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Filosofia

Cina, India, Africa. Un (altro) mondo di felicità

Attraverso l’analisi di filosofie come quelle del continente asiatico e africano, Beatrice Collina restituisce un’immagine del perseguimento della felicità fuori dall’occidente.

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Che cosa sia la felicità e come l’essere umano la possa raggiungere sono interrogativi da sempre al centro di riflessioni filosofiche, etiche e religiose. Il modo in cui il significato di felicità muta nel tempo e nello spazio fornisce importanti indizi sui principi che regolano la vita di una società e delle relazioni al suo interno. Nel corso dei secoli, non solo la filosofia occidentale ha sviluppato teorie della felicità, ma anche le altre tradizioni hanno esplorato questo aspetto così fondamentale della vita umana.

Virtù e ordine sociale: la felicità per Confucio

Tra le tradizioni più antiche e radicate nella storia dell’Asia, un ruolo di primo piano è ricoperto dal confucianesimo che prende il nome dal suo fondatore K’ung Fu-tzu, ovvero “maestro Kong”, vissuto in Cina tra il 551 a.C. - 479 a.C., e a noi noto come Confucio dalla traslitterazione latina che ne fecero i gesuiti nel XVII secolo. Il pensiero di Confucio giunge a noi attraverso i suoi Dialoghi (Lun-yu), che pur non rappresentando un’opera organica, restituiscono il sistema morale elaborato dal filosofo, un sistema che si proponeva non solo di tracciare una Via per l’individuo, ma di costituire le fondamenta di un saldo ordine sociale in un’epoca di cambiamenti e frammentarietà. Sebbene il confucianesimo abbia plasmato la cultura cinese, allargando la propria sfera di influenza anche ad altri paesi come il Giappone, Confucio non raccolse in vita i frutti del suo lavoro: solo a partire dalla dinastia Han (206 a.C. - 220 d.C.) il confucianesimo diventa parte integrante della formazione dei funzionari dell’impero.
Fonte di felicità e di gioia è per Confucio l’«amore per la Via», una regola di vita che si basa sull’esercizio di cinque virtù: umanità, gentilezza, giustizia, cultura e fedeltà. Per una vita felice, è necessario imparare a praticare umiltà ed equilibrio, rinnegando brama, dissolutezza e competitività. I piaceri di una vita felice consistono nel coltivare amicizie fedeli con esseri umani sinceri e leali, nel trovare i lati positivi nelle altre persone e nell’esercizio costante di riti e musica. L’accento sull’importanza della pratica rituale contraddistingue il pensiero confuciano: la virtù è qualcosa che va esercitata con costanza e i riti servono proprio a questo scopo. Il sistema morale di Confucio introduce così una corrispondenza tra virtù e felicità all’interno di un quadro sociale caratterizzato da una forte gerarchizzazione che ha inizio già nei rapporti familiari. La “pietà filiale” rappresenta un ulteriore caposaldo e ha un contraltare nella funzione che l’individuo ricopre nella società: un figlio deve «comportarsi in modo da non dare alcuna preoccupazione ai genitori», non deve “trasgredire”, deve essere rispettoso in casa e in società verso i propri superiori. Il pensiero di Confucio sviluppa una morale laica, che non si richiama a elementi religiosi; allo stesso tempo, tuttavia, giunge a gettare le basi di un sistema sociale rigido e conservatore.

Per un approfondimento del pensiero di Confucio e della sua influenza nella storia cinese, si rimanda al documentario dello storico Alessandro Barbero: https://www.youtube.com/watch?v=y7cYM3Af-AQ   

Tagore e la ricerca dell’Uno assoluto tra filosofia e misticismo

Le millenarie tradizioni filosofiche del sub-continente indiano sono articolate e affascinanti. Nel Novecento questa ricchezza arriva in Occidente anche tramite le opere del poeta, letterato, pedagogo e filosofo Rabindranath Tagore (1861-1941), originario di Kolkata e premio Nobel per la letteratura nel 1913. Tagore è una figura sui generis, che non può essere considerata rappresentativa di una specifica tradizione, ma che racchiude nella sua vita, nella sua formazione e nel suo pensiero tutta la varietà culturale che ha attraversato l’India nel corso dei secoli fino alla dominazione britannica. Nel suo pensiero, poesia, filosofia, misticismo, religione (inclusi elementi delle tradizioni cristiana e islamica) si fondono in una visione della vita e della felicità suggestiva, che si snoda in un continuo gioco di richiami a elementi tipicamente indiani e non.

Tra il 1911 e il 1914, Tagore tiene una serie di lezioni-meditazioni presso la scuola di Santiniketan, ispirata agli ashram della foresta e trasformata qualche anno più tardi in una università. Alla base dei discorsi di Tagore c’è l’idea che «tutto nasc[a] dalla gioia», così come scritto nelle Upanishad. Il pensiero del filosofo-poeta mira a superare le divisioni tra spiritualità e materialità: è nella laboriosità, finanche nella fatica, e nell’accettazione di sempre nuove sfide che si può aprire una effettiva strada verso la felicità. In questo, Tagore appare critico verso quelle tradizioni, pur tipiche del suo contesto storico-culturale, che vedono nella pura contemplazione e nella separazione del saggio dagli affari del mondo la strada maestra per il raggiungimento della più alta forma di spiritualità e, dunque, di felicità. La gioia dell’essere umanopuò essere piena e completa solo nel suo slancio verso l’esterno: per Tagore, «il più intimo desiderio umano è di poter ascoltare la profonda armonia che nasce da una piena e totale unità […]. Egli ripete a sé stesso le parole delle Upanishad: “Conosci l’Uno, lo Spirito! Egli è il ponte per l’immortalità”. Solo al raggiungimento di quest’unità, l’animo umano si calma, gli istinti si quietano, ogni cosa raggiunge il pieno controllo». Tagore si scaglia inoltre verso lo spirito occidentale, che vede caratterizzato dalla smania di progresso, dalla follia di potere e dall’incapacità di accettare l’idea della morte. Il filosofo-poeta invoca un Dio che risente della contaminazione cristiana, ma che resta ancorato all’idea di Unità soggiacente alle apparenti contrapposizioni tra spirituale e materiale, tra vita e morte. Solo la comprensione di questa armonia che supera gli opposti può portare l’uomo a comprendere la reale felicità.

Ubuntu, filosofia e politica

Raramente si pensa all’Africa (in particolare sub-sahariana) quando si affrontano temi filosofici. Molti sono abituati a considerarla come un continente senza storia, senza sistemi di pensiero, senza differenze al proprio interno: un enorme blocco vuoto sulla cartina geografica, nel nostro immaginario ben distante, ad esempio, dalla ricchezza delle tradizioni asiatiche. Per fortuna, negli ultimi anni gli studi sui diversi aspetti che caratterizzano storie e identità delle comunità africane si stanno moltiplicando, tentando di colmare un gap di conoscenza di cui l’Occidente è storicamente e culturalmente responsabile.

Ubuntu è un termine zulu (una delle lingue del Sudafrica) che potremmo tradurre con la parola “umanità”, anche se il suo più profondo significato appare difficilmente esprimibile in una lingua occidentale. Alla base di questa visione, tipica di diverse comunità africane, c’è la convinzione che la comunità sia al centro della società e che l’individuo acquisti la propria umanità proprio attraverso la società stessa. Si tratta di un vero e proprio modo di essere, fondato sul rispetto delle relazioni umane, sulla solidarietà reciproca, sulla consapevolezza che ogni persona è tale solo attraverso gli altri.  A rendere noto al più vasto pubblico questo concetto, sono stati due personaggi chiave della storia del Sudafrica: Nelson Mandela (1918-2013) e Desmond Tutu, vescovo anglicano e attivista, vincitore del premio Nobel per la pace nel 1984, recentemente scomparso. In particolare, Tutu riprese questo concetto come principio da cui ripartire nel processo di pacificazione del Sudafrica post-apartheid. Nella prefazione del libro Ubuntu. La via africana alla felicità di Mungi Ngomane (2019), Tutu dichiara: «Ho ripetuto spesso che l’idea e la pratica dell’ubuntu sono uno dei maggiori doni che l’Africa abbia dato al mondo; un dono con cui, purtroppo, non molte persone su questo pianeta hanno familiarità. La migliore espressione di questa filosofia è una massima presente in quasi tutte le lingue africane, che possiamo tradurre così: “Una persona è una persona tramite altre persone”. Significa che tutto ciò che impariamo e sperimentiamo nel mondo si deve alle nostre relazioni con gli altri».

Nella seguente puntata del programma Tre Soldi, Elisabetta Valentini ci restituisce un piccolo approfondimento del concetto di ubuntu: https://www.raiplaysound.it/audio/2020/09/TRE-SOLDI-f42a1e2f-a9da-41ac-ab00-f5a2291b7688.html 
Nel seguente episodio di WikiRadio, la professoressa Karin Pallaver ripercorre e approfondisce la vita di Desmond Tutu: https://www.raiplaysound.it/audio/2022/12/Wikiradio-del-26122022-2e3b7bd4-4770-422e-95eb-c12097060dc5.html 

Confucio tra i suoi studenti, incisione del XIX sec. autore sconosciuto (Crediti immagine: Wikimedia Commons)

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