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Filosofia

Emozioni ed empatia: l’altra intelligenza

Accanto alle forme “classiche” di intelligenza come quelle verbale e logico-matematica, negli anni Novanta si è fatta avanti l’idea di un’intelligenza “emotiva”: ce ne parla Beatrice Collina.

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Nella storia del pensiero in Occidente, la filosofia ha spesso privilegiato l’aspetto razionale del comportamento umano. D’altro canto, la stessa riflessione filosofica nasce come il tentativo di trovare spiegazioni logiche ai fenomeni del mondo, uscendo dalla sfera del mito, della religione e della superstizione. Il periodo illuminista ha poi definitivamente imposto un canone, facendo coincidere una serie di capacità umane con l’idea di intelligenza, una coincidenza che ancora persiste nell’immaginario comune. Il ragionamento logico-matematico, l’abilità di districarsi nella scelta dei mezzi dato un determinato scopo, le capacità di astrazione e di linguaggio: tutti questi aspetti non solo sono stati considerati come ciò che distingue gli esseri umani dagli altri esseri viventi, ma sono stati anche presi come i criteri principali per stabilire il grado di intelligenza degli individui.

In questa linea di sviluppo, la filosofia ha certamente lasciato il passo in modo progressivo alla psicologia, divenuta disciplina autonoma dall’Ottocento, ma che continua a fornire contributi di riflessione fondamentali. Non stupisce che, seguendo il paradigma razionalista, agli inizi del Novecento siano stati elaborati test standardizzati per misurare il cosiddetto Quoziente Intellettivo (QI) delle persone, test tuttora in uso. Tuttavia, già intorno alla metà degli anni Ottanta, alcuni studiosi cominciarono a intravvedere diversi limiti in questo approccio. Il QI pare infatti misurare solo una particolare tipologia di intelligenza umana e non sembra riuscire a “prevedere” l’effettivo successo (o felicità?) di una persona; i test “funzionano” nei contesti scolastici e accademici, rispetto a una precisa idea di istruzione, ma si registra come persone con alto QI non riescano a districarsi altrettanto bene nella complessità delle vicende e delle relazioni umane e si osserva come quoziente intellettivo e benessere psicologico non siano necessariamente connessi.

Un lavoro significativo in questa direzione è stato Formae mentis (1983) dello psicologo statunitense Howard Gardner che identificava una più vasta gamma di intelligenze: oltre alle più “classiche” verbale e logico-matematica, egli individuava la cinestetica, la musicale, l’intelligenza interpersonale e quella intrapsichica (in studi successivi questa lista diventerà ancora più lunga e articolata). Pur avendo inaugurato la cosiddetta “teoria delle intelligenze multiple”, Gardner si muoveva ancora nella scia della rivoluzione cognitivista di fine anni Sessanta, che si basava sull’analogia tra mente e calcolatore concependone il funzionamento come mera rielaborazione di dati e non tenendo conto del ruolo di emozioni ed empatia nella definizione di intelligenza.

Agli inizi degli anni Novanta, saranno gli psicologi Peter Salovey e John D. Mayer a coniare l’espressione “intelligenza emotiva”, intesa come abilità pratica complementare alla forma di intelligenza di natura più intellettuale. È interessante osservare come nel modello di Salovey e Mayer riecheggino temi e questioni radicate in una tradizione filosofica che si affianca a quella illuminista-razionalista. Per i due studiosi, i pilastri dell’intelligenza emotiva infatti sono: l’auto-consapevolezza delle proprie emozioni (una versione del “conosci te stesso” socratico); il controllo delle emozioni e la motivazione di sé stessi (aspetti che richiamano alla mente la dottrina del “giusto mezzo” nell’Etica Nicomachea di Aristotele); il riconoscimento delle emozioni altrui; l’arte delle relazioni. Anche questi ultimi due aspetti non appaiono nuovi, pur appartenendo al paradigma che si è culturalmente e storicamente affermato. Persino un filosofo del calibro di David Hume (1711-1776), nel suo fondamentale Trattato sulla natura umana, difendeva la prospettiva di una visione antropologica fondata sulla socievolezza (benevolence), rifiutando dunque l’idea che l’essere umano abbia una natura intrinsecamente egoista. A caratterizzare gli esseri umani sarebbe una spontanea inclinazione definita “simpatia” (sympathy), simile a ciò che noi contemporanei definiremmo empatia, ovvero la capacità di immedesimarci con le emozioni delle altre persone pur non potendole esperire in modo diretto. Certamente, Hume è il più noto esponente della scuola dell’illuminismo scozzese, ma non è l’unico che ha posto l’accento sull’esistenza di un affetto morale innato dell’essere umano, che gli permetterebbe di cogliere in modo spontaneo la differenza tra giusto e ingiusto e di rapportarsi con gli altri nello spazio sociale e politico: un approccio molto lontano dal razionalismo cartesiano e dall’egoismo calcolatore hobbesiano.

La filosofa italiana Laura Boella ha approfondito in più occasioni il tema dell’empatia. Qui si propongono due suoi contributo, il primo per RaiCultura, il secondo in occasione del Festival della Filosofia del 2013: https://www.raicultura.it/filosofia/articoli/2019/01/Boella-lempatia-contro-la-paura-0c3801a1-80eb-4329-9f9a-36bbbba692c7.html 
https://www.youtube.com/watch?v=QSpfwqgrPm4 

In anni molto più recenti, si assiste in ambito filosofico a un recupero di quelle tradizioni che considerano sentimenti, emozioni ed empatia parte di un concetto di intelligenza più ampio. Centrali a questo riguardo sono i lavori della filosofa statunitense Martha Nussbaum (n. 1947). Già nel testo La fragilità del bene (1986), Nussbaum riconosce una sorta di razionalità nelle emozioni e nella capacità di comprendere attraverso di esse la sofferenza dell’altro: «Capire un amore, o una tragedia, con l’intelletto non è sufficiente per acquisire una conoscenza autentica di essi». Le emozioni sono per Nussbaum un modo per comprendere il mondo e, dunque, per agire. E sta proprio nella possibilità di agire che l’emozione si distingue dal mero sentimento: essa infatti nasce da uno stimolo esterno che colpisce la dimensione personale. Il ragionamento di Nussbaum continua in un altro testo, dal titolo significativo: L’intelligenza delle emozioni (2001). La filosofa sostiene che le emozioni comportano giudizi su cose per noi importanti, giudizi nei quali riconosciamo la nostra incompletezza nei confronti di cose del mondo che sfuggono al nostro controllo. Da queste premesse, è inevitabile che la prospettiva di Nussbaum conduca a una concezione di educazione molto diversa da quelle viste in precedenza e che si concretizzano nel mero calcolo di un quoziente intellettivo: per la filosofa, l’obiettivo del sistema scolastico dovrebbe essere quello di educare le persone a vivere pienamente in una società democratica e attraverso questa idea di educazione mantenere viva la democrazia stessa. Siamo così di fronte a un paradigma molto più articolato non solo cognitivo, ma prima di tutto antropologico secondo il quale: «[i] cittadini non possono relazionarsi bene alla complessità del mondo che li circonda soltanto grazie alla logica e al sapere fattuale. La terza competenza del cittadino, strettamente correlata alle prime due, è ciò che chiamiamo immaginazione narrativa. Vale a dire la capacità di pensarsi nei panni di un’altra persona, di essere un lettore intelligente della sua storia, di comprenderne le emozioni, le aspettative, i desideri» (Nussbaum, Non per profitto, 2010).


Crediti immagine: Les noisettes, William-Adolphe Bouguereau, 1882 (Wikimedia Commons)

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