nella battaglia di Leignitz i Cavalieri Teutonici e fatto temere fortemente un’ulteriore avanzata verso ovest, al punto che molti sovrani europei, e lo stesso Papa, chiedevano una crociata contro i Mongoli. In realtà, questo pericolo apparve presto scongiurato perché Batu si volse ad altre conquiste più a Oriente. Nello stesso periodo giungevano dalla Cina notizie piuttosto vaghe, ma tali da incuriosire il mondo cristiano e il papato in particolare. Innanzitutto, in tutta l’Asia centrale e nella stessa Cina era diffuso il nestorianesimo (dal nome del vescovo siriano Nestorio): una dottrina che era stata, sì, condannata come eretica nel concilio di Efeso del 431, ma che era pur sempre un pezzo del cristianesimo, rimasto vivo in più luoghi del vasto continente. Correva anche la voce (che molti testimoni avrebbero poi autorevolmente confermato) di una tolleranza religiosa da parte dei sovrani mongoli, malgrado la fama di guerrieri spietati che li accompagnava. Si diceva che non solo il predominante sciamanesimo, ma anche buddismo, confucianesimo, zoroastrismo, islam e lo stesso cristianesimo venissero rispettati, e che anzi i sovrani mongoli amassero mettere a volte a confronto i loro rappresentanti in una specie di gare teologiche alla ricerca della religione che più si avvicinasse alla verità e soprattutto alla coerenza tra la fede e le azioni. In più, c’era la leggenda del Prete Gianni. Per tutto il Medioevo si favoleggiò di un misterioso regno cristiano in Oriente, alla cui base era probabilmente uno dei tanti esodi di minoranze cristiane o ereticali dei primi secoli. Dopo aver stazionato a lungo (quanto meno nelle fantasie) in Asia Orientale, il mito del Prete Gianni si trasferì altrove, nell’India settentrionale e più tardi nel Corno d’Africa. Al tempo di cui stiamo parlando, contribuiva anch’esso ad attirare l’attenzione sulla Cina o meglio sul Catay, come si tendeva allora a chiamarla. Se si tengono presenti tutti questi elementi, dalla geopolitica all’immaginario, si può anche capire un insieme di pensieri e desideri che inducevano l’Europa cristiana a vagheggiare la possibilità di un’alleanza con i lontani, potenti mongoli per chiudere l’islam in una morsa. (Incontriamo qui quasi un’anticipazione di quell’intreccio di politica, diplomazia, esplorazioni, spionaggio che gli inglesi, riferendosi alla competizione tra Stati per il controllo dell’Afghanistan, avrebbero chiamato nell’Ottocento il “grande gioco”: una definizione resa poi popolare da Kipling nel romanzo Kim, e tornata in uso ai nostri giorni.) È questa idea di un’alleanza con i mongoli, per prendere i guerrieri dell’Islam alle spalle, a dare luogo, attorno alla metà del Duecento, a un movimento destinato a durare più decenni, che porta in una Cina sottoposta al dominio mongolo con la dinastia Yuan (1279-1368) una numerosa serie di viaggi di inviati di sovrani europei, o più spesso del Papa. Soprattutto i più famosi fra essi, come Giovanni da Pian del Carpine e Guglielmo di Rubruck, oltre a raggiungere i capi mongoli svolgendo così la propria missione diplomatica, raccolgono (e diffonderanno poi nei loro scritti) una mole preziosa di notizie geografiche e antropologiche. Questi precursori di Marco Polo (ma Guglielmo di Rubruck è più acuto e preciso di lui nel suo Itinerarium), viaggiatori, missionari e diplomatici a un tempo, percorsero le strade dell’Oriente e misero le fondamenta, anche se per il momento assai fragili, di una diffusione in Cina del cristianesimo. Erano, non a caso, quasi tutti francescani, e mossi, oltre che dagli incarichi papali, da un fervore evangelico e missionario che veniva loro direttamente da Francesco, fondatore recente dell’ordine. Tra le molte curiosità che accompagnavano i loro viaggi c’è l’incredibile quantità di incontri con uomini e donne, liberi o prigionieri, originari dell’Europa occidentale. I francescani incontrano artigiani e mercanti, avventurieri di ogni genere, un inglese bandito dalla sua patria, rovinatosi al gioco e messosi a vagabondare per l’Oriente, un orafo parigino pieno di nostalgia per il suo re e una lorenese che aveva sposato un muratore russo. E poi una quantità di ambascerie da tutto il mondo allora conosciuto, a testimonianza del rispetto e della paura che circondavano ovunque l’impero dei Mongoli. Marco Polo, che parte ragazzo con il padre e lo zio nel 1271 (da Pian del Carpine e Rubruck erano partiti rispettivamente nel 1253 e nel 1256), rimarrà in Cina diciassette anni, più di tutti i suoi predecessori, e il suo Milione si affermerà come l’opera più nota e più diffusa tra i viaggiatori e gli aspiranti esploratori, ma anche tra gli studiosi da biblioteca, fino al Cinquecento e oltre. Questa prima fase dei rapporti fra Europa e Chiesa cattolica da un lato, mondo cinese (e mongolo) dall’altro non si esaurisce qui. Le esplorazioni, la diplomazia, le ambasciate continuano, ma si apre anche una vicenda missionaria più istituzionale. Nel 1289, poco dopo che Marco Polo è ripartito dalla Cina per tornare in patria, per incarico del primo Papa francescano, Niccolò IV, parte a sua volta per la Cina un altro francescano, Giovanni da Montecorvino (1249-1328). Dopo una lunga tappa in India, arriva in Cina nel 1295, e la sua predicazione ottiene notevoli successi, tanto da indurlo a chiedere dei rinforzi. Arrivano a Pechino due preti tedeschi e tre frati minori italiani, che nel 1307 consacrano Giovanni, a nome e per conto del nuovo pontefice, arcivescovo di Khanbaliq, e cioè della città del Khan, Pechino. Giovanni da Montecorvino diviene così il primo arcivescovo cattolico in Cina, nonché iniziatore della missione di Pechino. Alla quale portano altri contributi nuovi arrivi. Basti ricordare Odorico da Pordenone (n. tra il 1265 e il 1270-m. 1331), che passò in Asia quindici anni della sua vita, esplorò quasi ogni angolo della Cina e fu il primo europeo a visitare Lhasa. Ciò nonostante, pochi decenni dopo la sua nascita, la missione fondata dai francescani si esaurì poco per volta. Tre secoli dopo, quando i gesuiti arrivarono in Cina, non trovarono alcuna traccia della sua antica presenza. Questo rapido tramonto delle missioni francescane fu determinato da varie ragioni, da eventi che si succedettero in più parti del mondo e in più campi. Il primo fu la grande peste del 1348 (quella del Boccaccio, per intenderci), che partì dall’Asia e arrivò a colpire i paesi europei, rendendo i viaggi, improvvisamente, assai più difficili e pericolosi. Quasi negli stessi anni si avviava il lento declino della dinastia mongola Yuan, e con essa del sogno di una pax mongolica. I Ming, che le sarebbero succeduti nel 1368, dopo un periodo di ribellioni e conflitti armati, sarebbero stati meno tolleranti e più xenofobi, più tendenti a chiudersi nei confronti di culture diverse dalla propria. Sempre nello stesso periodo, i luoghi sacri della Palestina apparivano ormai definitivamente perduti, mentre si affermava, nel Mediterraneo orientale e nei Balcani, una nuova invasione, quella degli Ottomani. Tutto congiurava per allontanare fra loro, ancora una volta, i due vertici dell’Eurasia, che francescani e mercanti, europei e mongoli, avevano cercato per qualche tempo di avvicinare. Non molto tempo dopo, alla fine del Quattrocento, i viaggi dei portoghesi aprivano un nuovo capitolo nelle comunicazioni tra Europa e Asia, quello delle vie marittime che attraverso l’Oceano Indiano finirono per raggiungere i porti cinesi e, almeno per qualche tempo, anche quelli giapponesi. L’apertura e il rapido diffondersi di queste vie d’acqua era destinato in breve tempo a rappresentare una concorrenza vincente nei confronti delle vie della seta e delle città carovaniere che ne segnavano le tappe, fino a determinarne il rapido declino. Soltanto nell’ultimo decennio, e quindi in tempi ormai molto vicini a noi, si sarebbe assistito, ad opera questa volta del governo comunista cinese, a un tentativo di rinascita delle “vie della seta”: intesa, questa volta, almeno in parte metaforicamente (come il richiamo a una gloria storica e antica), ma impregnata di una volontà di espansione economica e di modernità, ma anche di egemonia politica. Suo presupposto, la rapidità dei trasporti, che aveva avuto già nell’Ottocento il suo battesimo simbolico con la Ferrovia Transiberiana.  

E i cinesi?

Si sa decisamente meno, per ora, di viaggi di cinesi in senso contrario, vuoi perché, come sembra, ne abbiano fatti di meno, vuoi perché sia stato meno intenso e fortunato il lavoro degli studiosi. Come vedremo, conosciamo pochi nomi e cognomi di cinesi che siano venuti in Europa già in tempi lontani da noi, ma sappiamo che ce ne sono stati. Nel 1275, e cioè nello stesso anno in cui Marco Polo giungeva a Pechino, due monaci cristiani nestoriani partivano per un viaggio in senso inverso, voluto dallo stesso Imperatore Qubilai Khan. Uno di loro si chiamava Rabban Marcus, ed era amico e discepolo dell’altro, Rabban Sauma, il quale interessa molto la nostra storia. Rabban Sauma era nato a Pechino in un anno incerto della prima metà del Duecento. I suoi genitori erano turchi della Cina del Nord, anch’essi nestoriani. Lo scopo originario del viaggio dei due amici, entrambi molto pii, era quello di visitare i luoghi santi della Palestina; ma quando arrivarono in Iran (allora sotto dominazione mongola) dovettero rinunciarvi perché attorno alla Palestina erano in corso combattimenti. In compenso, Marcus venne prima nominato vescovo, poi elevato dal Sinodo alla dignità di patriarca dei nestoriani. Forte di questa carica, Marcus nominò a sua volta Sauma vescovo e lo incaricò, nel 1287, di guidare un’ambasceria del patriarcato in Europa. Rabban Sauma ebbe anche un incarico politico, importante e delicato, dall’Ilkhan mongolo dell’Iran, Arghun (gli Ilkhan erano dei sovrani vassalli del Gran Khan di tutti i mongoli). Arghun intendeva proporre al Papa e ai sovrani cristiani un’alleanza per combattere insieme i Mamelucchi dell’Egitto, prendendoli tra due fuochi. In cambio, avrebbe offerto ai cristiani la Terra Santa. Con questi due compiti, nei quali troviamo nuovamente prefigurato un precedente di quello che verrà poi chiamato “il grande gioco”, Rabban Sauma partì accompagnato da un largo seguito. In quel periodo, in Cina, i nestoriani erano ostili ai cristiani di altre confessioni. E anche le loro ambascerie in Europa potevano ispirarsi, a seconda dei casi, a due atteggiamenti molto contraddittori. Il primo consisteva nell’invitare in tono di sfida il Papa e i re cristiani a sottomettersi al Khan dei Mongoli, padrone dell’intero universo. Altri ambasciatori tennero un comportamento più tranquillo e rispettoso o addirittura si convertirono al cristianesimo romano. Senza convertirsi esplicitamente, Rabban Sauma scelse questo secondo atteggiamento, forse anche per le proposte che era stato incaricato di fare. A Roma, incontrò il Papa neoeletto Niccolò IV, ricevette da lui la comunione e lo seguì in tutte le funzioni della settimana santa del 1288, “come un perfetto cattolico”. Secondo il sinologo francese Jacques Gernet, proprio il passaggio a Roma di Rabban Sauma avrebbe indotto il Papa a decidere la missione di Giovanni da Montecorvino a Pechino. Quanto ai suoi incarichi diplomatici, la proposta dell’Ilkhan non poté realizzarsi, ma questo non impedì al viaggio di Sauma di contribuire al miglioramento delle reciproche conoscenze tra Europa e Cina. Nel corso del suo viaggio, Sauma visitò varie città, fra cui Costantinopoli, Napoli, Roma e Parigi. In Sicilia poté assistere a un’eruzione dell’Etna. Incontrò Edoardo I d’Inghilterra e Filippo il Bello re di Francia, di cui fu ospite per un mese. Al suo ritorno in Cina scrisse un resoconto dei suoi viaggi, contenente anche una descrizione intelligente e accurata dell’Europa di quel tempo, la prima scritta da un viaggiatore orientale. Rabban Sauma non fu però il primo cinese (sia pure di origini turche) che stiamo cercando in Europa. Come già si accennava, nello stesso periodo ci furono anche altre ambascerie (qualcuna prima di quella di Sauma) provenienti da principi mongoli: in prevalenza venivano dai regni mongoli dell’Asia centrale, del Medio Oriente o dell’Europa orientale, ma in qualche caso anche dalla Cina degli Yuan. Molto spesso i sovrani mongoli usavano come diplomatici degli europei che avevano vissuto per qualche anno alla loro corte, e di cui intendevano utilizzare le conoscenze dell’Occidente. Per esempio, tra la fine del Duecento e i primi del Trecento vennero a Roma il genovese Buscarello di Ghisulfo, che portò una missiva a Bonifacio VIII, il fiorentino Guiscardo de’ Bastari, accompagnato da mille uomini, tutti “vestiti alla tartara”, secondo la testimonianza di Giovanni Villani, ripresa di recente da Franco Cardini; e ancora, insieme a Buscarello, era alla corte di Bonifacio anche un Tommaso Ughi, o Ugi, di Siena, incaricato di una missione diplomatica da un Ilkhan. A volte però, questi diplomatici europei (italiani, nei casi appena riportati) venivano accompagnati da funzionari mongoli o turchi nelle loro missioni presso il Papa o i sovrani europei. Troviamo per esempio un Kökedei al fianco di Buscarello, un certo Tchogan in Inghilterra nel 1291 alto dignitario dell’Impero, e qualche decennio prima, nel 1248, un turco cristiano, Aybeg. Tutto questo ci induce a qualche osservazione.  Lo avevamo detto all’inizio: trovare “il primo”, “le origini”, e simili, è sempre molto difficile. Sauma era comunque un gran personaggio, e ci aiuta a capire che nel XIII secolo i primi “cinesi” (nel senso di sudditi dell’Impero del Mezzo) erano già arrivati: anche se, in prevalenza, erano mongoli o turchi e non cinesi in senso stretto, e in più erano cristiani (ancorché nestoriani), e insomma erano un po’ diversi da come li immagineremmo. Occorrerà attendere ancora tre secoli e le missioni dei gesuiti per incontrare in Europa cinesi veri e propri. Finita l’epoca dei viaggi alla corte dei Mongoli, e dei miti e delle illusioni che li accompagnarono, sembra infatti di poter dire che i rapporti tra Cina e Occidente siano tornati ad essere rari. Non dovettero però smettere del tutto, se è vero che nella Firenze del Quattrocento, per fare un esempio, c’erano schiave arabe e tartare, che parlavano le loro lingue originarie e che potevano certamente raccontare qualcosa delle terre da cui venivano. Perché escludere che ci fosse anche un cinese? Nel secolo successivo, il geografo e teologo calabrese Giovanni Lorenzo d’Anania, autore de L’Universale fabrica del Mondo, overo Cosmografia, incontrò a Napoli un cinese nel 1572. E nel 1585 tre cinesi, forse mercanti, erano segnalati a Lisbona. È evidente come questi ultimi episodi, non sappiamo quanto isolati, siano da mettere in relazione con i primi decenni dei grandi viaggi in Oriente, cui si è già accennato, dei portoghesi e poi di altri europei. Ma con questi viaggi e con il ruolo assai importante delle missioni gesuitiche, siamo già in un nuovo capitolo della nostra storia. Prima però di aprire questo nuovo capitolo, è bene accennare all’importanza che per ricostruire la nostra storia hanno le testimonianze provenienti dalle arti figurative. Un grande storico dell’arte, Jurgis Baltrušaitis, in un suo libro sul Medioevo fantastico, ha elencato alcune delle presenze orientali nella pittura europea (dagli affreschi alle miniature) fra Tre e Quattrocento. Baltrušaitis si riferisce soprattutto alla pittura francese, ma quella italiana offre esempi non meno interessanti: Ambrogio Lorenzetti dipinge, nel 1339-40, una testa di mongolo e il busto di un Khan in un affresco sul martirio dei francescani di Ceuta e di Tana (rispettivamente, in Marocco e in India) nella chiesa di San Francesco a Siena. L’episodio dell’uccisione di questi otto “protomartiri” francescani impressionò molto i contemporanei e non solo. Venne ritratto più volte, ma quello che ci interessa, nel Lorenzetti di Siena, è la presenza di queste figure di mongoli. È del 1340 circa – contemporaneo del Lorenzetti – anche il ritratto di un mongolo nella Chiesa del Sacro Speco di Subiaco. Più tardi (ma avremo modo di riparlarne), influssi orientali importanti saranno presenti nella pittura di Pisanello, in particolare nel bellissimo affresco San Giorgio e la principessa, quasi certamente del 1437-38, nella chiesa di Santa Anastasia a Verona: nel quale, tra altri personaggi, è raffigurato un cavaliere dai tratti mongoli. Ambrogio Lorenzetti ebbe modo di vedere degli schiavi orientali impiegati nei servizi domestici in case toscane; e certamente anche i mongoli della scorta al senese Tommaso Ughi, che abbiamo già incontrato, ambasciatore dell’Ilkhan di Persia (nel 1304-1316) presso il Papa e i re di Francia e di Inghilterra. Sembra che già in occasione del giubileo del 1300 alcune ambascerie tartare siano passate anche da Siena. Dobbiamo queste informazioni di grande interesse a una ricca tesi di dottorato di Fabio Tonzar: Genti Diverse. L’iconografia degli “altri” nell’arte triveneta dei secoli XI-XIV, discussa a Udine nel 2014. Per inciso, anche la grafica è influenzata dalla Cina, dove a partire dal IX secolo si assiste al succedersi di invenzioni come le stampe xilografiche, i caratteri mobili, la carta moneta e le carte da gioco. Difficile non vedere il nesso tra l’arrivo in Europa di queste invenzioni e Gutenberg e la grafica artistica. La presenza di tipici caratteri orientali nell’arte europea può dar luogo a varie ipotesi, come i racconti dei viaggiatori o l’arrivo di raffigurazioni asiatiche: non necessariamente (non sempre) incontri fisici, personali. È un problema, questo, sul quale torneremo tra poco.  

Una parentesi: le avventurose scoperte di Gavin Menzies 

Malgrado il grande sviluppo delle sue coste a Oriente e a Sud, e malgrado la tendenza dei suoi abitanti ad emigrare per mare (grandi comunità cinesi si trovano, per esempio, in Malesia, a Singapore, in Indonesia, in Thailandia, ma anche nell’America del Nord), la Cina non ha avuto una grande storia marittima. Anche nelle fasi della sua storia in cui è stata una potenza conquistatrice, lo ha fatto per terra, scegliendo l’espansione militare verso le regioni confinanti del continente asiatico, soprattutto verso l’Asia centrale. C’è però almeno un’importante eccezione a questa tendenza ed è quella rappresentata dalle spedizioni marittime dell’ammiraglio Zheng He, svoltesi fra il 1405 e il 1433. Zheng He (1371-1432 circa) era un musulmano originario dello Yunnan. Quando era ancora un ragazzo, fu coinvolto in uno scontro armato fra i sostenitori della nuova dinastia Ming e gli ultimi difensori di quella mongola Yuan, di cui la sua famiglia -lui compreso- faceva parte. Venne arrestato ed evirato (come allora usava spesso con i prigionieri), poi portato alla corte imperiale. Qui le sue capacità e la sua brillante intelligenza si fecero presto notare, permettendogli una rapida carriera, fino al ruolo di sovrintendente della corte. Nella Cina dei Ming, gli eunuchi erano un ceto sociale che forniva una notevole parte della classe dirigente e i più fedeli seguaci ed esecutori dell’autocrazia imperiale. Nel 1402, salì al trono un giovane principe Ming, Zhu Di, che assunse il nome di Yongle e che sarebbe stato uno dei più grandi Imperatori della storia della Cina. Yongle era diventato nel frattempo amico di Zheng He. Presto lo nominò ammiraglio e lo incaricò di organizzare e guidare spedizioni navali nei mari occidentali. Zheng He fece costruire una grande flotta, la più grande che si fosse mai vista, con parecchie decine di giunche. Alcune di esse erano molto più estese e imponenti di quelle che sarebbero poi state le caravelle di Colombo o i pur grandi galeoni spagnoli; arrivavano a misurare 130 metri di lunghezza e più di 50 di larghezza: per intenderci, più di un campo di calcio. Fra il 1405 e il 1433, le spedizioni furono, secondo la tradizione, sette (molte di più secondo alcuni studiosi, e soprattutto secondo Menzies, di cui parleremo). La prima di esse, del 1405, consisteva di 27.800 uomini, 62 grandi navi e 190 più piccole. Nell’insieme dei loro viaggi, raggiunsero tutti i principali porti dell’Asia, fino al Mar Rosso e alla costa orientale dell’Africa. Uno storico imbarcato con Zheng He, anch’egli musulmano, Ma Huan, raccolse dettagliate informazioni su tutti i paesi e i popoli incontrati. Le spedizioni aumentarono le conoscenze geografiche della Cina, ne rafforzarono i commerci e le correnti migratorie, ma anche il prestigio internazionale dell’Impero del Mezzo. Molti paesi accettarono, all’arrivo delle navi, di proclamarsi vassalli della Cina e di pagare dei tributi, offrendo così il pegno di questo patto. Si può dire che l’insieme dei viaggi rappresentasse anche una esibizione di forza, anche se Zheng He tendeva a privilegiare la diplomazia e i rapporti amichevoli, pur non disdegnando, in alcuni casi, il ricorso al conflitto aperto. In più di un caso dovette combattere contro pirati agguerriti o contro sovrani che non accettavano di riconoscere il proprio vassallaggio nei confronti dell’Imperatore cinese. Chi si opponeva con le armi veniva combattuto e poteva essere arrestato e portato in Cina; e qui, a seconda dei casi, essere giustiziato o graziato. Zheng He morì nel corso dell’ultimo viaggio e la sua scomparsa assunse il valore di un simbolo della fine della più grande esperienza marittima della storia della Cina. Il nuovo Imperatore salito nel frattempo al trono decise la fine dei viaggi. Probabilmente, questo coincise con la sconfitta di un nascente ceto mercantile e il ritorno al potere dei mandarini-burocrati legati al nuovo imperatore. Quel che è certo è che le grandi navi cinesi abbandonarono l’Oceano Indiano pochi decenni prima che vi arrivassero i primi portoghesi, avanguardie del colonialismo europeo. Il radicalismo del nuovo Imperatore nell’avversare i viaggi fu tale, a quanto pare, che non solo essi vennero sospesi, ma le navi in buona parte distrutte, e distrutti anche, con esse, i piani e i disegni necessari a costruirle, per lo meno quelle capaci di sfidare l’Oceano. La Cina non ebbe più, praticamente, una flotta degna di questo nome fino a tempi recentissimi: possiamo dire fino ai nostri giorni, che vedono una rinascita di aggressività cinese sui mari e di ambizioni espansioniste. Per molto tempo, di Zheng He e dei suoi viaggi si perse quasi la memoria, salvata in parte da testimonianze archeologiche. Oggi però è tornato ad essere uno dei grandi eroi del neo-nazionalismo cinese. Qualche anno fa il problema Zheng He è stato riaperto da uno storico dilettante australiano, Gavin Menzies (era, prima della pensione, un ufficiale, comandante di sommergibili, nella marina britannica). Menzies ha scritto prima un libro, 1421: The Year China Discovered America (William Morrow, 2002), nel quale sostiene che una delle spedizioni di Zheng He arrivò in America molto prima di Colombo, e che anzi quest’ultimo poté utilizzare una mappa e un insieme di conoscenze che gli venivano per l’appunto dalle esperienze dei navigatori cinesi. E ancora, che questi ultimi avrebbero scoperto anche l’Australia, l’Antartide e il Passaggio a Nord-est. In seguito, nel 2008, Menzies ha ulteriormente ampliato le sue ambizioni in un nuovo libro: 1434: The Year A Magnificent Chinese Fleet Sailed to Italy and Ignited The Renaissance (Harper). Ed ecco la tesi sostenuta in questo libro sulle basi di un’ampia (anche se discutibile) documentazione, ma soprattutto di molta immaginazione nel creare congetture e ipotesi non dimostrabili. Menzies sostiene che alcune navi di una delle flotte, arrivate nel Mar Rosso, attraverso una rete di fiumi e canali che diventavano navigabili nei mesi delle grandi inondazioni del Nilo, siano riuscite a passare nel Mediterraneo e poi nell’Adriatico. Che un’ambasceria cinese sia arrivata a Venezia e da qui sia passata a Firenze, incontrandovi il Papa Eugenio IV, che si trovava a Firenze per il Concilio. Nel tentativo di dimostrare questa tesi Menzies si serve di ogni tipo di supposte prove. Ci sarebbero, per esempio, tracce genetiche che unirebbero l’estremo Oriente alle popolazioni di Hvar, un’isola lungo le coste della Dalmazia, dove le navi – così lui ritiene- attraccarono; e la stessa cosa si potrebbe dire di alcune tracce linguistiche cinesi e vietnamite nei dialetti locali. Buona parte delle testimonianze addotte in proprio favore da Menzies vengono dalla storia dell’arte. Egli insiste molto sulla presenza di un personaggio dalle caratteristiche mongole nel dipinto veronese di Pisanello che abbiamo già ricordato, nonché di personaggi e scene mongole e cinesi in disegni dello stesso Pisanello che si trovano al Louvre. Ma Menzies si affida anche, come già nel libro precedente, alla storia della cartografia, e a citazioni di personaggi come Paolo Toscanelli e Niccolò de’ Conti. Quest’ultimo, viaggiatore veneziano, vide a Sumatra le navi di Zheng He. Quanto a Paolo Toscanelli, matematico e cartografo fiorentino, aveva scritto nel 1474 una lettera, ben nota e molto discussa, al confessore di Alfonso V del Portogallo, nella quale ricordava l’arrivo di un ambasciatore del Gran Khan, e di aver avuto un colloquio con lui (che gli avrebbe permesso di disegnare una carta nautica con particolari sconosciuti in Occidente, poi arrivata nelle mani di Colombo, ma oggi perduta). Ma non basta. Le macchine disegnate da Leonardo, le risaie e i canali lombardi, la lavorazione della seta, le ceramiche e tante altre cose ancora, porterebbero tutte delle tracce evidenti di un’influenza cinese, arrivate per lo più sulle navi di Zheng He. E insomma, gli italiani, e gli europei in genere, non avrebbero “scoperto” nulla, né l’America né il Rinascimento: avrebbero fatto tutto i cinesi. Comprensibilmente, gli storici non hanno preso molto sul serio il loro aspirante collega australiano, che deve essere stato però consolato dalle vendite. Gli stessi storici cinesi odierni sembrano anch’essi piuttosto scettici sulle tesi di Menzies. Il quale, del resto, non è rimasto inattivo e prepara nuove sorprese. In realtà, su molte delle questioni poste da Menzies (la carta di Toscanelli, i cinesi in America, il mongolo di Pisanello e così via) si è sempre saputo e sempre discusso. Semplicemente, per ogni questione, Menzies scarta le spiegazioni precedenti e sceglie quella che conforta la sua tesi generale. Non occorre, per esempio, scomodare i viaggi di Zheng He per trovare possibili modelli a Pisanello. A parte la circolazione di dipinti orientali, non c’è dubbio che personaggi esotici di varia origine siano comparsi in Italia in almeno due occasioni. Una è il Concilio iniziato a Basilea nel 1431, continuato a Ferrara nel 1438 (quando Pisanello era in quella città) e passato infine a Firenze tra il 1439 e il 1445. L’altro è l’arrivo di molti personaggi illustri che abbandonavano Costantinopoli nel 1453 dopo la sua conquista da parte dei Turchi. Importanti eventi storici cui bisogna però aggiungere la presenza documentata in città italiane di servi orientali e il passaggio di uomini di scorta di missioni diplomatiche. (Chi volesse controllare una bibliografia ragionata sul rapporto tra pittura cinese e arte italiana, ma soprattutto senese, dei secoli XIII- XIV, può trovarla nelle dispense di un corso tenuto da Etiemble alla Sorbona nel 1956-57, L’Orient philosophique au XVIII siècle, 1, Généralités, définitions). Ma restiamo ancora un momento su un esempio. Gli storici non hanno mai recisamente negato la possibilità che navi cinesi, non necessariamente quelle di Zheng He, siano arrivate in America, anche se non ne abbiamo vere e proprie prove. Ma…e poi? Ammesso pure che sia loro attribuibile questa “scoperta”, che cosa se ne sono poi fatta i cinesi, se due secoli dopo Matteo Ricci doveva ancora raccontare loro un’America ormai entrata nel mondo degli europei, mentre nessuna traccia ne era rimasta nella memoria dei suoi pur colti interlocutori cinesi? Eppure la Cina ha avuto già da tempi antichissimi una storiografia assai sviluppata e dettagliata. Ci sarebbero molte cose da dire sulle tecniche e i metodi usati da Menzies nella ricerca come nella scrittura dei suoi libri: tecniche e metodi che difficilmente otterrebbero l’approvazione della maggioranza degli storici professionali. Menzies racconta la sua ricerca con la tecnica dell’inchiesta giornalistica, alla ricerca dello scoop, non senza abilità nel tener desta l’attesa del lettore. Non a caso i suoi libri, progettati per essere dei best-seller, lo sono puntualmente diventati. Dotato evidentemente di forti mezzi economici, Menzies ha potuto utilizzare il lavoro di numerosi consulenti e collaboratori, a cominciare da sua moglie, assieme alla quale ha visitato praticamente tutti i luoghi interessati alla vicenda narrata. E qui, quando racconta le emozioni provate dalla coppia davanti a un palazzo sulle rive del Canal Grande a Venezia, o a paesaggi “idillici” incontrati qua e là, fa spesso ricorso alle possibili variazioni di frasi come: “Quando passarono di qui gli ufficiali di Zheng He dovettero provare le nostre stesse emozioni!”. Il tentativo, anche qui, è quello di suggestionare il lettore, facendogli credere reali i fatti raccontati (anche sulla base di un uso spregiudicato delle emozioni). Di dare per dimostrata quella che resta invece una semplice ipotesi. Non si può negare che il libro contenga suggestioni interessanti. Né si può dire a priori che in ogni sua pagina si trovino solo invenzioni, anche se l’atmosfera ricorda quella di romanzi come il Codice da Vinci. Tuttavia, il minimo che si può dire è che le tesi di Menzies richiedano molte altre ricerche e verifiche. E, perché no, anche un abbassamento delle ambizioni. Possiamo forse fare a meno di escludere che dei cinesi importanti siano venuti a Firenze nel 1434 (ma come mai nessuno se n’è accorto, in un ambiente così curioso? Nemmeno gli storici, non meno curiosi?); più difficile è pensare davvero che il Rinascimento sia in qualche modo opera dei cinesi, o comunque il prodotto del loro influsso. E per quanto riguarda la storia che abbiamo cercato di ricostruire qui, meglio continuare a tenere Menzies fra parentesi, con tanti auguri per le future ricerche sue e altrui.  

I Gesuiti in Cina

Se il Duecento era stato il secolo dei francescani in Cina, il periodo compreso fra la seconda metà del Cinquecento e buona parte del Seicento è dominato invece dall’attività dei gesuiti. Il primo di essi ad arrivare nell’Asia orientale fu Francesco Saverio, spagnolo, uno dei compagni di Ignazio di Loyola nella fondazione dell’Ordine. Francesco Saverio partì da Lisbona nel 1541 e arrivò a Goa, in India, l’anno dopo. In seguito raggiunse le Filippine e Malacca, forse anche Taiwan. A partire dal 1549, predicò con successo in Giappone, ottenendo a quanto pare 2000 conversioni. Non riuscì invece a realizzare il suo sogno cinese. Riteneva che solo una solida presenza in Cina avrebbe potuto garantire la diffusione del cattolicesimo in tutta l’Asia. Ma si ammalò e morì nel 1552 alle porte della Cina, su un’isoletta a pochi kilometri da Macao. Poco più di un cinquantennio dopo, la stessa sorte toccò ad Alessandro Valignano, che morì a Macao nel 1606 dopo aver a lungo operato in Giappone, affidando invece ad altri confratelli la missione cinese. Fra i primi gesuiti ad entrare in Cina fu Michele Ruggieri nel 1579. Fu lui a chiedere che Matteo Ricci fosse incaricato di cooperare con lui, sicché Ricci lo raggiunse tre anni dopo. Ebbe inizio con loro una lunga e importante presenza dell’ordine, ricca di successi. Anche nella missione dei gesuiti, come già in quelle dei francescani di alcuni secoli prima, ci fu una nutrita presenza di italiani. Ma accanto ad essi, in posizioni e con compiti altrettanto rilevanti, ci furono gesuiti tedeschi, come Adam Schall, fiamminghi come Ferdinand Verbiest, francesi come Nicolas Trigault. Ciò che li accomunava, malgrado alcune differenziazioni personali, era una forte disponibilità a cercare e mettere in evidenza ciò che poteva unire e assimilare la religiosità cinese a quella europea e cattolica. In realtà, Matteo Ricci cominciò con un errore. Si era convinto che la religione più importante dei cinesi fosse il buddismo e si vestì da monaco buddista per essere simile a loro. In seguito, si rese conto che la società cinese, e soprattutto il ceto degli intellettuali (quelli che gli europei chiamavano “mandarini”), erano impregnati della cultura confuciana. Ricci e altri gesuiti sono rappresentati in molti ritratti nell’abbigliamento tipico dei mandarini. I gesuiti erano convinti, fin dalla nascita dell’ordine in Europa, dell’importanza di conquistare i cuori e le anime della classe dirigente. Volsero quindi le proprie attenzioni alle corti principesche e fondarono scuole di élite per i figli della classe dominante, nell’intento di partire da questo per penetrare poi nella società in generale. In qualche caso, per esempio nelle missioni del Paraguay, si comportarono in tutt’altro modo, assumendo su di sé la difesa degli indios oppressi e elaborando idee che in alcuni casi precorrono la Teologia della liberazione di anni vicini a noi. In Cina, invece, importarono lo stesso comportamento che tenevano in Europa. Tanto più che lo stesso confucianesimo, più che una religione come noi la intendiamo, apparve loro come un’etica e una filosofia civile, rivolta più agli intellettuali che alla gente comune, e non priva di somiglianze con la concezione pedagogica dei gesuiti. Per entrare nelle grazie della classe dirigente, dei mandarini, dello stesso imperatore, i gesuiti fecero ricorso all’ottima formazione culturale ricevuta nei collegi, soprattutto nel più prestigioso di essi, il Collegio Romano. Questo permise loro di improvvisarsi scienziati, inventori, astronomi ed esperti di calendari, matematici, persino costruttori di cannoni. E soprattutto, cercarono di apparire, anche esteriormente, più cinesi dei cinesi. Di questi ultimi studiarono i grandi classici, i riti ufficiali, ma anche quelli popolari. Si convinsero, e sostennero con grande decisione nelle discussioni con Roma, che i riti dei cinesi fossero più dei riti civili che l’espressione di credenze religiose; e che come tali (proprio perché civili e non religiosi) potessero essere praticati anche da eventuali convertiti senza che cristianesimo e religione dei cinesi venissero in conflitto. Ma c’è di più. Se i cristiani adoravano Dio e i cinesi Tian, e cioè il Cielo, perché non pensare che si trattasse, in entrambi i casi, della stessa divinità suprema? Certo, l’ortodossia cattolica poteva apparire a rischio. Ma in compenso, la disponibilità dell’animo, l’apertura al diverso e all’incontro potevano garantire, più di ogni altro atteggiamento, un’analoga apertura dalla controparte e grandi possibilità per la diffusione delle idee cristiane in un mondo così lontano e per tanto tempo sconosciuto. Nelle parole di un sinologo gesuita, Valignano voleva “che in tutto quello che è compatibile col domma e con la morale evangelica, i missionari si facessero indiani in India, cinesi in Cina, giapponesi in Giappone. Così per il cibo, per le vesti, per i costumi sociali, insomma per tutto quello che non è peccato». Ma i successi ottenuti in Cina dai gesuiti non incontravano del tutto il consenso della Chiesa e neppure quello di molti sovrani e ministri europei. Francescani e domenicani, presenti anch’essi in Cina, erano sempre più critici nei confronti di quella che a loro appariva come una spregiudicatezza eccessiva dei gesuiti. Si aprì un dibattito su quella che venne chiamata “questione dei riti cinesi”. Un dibattito che si fece sempre più duro e violento fino a diventare scontro aperto. A partire dal 1645 i gesuiti furono oggetto di una lunga serie di condanne, fino alla soppressione dell’ordine, da parte di Clemente XIV, con il breve Dominus ac Redemptor, del 1773. Si dovettero aspettare più di quarant’anni per la ricostituzione della Compagnia, ad opera di Pio VII, nel 1814. La storia dei gesuiti in Cina interessa per vari aspetti quella dei rapporti tra Cina ed Europa. Nel lungo periodo della loro presenza cinese, i gesuiti furono il principale tramite per il passaggio delle reciproche conoscenze fra gli uni e gli altri. Per tutto il Settecento, e anche oltre, tutto ciò che gli intellettuali europei, e in particolare gli illuministi, sapevano della Cina, veniva dai gesuiti e cioè dalle loro opere e dalle loro narrazioni orali. Questo valeva per le informazioni esatte come per le fantasticherie e per i miti di cui le conoscenze sulla Cina furono il fondamento. Per converso, anche i cinesi appresero dagli europei, ma soprattutto dai gesuiti, molte cose sull’Europa. La Cina era oggetto delle curiosità (ma anche delle ambizioni a commerciare e a diventare ricchi), e meta di viaggi, molto di più di quanto lo fosse l’Europa per i cinesi. In buona sostanza, i cinesi che arrivarono in Europa fra Sei e Settecento furono pochi, o quanto meno in pochi ci sono noti perché qualcuno li ha studiati. Possiamo dire, comunque, che quelli che tornarono a casa in Cina raccontarono molte cose di ciò che avevano visto, ma assai di rado scrissero memorie e descrizioni sistematiche come facevano molto spesso i gesuiti e gli europei in genere (o come aveva fatto, molto tempo prima, Rabban Sauma). E quasi sempre, per quanto se ne sa, i cinesi che arrivavano in Europa lo facevano accompagnando dei padri gesuiti nella veste di collaboratori. Uno dei primi cinesi fu un convertito, Michele Shen (Shen Fudong), che partì per l’Europa nel 1685 accompagnando un gesuita fiammingo, Philippe Couplet, che sarebbe divenuto noto per aver tradotto, insieme ad altri due Padri, per la prima volta, Confucio in latino, introducendolo così nella cultura europea. Il viaggio di Michele Shen e dello stesso Couplet sarebbe stato ricordato anche per un curioso particolare: aver riportato in Europa dopo quattro secoli la cosiddetta Bibbia di Marco Polo. Questo codice miniato francese di piccole dimensioni (era detto una “Bibbia da mano”: una specie di tascabile, insomma) fu portato nella Cina dei Khan mongoli nel XIII secolo e venne poi acquistato e conservato da qualche illustre famiglia cinese. Matteo Ricci, tre secoli dopo, lo vide, ne apprezzò la bellezza e ne attribuì a Marco Polo la proprietà originaria: la qual cosa è ritenuta tutt’altro che certa, mentre è più probabile che l’abbia avuto fra le mani qualcuno dei molti francescani che arrivarono in Cina nel Trecento. Michele Shen visitò l’Italia, la Francia e l’Inghilterra. Incontrò due re, Luigi XIV e Giacomo II. A Firenze fece dono della Bibbia di Marco Polo a Cosimo III dei Medici, il quale la trasmise alla Biblioteca Laurenziana perché la conservasse (la si può vedere lì ancora oggi). Morì durante il viaggio di ritorno in patria. Un altro convertito fu Luigi Fan (Fan Shouyi, 1682-1753). In Cina, era allievo di un gesuita, il P. Provana, il quale, agli inizi del Settecento, lo portò con sé in Italia. Con l’occasione, l’Imperatore Kangxi lo incaricò di una missione presso il Papa. Arrivato in Italia, Fan studiò a Torino e a Roma, imparò il latino, divenne sacerdote e nel 1709 entrò nella Società di Gesù. Fu ricevuto in udienza per due volte dal Papa. Nel 1720, mentre tornava in Cina insieme al P. Provana, quest’ultimo morì durante il viaggio, ma Fan, che gli era molto affezionato, riuscì ad impedire che fosse sepolto in mare e ne trasportò la salma in Cina. Arrivato a Canton, fu ascoltato dai funzionari locali e poi scortato fino alla capitale dove incontrò personalmente Kangxi al quale riferì le sue osservazioni sulla geografia e i costumi degli europei, che mise poi anche per iscritto. Altri due cinesi, anch’essi convertiti, Arcadio Huang e Giovanni Hu, sono stati entrambi studiati da uno storico britannico esperto della Cina, Jonathan Spence, che a Hu ha dedicato un intero libro. Nel 1721, quando era sulla quarantina, Giovanni Hu (Hu Ruowang) era il custode dell’entrata della Congregazione di Propaganda Fide a Canton. Era una persona che aveva compiuto degli studi, ma non certo al livello degli intellettuali-burocrati colti (i mandarini). Ciò nonostante il padre Fouquet, avendo bisogno (e anche in fretta) di trovare qualcuno che partisse con lui e lo aiutasse in Francia a tradurre i classici cinesi, si rivolse a Hu, che fu ben lieto di accettare l’offerta. Ma arrivato in Francia, Hu visse assai male l’incontro con un paese che non conosceva e del quale non parlava per nulla la lingua. Questo mondo diverso provocò in lui più volte reazioni violente, a volte esilaranti, altre drammatiche. Predicava in cinese, accompagnandosi con un tamburo, a passanti esterrefatti. Regalava i suoi vestiti nuovi a dei mendicanti, esplodeva in improvvisi atti di adorazione religiosa nelle chiese. Si sentiva abbandonato e tradito dal padre gesuita cui si era affidato, ma al quale, tuttavia, non aveva fornito alcuna delle prestazioni pattuite. Finì nel manicomio di Charenton, dove passò buona parte del suo soggiorno in Europa, fino al momento di tornare in Cina e alla sua famiglia. Una triste storia, dunque, quella di Hu, ma ancora più triste quella di Arcadio Huang (Huang Jialue), che viene ricordato come il più noto e interessante tra i cinesi arrivati allora in Europa. Nato da una famiglia di convertiti del Fujian, ebbe una buona educazione, sotto la guida di missionari (nel suo caso, non solo gesuiti). Viaggiò a lungo nella Cina meridionale. Partì per l’Europa nel 1702 su una nave britannica che impiegò otto mesi per il viaggio fino a Londra. Aveva allora ventitré anni. Visse a Londra, a Parigi e a Roma. Aveva promesso alla sua famiglia, per ragioni eminentemente economiche, di farsi prete; ma quando fu accompagnato a Roma a vedere il Papa cambiò idea e scelse lo stato laicale. A Parigi sposò una ragazza francese con la quale visse a lungo in miseria in una stanza d’affitto. Solo dopo alcuni anni poté ottenere un po’ di benessere, grazie al posto di interprete di cinese della biblioteca del re. Sua moglie ebbe una bambina. Ma la felicità durò poco. In breve tempo, uno dopo l’altro morirono tutti e tre di malattia, Arcadio all’età di trentasette anni, per ultima la bambina. Anche Arcadio Huang ebbe le sue difficoltà (e anche le sue stranezze, sia pure meno vistose di quelle di Hu) nell’incontro con una cultura così diversa da quella in cui era nato. Ma pur nella sua breve e triste vita, ebbe anche delle soddisfazioni. Era uno studioso appassionato, che desiderava molto far conoscere la cultura del suo Paese. Collaborando con un gesuita, scrisse il primo vocabolario cinese-francese, ma aveva anche in animo di scrivere un’opera complessiva sui costumi, la geografia e la storia della Cina, che però non riuscì a portare a termine. Ebbe amici alcuni letterati francesi, primo fra tutti Montesquieu. Il quale ebbe con lui numerose conversazioni nelle quali ascoltava, curioso e attento, la descrizione della cultura e delle istituzioni cinesi. Spence ritiene che queste conversazioni abbiano esercitato su Montesquieu un influsso importante nell’indurlo a scrivere le Lettere persiane.  

Dopo i Gesuiti

Come si vede, le missioni gesuitiche svolsero un ruolo importante nello stabilire contatti più stretti fra Cina ed Europa. I casi di cui qui si è parlato sono solo i più famosi tra quelli che si verificarono in quel periodo: si ritiene che una cinquantina di cinesi siano venuti in Europa tra il secolo XVI e il XVIII, sotto la protezione dei gesuiti.  In seguito, con il tramonto delle missioni e la stessa soppressione dell’ordine, si verificarono una chiusura e un nuovo rallentamento dei rapporti. Qualunque giudizio si voglia dare della questione dei riti cinesi e più in generale della vicenda che coinvolse i gesuiti, non si può negare che i loro successi in termini di conversioni e di espansione anche culturale, ne uscirono vanificati. Quando il cristianesimo si riaffacciò oltre le soglie dell’Impero cinese, e cioè fra Otto e Novecento, questo avvenne in una situazione del tutto nuova. Innanzitutto, a fare proselitismo non furono più solo, né tanto i cattolici, quanto metodisti, battisti, e missionari di altre chiese protestanti, in prevalenza provenienti dai paesi anglosassoni. In secondo luogo, i nuovi missionari arrivavano molto spesso sulle stesse navi che portavano le armi e gli armati del colonialismo europeo (quando non l’oppio, pur condannato dai missionari), la qual cosa non poteva non produrre effetti negativi sulla popolazione cinese. Accentuati, questi effetti, da persecuzioni volute e messe in atto sia dall’Impero nei suoi ultimi decenni di vita, sia, in seguito, e ancora oggi, dal regime comunista. Pochi paesi, infatti, come la Cina, possono esemplificare la continuità (al di là dei mutamenti di regime), per quanto riguarda il rapporto sovrano-sudditi (qui non ci sono cittadini), la democrazia, i diritti umani e, tra questi, la libertà religiosa. Ciò nonostante, ci sono oggi in Cina molti milioni di cristiani. Non si può sapere quanti, perché il regime occulta i dati e perché molte attività religiose si svolgono in semi-clandestinità (anche se questa situazione, come vedremo, è in mutamento). Accade così che le valutazioni si muovano, paradossalmente, dai 23 ai 100 milioni, con una prevalenza di protestanti. I cattolici sarebbero all’incirca 12 milioni, secondo alcuni equamente divisi fra i fedeli legati a Roma e costretti a una semi-clandestinità e quelli che hanno accettato il controllo dello Stato (secondo altri prevarrebbero invece i fedeli di osservanza romana). Il governo cinese esercita questo controllo attraverso una “associazione patriottica”. Impone questo tipo di associazioni a lui legate a tutte le religioni, ivi compresi l’islam praticato dagli Uiguri dello Xinjiang e da altre popolazioni, come quella degli hui e anche a religioni presenti in Cina da molti secoli come il buddismo. L’esempio più significativo, come è a tutti noto, è quello del Tibet e del suo buddismo lamaista, perseguitati dai primi anni Cinquanta, sottoposti a una violenta deculturazione, anche attraverso un arrivo massiccio di cinesi han, che hanno ampiamente superato la quantità di abitanti originari del Tibet. Il governo cinese interruppe ogni relazione con il Vaticano nel 1951, due anni dopo la nascita della Repubblica Popolare. Nel 1957 costituì l’”Associazione cattolica patriottica”, obbligando i cattolici cinesi a farne parte, e quindi a subire il controllo del governo, a seguirne le direttive (e per converso a rompere i rapporti con Roma) ad accettare che le ordinazioni di preti e vescovi venissero decise o comunque approvate dalle autorità politiche cinesi e non dalla Chiesa romana. Dopo di allora i cattolici cinesi dovettero dividersi. Quelli che accettarono il controllo governativo (i cattolici “ufficiali”) poterono svolgere le loro attività religiose in maniera relativamente tranquilla. Quelli rimasti fedeli a Roma, invece, vennero variamente perseguitati, dovendo sottostare a divieti, ma anche essendo sottoposti a violenze e arresti (numerosi vescovi sono stati in carcere per molti anni). Le ragioni di questo atteggiamento del regime sono più d’una. La prima è che le religioni dei cinesi non conoscono la problematica, presente soprattutto nelle religioni monoteistiche, del rapporto (e della distinzione) tra politica e religione, spirituale e temporale. Questo vale soprattutto per il confucianesimo, che non è tanto una religione nel modo in cui noi interpretiamo abitualmente questo termine, ma piuttosto una pedagogia e un’etica del giusto comportamento. I sacrifici, le cerimonie pubbliche, il culto degli antenati hanno piuttosto a che vedere con un insieme di riti civili e sociali che non con un rapporto diretto, fatto di adorazione, di preghiera, di pratiche ascetiche, fra i fedeli e il sacro (quasi assente nel confucianesimo, questo secondo atteggiamento è semmai presente, in forme diverse, in altre religioni, come taoismo e buddismo). Un’altra ragione si può rinvenire nel carattere “totalitario” che lo stato cinese ha sempre inteso dare alla società da esso controllata, impedendo ogni sua manifestazione di autonomia e indipendenza in qualsiasi campo, da quello delle idee a quello dei costumi e delle regole che definiscono la vita quotidiana. Questo carattere del rapporto fra stato e società si è particolarmente sviluppato all’interno del regime comunista (non a caso termini e concetti come “totalitarismo”, “totalitario”, ecc. si sono diffusi in tutto il mondo soprattutto con la nascita e lo sviluppo di regimi politici, per l’appunto, “totalitari”, come lo stalinismo nell’URSS, il maoismo in Cina, il nazismo in Germania; il caso del fascismo è tuttora più discusso). Tuttavia, quanto meno nei casi dell’impero russo e di quello cinese, si è sostenuto (e si sostiene) da molti che i totalitarismi marxisti-leninisti moderni abbiano trovato radici molto solide nei loro antenati e precursori tradizionali. In regimi di questo tipo, sia prima, sia (soprattutto) dopo una rivoluzione, il potere centrale, regolatore di ogni aspetto della vita dei sudditi, non poteva sopportare che forme di dissenso si sviluppassero nella società fino a organizzarsi in gruppi e associazioni autonome. Si vedeva in essi, quando raramente si formavano (la qual cosa poteva eccezionalmente verificarsi, e talora con relativo successo) una sfida aperta al potere e alla sua capacità di controllo. Da qui il desiderio, per non dire il forte impulso, a riprendersi anche con la forza un controllo su anime e corpi che si riteneva usurpato. Questo non valeva (tuttora non vale) solo per gruppi e associazioni autonome dissenzienti dal potere: vale anche per tutte le religioni, ivi comprese forme di religiosità popolare (come il Falun Gong, pratica di meditazione e di esercizi spirituali, più o meno discendente dal buddismo, che ebbe una notevole diffusione negli anni novanta dello scorso secolo, ma venne duramente perseguitato dal regime). Ancora di recente, l’attuale Presidente, Xi Jinping, ha detto che “le religioni devono adattarsi alla società socialista” e subire, se provenienti da una cultura straniera, un processo di “sinizzazione”. Questo ha comportato una nuova stretta nei confronti di un po’ tutte le religioni a partire dal 2016. Per esempio, c’è stata un’intensificazione della persecuzione dei musulmani Uiguri, con il pretesto che anche fra di loro si stessero formando, come in altri Paesi dell’Asia centrale, gruppi terroristici o comunque fautori di autonomia o indipendenza. Molti osservatori ritengono che un numero assai elevato (si parla di un milione) di Uiguri siano detenuti in campi di “rieducazione”. Tutto questo aiuta a capire come la vita del cattolicesimo cinese (meglio: di quella parte di esso che non si assoggetta al potere politico) si sia identificata per un lungo periodo con persecuzioni, violenze, arresti e lunghe detenzioni di vescovi, sacerdoti e semplici credenti, persino più casi di rimozioni di croci all’esterno delle chiese, accusate di deturpare lo skyline delle nuove metropoli. Di tanto in tanto, per lo più in corrispondenza con momenti di liberalizzazione politica, il controllo occhiuto delle polizie si attenua temporaneamente. Ma è soltanto negli ultimi anni, con i pontefici più recenti, e in particolare con Francesco, che si è avuta l’impressione di un intensificarsi degli sforzi diplomatici per ottenere, quanto meno nelle forme di un compromesso, una parziale pacificazione tra Vaticano e governo cinese, accettabile sia dai cattolici “ufficiali” come da quelli “clandestini”. Inoltre, la Santa Sede ha cercato in vari modi di favorire il miglioramento dei rapporti tra le due Chiese. La divergenza principale, e quindi l’ostacolo principale a una soluzione diplomatica del conflitto, riguarda il problema delle nomine delle gerarchie ecclesiastiche. Si tratta cioè di vedere se la nomina di un vescovo, per fare un esempio, debba essere decisa dallo stato attraverso le sue istituzioni addette al controllo delle religioni (come le “associazioni patriottiche”), e tutt’al più approvate con un atto formale dal Vaticano. O, viceversa, se la Chiesa debba insistere sul suo diritto bimillenario (peraltro più volte contestato dalle autorità politiche nel corso dei secoli) a scegliere, nominare e controllare i propri rappresentanti. (Per avere un’idea della situazione a metà del 2018, nella Chiesa “ufficiale” c’erano sette vescovi non riconosciuti da Roma, e quindi scomunicati; in quella “sotterranea” una quindicina di vescovi non riconosciuti da Pechino, mentre 54 vescovi erano stati approvati da entrambe le autorità). A complicare le cose c’è il fatto che il governo cinese, tradizionalmente geloso della propria indipendenza, ha sempre teso a considerare i diritti rivendicati dal Vaticano come le pretese di uno stato estero, tali da limitare, almeno potenzialmente, l’autonomia decisionale della Repubblica Popolare Cinese. Già questo fa capire come le ragioni politiche in generale, e più particolarmente quelle della politica estera e della geopolitica, si intreccino strettamente con quelle religiose e culturali. Occorre aver presente, per esempio, che per decenni la Chiesa cattolica è stata vista come un alleato, se non addirittura una parte integrante dell’Occidente, che i cinesi identificavano, in pratica, con gli Stati Uniti. Ma gli ultimi anni, e soprattutto quelli del papato di Francesco, hanno visto da un lato un’accentuazione delle caratteristiche universaliste del cattolicesimo, in corrispondenza con la riconosciuta crescente importanza delle comunità cattoliche di Paesi dell’Asia, dell’Africa e dell’America latina, che conoscono un tasso di crescita demografica decisamente superiore a quello dell’Europa. Dall’altro lato, oltre ad orientarsi sempre più verso questi Paesi destinati a divenire in tempi relativamente brevi gli Stati maggiormente popolati da cattolici, ha adottato forme di separazione maggiori e più chiare di quelle di un tempo fra politica e religione, fra Stato e Chiesa. Questo ha facilitato anche, come si può ben comprendere, un lento distacco dell’immagine della Chiesa (anche agli occhi dei cinesi) da quella degli Stati Uniti e dell’Occidente. Questa posizione di aumentata autonomia ha evidentemente favorito la trattativa fra il Vaticano e Pechino, che in alcuni momenti è sembrata avviarsi a una conclusione positiva. Ma le cose non sono mai così semplici. La vittoria, nel 2016, di Trump, la sua conquista della Presidenza degli Stati Uniti, e la svolta politica che ne è derivata, caratterizzata da una rinnovata aggressività di quel Paese, soprattutto verso la Cina, hanno provocato un rallentamento delle trattative, quanto meno da parte cinese. Il peggioramento dei rapporti fra le due maggiori potenze mondiali ha di nuovo indotto i sospettosi dirigenti cinesi (o almeno una parte di essi) a vedere con preoccupazione nei cattolici legati al Vaticano una potenziale “quinta colonna”. La discussione si è quindi riaperta. I cattolici “ufficiali”, legati al governo, sono nella larga maggioranza favorevoli a una soluzione positiva. Quelli “clandestini” (o “semi-clandestini”) sono anch’essi favorevoli in buon numero a una soluzione che chiuda con una storia di persecuzioni, difficoltà, sofferenze, spesso di martirii. È però comprensibile che in molti di essi ci sia il forte timore di vedere vanificati, per amore di quiete, il coraggio e la coerenza esercitati in passato. Molti temono, inoltre, che le già esigue e fragili schiere dei dissidenti cinesi, critici di un governo autoritario e illiberale, verrebbero ad essere ulteriormente indebolite da un patto con i cattolici che implicherebbe quasi certamente un’ aumentata prudenza dei cattolici stessi nell’esprimere le proprie opinioni politiche. Non è certo un caso che la personalità cattolica cinese più impegnata nell’opposizione all’accordo con il governo sia l’anziano cardinale e vescovo emerito di Hong Kong Zen Ze-kiun, figura di grande prestigio, attiva anche nella difesa dei diritti umani e dei diritti civili più in generale. È facile comprendere come una parte del mondo cattolico, in Cina come in altri Paesi, possa esprimere il timore di un cedimento a un regime che appare a molti politicamente inaffidabile, oltre che duramente autoritario: soprattutto da quando Xi Jin Ping ha concentrato nelle sue mani tutti i poteri, e ha modificato la Costituzione rendendo possibile una propria rielezione –basta che lo voglia- vita natural durante, come un Imperatore (nessuno dopo Mao Zedong, e forse neppure allora, aveva avuto tanto potere). Gli esponenti più radicali del cattolicesimo cinese non riconosciuto dal governo, che spesso si sono battuti al fianco dei dissidenti di altra ispirazione culturale per le libertà e la democrazia, temono per l’autonomia e la libertà d’azione della Chiesa, e in qualche caso si spingono fino a parlare apertamente di una svendita dei suoi antichi diritti. Se poi (rimanendo ancora in questo miscuglio di elementi religiosi e geopolitici) la Cina dovesse imporre, tra i prezzi di una conclusione favorevole della trattativa, l’abbandono da parte del Vaticano del riconoscimento diplomatico di Taiwan (che è ormai riconosciuta solo da17 Paesi), si creerebbe una ulteriore complicazione. Taiwan si sentirebbe abbandonata a se stessa e ormai minacciata gravemente da un’aggressione militare che i cinesi preparano vistosamente già da tempo. È difficile oggi prevedere se e quanto gli Stati Uniti sarebbero disposti a correre un rischio assai elevato per difendere ancora l’isola, soprattutto se a prendere una simile decisione dovesse essere Trump, con il suo alternare dure minacce a improvvise ritirate. In ogni caso, l’abbandono di Taiwan provocherebbe certamente ulteriori dissensi e critiche anche nel mondo cattolico, in particolar modo in quello statunitense, che ha già molti elementi di dura polemica nei confronti di Papa Francesco. E non solo: molti cittadini dell’Europa e del Nord America si sentirebbero colpiti dal “tradimento”, e dall’abbandono nelle mani di un governo autoritario e repressivo di uno Stato piccolo (22 milioni di abitanti) che ha però saputo darsi e difendere una struttura politica democratica, che ha meritato successi e prestigio in campo economico e culturale e che, per inciso, ha al suo interno una fetta non trascurabile, circa l’8%, di popolazione cattolica. In ogni caso, alla metà del 2018, malgrado un continuo andirivieni di notizie contraddittorie e anche di polemiche, si direbbe che, per la prima volta dopo la nascita della Repubblica Popolare Cinese (1949), la trattativa sia avviata, e che sia accompagnata, in Cina come al suo esterno, da un favore abbastanza generalizzato. Questo non può stupire se si tiene conto anche del numero di persone che sarebbero direttamente interessate a una forma di pacificazione. Malgrado la povertà e l’incertezza già ricordata dei dati statistici disponibili, sembra che il numero dei cristiani cinesi sia in aumento, anche se le valutazioni variano a seconda delle fonti (si è già accennato a questo problema), passando da una previsione di 165 milioni a una di 250 entro il 2030. Si pensa, in ogni caso, che per quell’anno la Cina possa essere il paese del mondo con più abitanti cristiani. Una curiosità emersa di recente tra le frequenti esercitazioni statistiche della stampa è quella secondo cui i cristiani sarebbero già oggi 100 milioni, e cioè già in un numero maggiore di quello degli iscritti al Partito comunista, 86 milioni: una notizia che, se vera, non farebbe certo piacere ai dirigenti del regime.  

Una parentesi: Cina e cattolici nel settembre del 2018

Questo aggiornamento dell’ultima ora era doveroso (e non del tutto fuori tema). Preceduto da alcune notizie piuttosto vaghe distillate negli ultimi anni (e anche negli ultimi giorni) dal Global Times, un quotidiano del Partito comunista cinese in lingua inglese, il 22 settembre 2018 un comunicato del Vaticano ha dato un annuncio importante. Due viceministri degli esteri, mons. Antoine Camilleri per il Vaticano e Wang Chao per la Cina, hanno firmato a Pechino un “accordo provvisorio sulla nomina dei vescovi”, il cui testo è rimasto segreto. Nelle ore e nei giorni successivi sono stati resi noti, in maniera ora ufficiale ora solo ufficiosa, alcuni dettagli. Innanzitutto, si è trattato di un accordo solo pastorale, non politico- diplomatico (benché la sua rilevanza anche politica non sia sfuggita agli osservatori più attenti). Non si è parlato di ristabilire normali relazioni diplomatiche, non si è parlato di Taiwan. Riguardo a quest’ultima, un segnale importante è stato dato dal giornale Taipei Times il 23 settembre (cioè il giorno dopo l’annuncio dell’accordo), con la notizia che il vicepresidente di Taiwan sarà presente il 14 ottobre a Roma alla canonizzazione di sei beati nati nell’isola. Ufficialmente, la nomina dei vescovi, come già si accennava, è l’unico tema dell’accordo, che si fonda su un compromesso non nuovo nella storia della Chiesa e dei suoi rapporti con alcuni governi. Con variazioni non sostanziali, ha già regolato in passato i rapporti della Santa Sede con alcuni stati, come il Portogallo, la Spagna e alcuni paesi sudamericani; con la Spagna, anche abbastanza di recente, sotto il regime di Franco. E qualcosa di simile, anche se più una procedura concordata di fatto che un accordo formalizzato ufficialmente, regola da tempo (lo ha ricordato Matteo Matzuzzi nel “Foglio”) i rapporti del Vaticano con il governo vietnamita a proposito della nomina dei vescovi. Il meccanismo previsto dall’accordo con la Cina si può riassumere molto semplicemente. Esso prevede che le varie diocesi operino una selezione dei candidati, che la lista scelta venga sottoposta al governo e che su di essa si pronunci successivamente la Santa Sede. È quindi quest’ultima, per quanto se ne sa fino ad oggi, a dire l’ultima parola (nel caso del Vietnam, è Roma a fornire dei nomi e il governo di Hanoi a scegliere). In assenza di un accordo tra le due autorità è previsto che si dia inizio a un nuovo percorso come quello ora delineato. Questo accordo è definito “provvisorio” perché prevede, molto pragmaticamente, che la sua applicazione sia oggetto di riesami periodici ad opera delle due parti. Una prima conseguenza dell’accordo (o, più precisamente forse, una sua condizione) è stata la decisione di papa Francesco di togliere la scomunica ai sette vescovi “ufficiali” ordinati senza il consenso di Roma, chiedendo loro, contemporaneamente, “di esprimere, mediante gesti concreti e visibili, la ritrovata unità con la Sede Apostolica e con le Chiese sparse nel mondo”. L’annuncio dell’accordo ha suscitato anche qualche voce polemica: una nuova presa di posizione del cardinale Zen, interventi di cattolici cinesi della Chiesa clandestina (spesso, e comprensibilmente, anziani vescovi provati da lunghe detenzioni), di gruppi di cattolici di vari paesi, tra cui gli Stati Uniti. Le argomentazioni dei critici, prevedibili, sono state quelle che già avevano animato le discussioni degli anni e dei mesi precedenti. In compenso, il papa ha ricevuto lettere solidali da vescovi di entrambe le Chiese. E, nell’insieme, l’aver concluso questa tappa importante è apparso ai più come un successo di Francesco, del suo realismo e della sua flessibilità, della sua capacità di adattarsi anche a soluzioni parziali dei problemi anziché ostinarsi a cercare a tutti i costi un difficile e spesso illusorio risultato definitivo. Qualcuno ha visto in questo il segno del metodo che caratterizza il suo pontificato, metodo da lui stesso esposto nella Evangelii gaudium. A detta di molti osservatori, di fonti vaticane e dello stesso papa (in un Messaggio ai cattolici cinesi e alla Chiesa universale, del 25 settembre), il carattere pastorale dell’accordo non implica che esso sia privo di significati più ampi, anche politici. C’è stato, innanzitutto, un riconoscimento reciproco tra due autorità, entrambe influenti a livello globale, e dei campi diversi in cui esse operano rispettivamente. Il cattolicesimo cinese (lo ha sottolineato Andrea Riccardi) ha visto a sua volta riconosciuta la propria dignità, ha potuto finalmente riunificarsi e uscire da una situazione a dir poco difficile, segnata per molti suoi fedeli dalle persecuzioni. In una nota della Santa Sede, che riassume alcuni passaggi del Messaggio, si legge: “È auspicio condiviso che tale intesa favorisca un fecondo e lungimirante percorso di dialogo istituzionale e contribuisca positivamente alla vita della Chiesa cattolica in Cina, al bene del Popolo cinese e alla pace nel mondo”. Un giudizio comune, che sia i media, sia le fonti ufficiali hanno espresso, è che si sia trattato dell’inizio di un processo, non della sua fine: un inizio che ha posto le basi di una migliore collaborazione bilaterale. Nel suo già ricordato Messaggio, Francesco non si è limitato a spiegare il senso dell’accordo e a ricordare che, sia pure in presenza di un dialogo tra le parti sulla nomina dei vescovi, “è il papa che nomina”. Ha reso omaggio alle sofferenze di chi non ha accettato compromessi in passato, ma ha anche sostenuto che occorre oggi “camminare insieme” e “ricostituire la piena e visibile unità nella Chiesa”. Ha invitato ad affrontare con serenità e fiducia le difficoltà della nuova situazione. Si intravvedono qui, per l’appunto, le incertezze sul futuro. Non a caso l’accordo insiste sulla propria provvisorietà, e il suo testo integrale non è stato pubblicato. Ciò non toglie che una tappa importante si sia conclusa favorevolmente, e c’è chi vede nel viaggio già programmato di papa Francesco in Giappone nel 2019 l’occasione del tanto desiderato passaggio in Cina. Troppo presto per avanzare previsioni su un terreno scivoloso. E tuttavia, qualcosa è successo, e non da poco. Come ha ricordato Gian Guido Vecchi nel “Corriere della Sera”, riprendendo un accenno del papa nel suo messaggio, fu un gesuita, Matteo Ricci, il protagonista di un grande capitolo della presenza cattolica in Cina: come escludere che quattro secoli dopo un altro gesuita, papa Francesco, lo sia del suo ritorno?  

Conclusione

Uscendo dall’ambito religioso, torniamo per un momento ai rapporti tra Cina e Occidente: non quelli politici o economici, tra Stati e grandi imprese, ma quelli tra persone, che ci hanno più interessato in questa sede. Dall’apertura, sia pure obbligata, dei porti dopo le guerre dell’oppio, fino ai decenni recenti del dopo-Mao, la Cina ha conosciuto di nuovo una serie di periodi di contatti più o meno fitti con il mondo occidentale. Chi voglia capire il positivo e il negativo, la contraddittorietà, ma anche la ricchezza e l’intensità dei rapporti fra cinesi e occidentali in un periodo pur drammatico come quello delle guerre dell’oppio, può rivolgersi a un romanziere. Uno dei maggiori scrittori indiani, Amitav Ghosh, ha concluso con Diluvio di fuoco, che tratta per l’appunto di ambienti, vicende, persone, amori e odi della Cina di quel tempo, una sua trilogia sul complicato rapporto fra asiatici ed europei nel XIX secolo. Venendo all’oggi, basti pensare a quante persone vanno a studiare in Cina da vari paesi occidentali e a quanti cinesi, per converso, vanno negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Francia, anche da noi. Cui si può aggiungere anche la circolazione di romanzi e film nelle due direzioni, sempre più favorita dalla globalizzazione. La quale comporta anche, per lo meno nella Cina costiera o comunque in quella delle grandi metropoli e delle regioni più ricche, una notevole trasformazione dei modi di vita, dei valori giovanili, del lavoro. Da una Cina già ricca e orgogliosa, poi impoverita e mortificata tra Otto e Novecento nel suo orgoglio, si è passati a quella di oggi, ancora una volta grande potenza economica e militare, capace di crescenti successi e nutrita da un nazionalismo aggressivo. C’è chi, sottolineando alcune somiglianze tra i meccanismi del colonialismo europeo ottocentesco e l’attuale espansionismo cinese, soprattutto (ma non solo) in Asia e in Africa, ha cominciato da qualche tempo a parlare di “imperialismo”: molti indizi sembrano confermarlo. Tra questi, il grande progetto politico-economico di Xi Jinping, la Belt and Road initiative, detta anche “le nuove vie della seta”: un insieme di infrastrutture (soprattutto strade, ferrovie, porti) destinate a collegare strettamente la Cina, per terra e per mare, con numerosi Paesi dell’Eurasia e dell’Africa, e fino all’Artico. Un progetto che coinvolgerebbe nell’espansione della Cina verso Ovest anche molti Stati europei. Nel breve excursus contenuto in queste pagine abbiamo visto come, assai probabilmente, proprio il suo orgoglio di Impero del Mezzo induceva i cinesi, per quanto ne sappiamo, a viaggiare di meno degli europei, a interrogarsi di meno sul resto del mondo, a scrivere e pubblicare un minor numero di relazioni, opere storiche, mappe su paesi lontani che tendevano spesso a considerare propri vassalli, tanto sicuri di sé da ritenere che non valesse neppure la pena di verificarlo troppo spesso. L’aspirante storico Gavin Menzies, per ora almeno, ci lascia del tutto scettici. I viaggi di Zheng He sono un grande episodio della storia universale, ma anche un episodio. E quanto a Rabban Sauma, fu certamente un personaggio straordinario e un antenato illustre dei viaggiatori e scrittori di viaggio di oggi. Però scriveva in siriaco, sicché i burocrati letterati quasi mai riuscirono a utilizzare le sue pagine. Tuttavia, già dall’inizio dell’Ottocento, viaggiatori cinesi visitavano paesi europei e li descrivevano poi ai loro connazionali in relazioni dettagliate e spesso criticamente appassionate. Soprattutto il periodo che si apre all’incirca nel 1820 fu quello della scoperta, o della riscoperta, della curiosità. Curiosità per le usanze (soprattutto quando apparivano strane ai giovani che arrivavano in Europa), per la vita quotidiana, il matrimonio, la maggiore libertà delle donne. Nei decenni successivi, quello che aumentò di più fu l’interesse per le fonti misteriose della potenza economica, e più ancora militare, europea. Si aprì il problema dell’imitazione: come apprendere i segreti della potenza e farli propri senza però perdere le caratteristiche essenziali della propria cultura. Questa però è un’altra storia. Noi ci siamo limitati a raccogliere qua e là degli indizi e a fare delle supposizioni. Il “primo cinese” non è saltato fuori. Come si poteva prevedere fin dall’inizio.  

Indicazioni bibliografiche

Non esiste un libro complessivo che tratti i diversi temi e momenti storici di cui si parla in questo articolo. Bisogna cercare le informazioni in vari libri di storia europea e cinese, di storia religiosa ed economica, di storia dei viaggi, ecc. Qui indicherò soltanto quelli di cui mi sono più servito. Comincerò da alcuni libri, molto diversi tra di loro, ma che hanno in comune l’essere dei classici o in ogni caso delle opere imprescindibili sugli argomenti trattati: H. Pirenne, Maometto e Carlomagno, Bari, Laterza (la prima ed. di questo libro è del 1937, la prima ed. italiana da Laterza del 1939; l’ed. più recente, nell’Universale Laterza, del 1969, contiene una prefazione di Ovidio Capitani e notizie bio-bibliografiche sull’autore); J. Baltrušaitis, Il Medioevo fantastico, Milano, Mondadori, 1979; L. Olschki, L’Asia di Marco Polo. Introduzione alla lettura e allo studio del Milione, Firenze, Sansoni, 1957; J. Gernet, Il mondo cinese. Dalle prime civiltà alla Repubblica popolare, Torino, Einaudi, 1978; J. Needham, Scienza e civiltà in Cina, 1, Lineamenti introduttivi, Torino, Einaudi, 1981 (ediz. origin. 1954); R. Schwab, La Renaissance Orientale, Paris, Payot, 1950; V.-V. Barthold, La découverte de l’Asie. Histoire de l’orientalisme en Europe et en Russie, Paris, Payot, 1947; P. Hopkirk, Diavoli stranieri sulla Via della Seta, Milano, Adelphi, 2006; J. Innes Miller, Roma e la Via delle Spezie, Torino, Einaudi, 1974; J.-P. Roux, L’Asie centrale. Histoire et civilisations, Paris, Fayard, 1997. Sulla Via della seta e sui viaggi in Oriente nel XIII secolo dei francescani e di Marco Polo: L. Boulnois, La via della seta, Milano, Rusconi, 1993; Xinru Liu-L. N. Shaffer, Le vie della seta, Bologna, il Mulino, 2009; H. Uhlig, La via della seta, Milano, Garzanti, 1991; J.-P. Roux, Gli esploratori nel Medioevo, Milano, Garzanti, 1990; A. t’Serstevens, a cura di, I precursori di Marco Polo, Milano, Garzanti, 1982 (un’antologia, preceduta da un’ampia introduzione, di testi di viaggiatori musulmani, di Giovanni di Pian del Carpine e di Guglielmo di Rubruck); N. Ohler, I viaggi nel Medio Evo, Milano, Garzanti, 1988; F. Cardini, Gerusalemme d’oro, di rame, di luce. Pellegrini, crociati, sognatori d’Oriente fra XI e XV sec., Milano, Il Saggiatore, 1991; il romanzo citato nel testo: W. Golding, L’inviato dell’Imperatore, Milano, De Carlo, 1983; M. De Benedictis-A. Lanza, L’avventura di Marco Polo, Roma, Editori Riuniti, 1982 (con bibl.); J.-P. Drège, Marco Polo e la via della seta, Milano, Universale Electa-Gallimard, 1992; AA.VV., La via della seta, a cura di E. Turri, Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1993; Viaggio lungo la via della seta, testi di J.-P. Drège, Milano, Touring Club Italiano, 1986; J. Myrdal-G.Kessle, The Silkroad. A Journey From The High Pamirs and Ili Through Sinkiang and Kansu, New York, Pantheon Books, 1979 (resoconto del viaggio di uno scrittore e una fotografa); A la rencontre de Sindbad. La route maritime de la soie, Paris, Musée de la Marine, 1994 (catalogo della mostra omonima, con ampia bibliografia). Due libri molto belli sui viaggi oceanici all’inizio dell’età moderna: L. Martínez, Passeggeri delle Indie. I viaggi transatlantici del XVI secolo, Genova, Marietti, 1988; D. Abulafia, La scoperta dell’umanità. Incontri atlantici nell’età di Colombo, Bologna, il Mulino, 2010. I due volumi di Gavin Menzies sono citati nel testo. A tutt’oggi (settembre 2018) mi risulta che solo il primo di essi sia stato tradotto in italiano: 1421. La Cina scopre l’America, Roma, Carocci, 2002. Una critica molto dura delle tesi contenute in questo primo libro (ma valida anche per il secondo) è quella contenuta in Falsi miti. Come si inventa quello in cui crediamo, di R. H. Fritze, Milano, Sironi, 2012. Molti autori hanno dedicato la loro attenzione agli effetti che ebbero sulla iconografia e sulla committenza (quindi, in molti casi, sulla pittura) gli arrivi in Italia di personalità dell’Impero d’Oriente in occasione del Concilio di Basilea, iniziato nel 1431 e trasferitosi in seguito a Ferrara, quindi a Firenze. Il Concilio doveva deliberare sull’unione tra la Chiesa cristiana d’Oriente e quella d’Occidente. Con l’occasione, arrivarono in Italia, fra gli altri, l’imperatore Giovanni VIII Paleologo e il cardinal Bessarione, accompagnati da un vasto seguito. Ne parla piuttosto ampiamente Carlo Ginzburg, in Indagini su Piero, Torino, Einaudi, 1981. Su Zheng He: Foccardi, Viaggiatori del Regno di Mezzo. I viaggi marittimi dei Cinesi dal III secolo a. C. alla fine del XIX secolo d. C., Torino, Einaudi, 1992; Michael Yamashita, Zheng He. Sulle tracce degli epici viaggi del più grande esploratore cinese, Vercelli, White Star, 2006 (un bel libro fotografico prodotto ripercorrendo su una barca, con un piccolo equipaggio, gli itinerari di Zheng He). Sui Gesuiti in Cina: M. Fontana, Matteo Ricci. Un gesuita alla corte dei Ming, Milano, Mondadori, 2005; R. Po-Chia Hsia, Un gesuita nella città proibita. Matteo Ricci, 1552-1610, Bologna, Il Mulino, 2012; J. Gernet, Cina e cristianesimo, Casale Monferrato, Marietti, 1984. Più in generale, sulla fondazione, i primi tempi della vita dell’Ordine e le sue principali caratteristiche: A. Prosperi, La vocazione. Storie di gesuiti tra Cinquecento e Seicento, Torino, Einaudi, 2016. Una buona divulgazione sulla storia dell’Ordine in generale, in C. Ferlan, I gesuiti, Bologna, il Mulino, 2015. Sui cinesi in Europa con i Gesuiti: D. Spence, L’enigma di Hu, Milano, Adelphi, 1988; J. D. Spence, Girotondo cinese, Roma, Fazi, 1997; cfr. anche André Chih, L’Occidente cristiano visto dai cinesi, Milano, Jaca Book, 1979. Vedi anche il breve scritto di A.Tamburello, Primi cinesi in Europa, http://www.agichina24.it/la-parola-allesperto/notizie/primi-cinesi-in-europabr- Resoconti di viaggi in Occidente di cinesi dell’Ottocento: André Lévy, Nouvelles lettres édifiantes et curieuses d’Extrême-Occident par des voyageurs lettrés chinois à la Belle Epoque, 1866-1906, Paris, Seghers, 1986 (l’autore si richiama esplicitamente a un’opera molto nota che uscì a Parigi in 34 volumi tra il 1702 e il 1776. Era costituita dalle relazioni regolarmente inviate dalle missioni gesuite in Cina, edite da vari curatori, il più famoso dei quali fu il padre Jean-Baptist Du Halde. Quest’opera, che si ritiene abbia originato la moderna sinologia, aveva per titolo Lettres édifiantes et curieuses…); L’oceano in un guscio d’ostrica. Viaggiatori cinesi alla scoperta dell’Europa, a cura di Maria Rita Masci, Roma-Napoli, Theoria, 1989. Sulla Cina contemporanea c’è, naturalmente, una bibliografia molto ampia. Qui citiamo solo un ottimo manuale: Marie-Claire Bergère, La Cina dal 1949 ai giorni nostri, Bologna, il Mulino, 2003 (nuova ed.). Dello stesso tema si è molto occupata anche la narrativa cinese. Per un esempio fra tanti: Yu Hua, La Cina in dieci parole, Milano, Feltrinelli, 2012 (ed. orig. 2010). Una delle migliori testimonianze sul dissenso cinese è l’antologia Monologhi dei giorni del giudizio, Milano, Mondadori, 2011, di Liu Xiaobo, premio Nobel per la pace nel 2010, condannato a 11 anni di carcere per aver chiesto riforme democratiche, morto in prigione nel 2017. Sulla persecuzione dei cristiani in Cina (e in altri Paesi) l’opera più documentata è quella di Andrea Riccardi, Il secolo del martirio. I cristiani nel Novecento, Milano, Mondadori, 2000.

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