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Filosofia

Gioco, ludus, paignion, enigma

Il pensiero antico ha visto nel gioco un’unione inscindibile tra leggerezza e serietà, fra azione (ludus) e divertimento (iocus). Roberta Ioli mostra come alcuni grandi filosofi dell'Antica Grecia riflettano sul gioco: secondo Platone, per esempio, il gioco ha un ruolo educativo, per Eraclito è saggezza
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Il filosofo Aristotele mette in relazione il gioco con la felicità. Ci sono attività, scrive nell’Etica Nicomachea, che meritano di essere scelte per se stesse, non per altro, come la felicità. Tra queste pratiche, che non sono dettate da interesse né hanno uno scopo al di fuori di sé, ci sono le azioni virtuose e, appunto, il gioco. Corregge però subito il tiro, sostenendo che la felicità sia in realtà garantita solo dall’esercizio della virtù e non dal divertimento, che troppo spesso distoglie da obiettivi più nobili e va comunque difeso solo se espressione di uno spirito libero.  

Eraclito: il gioco è saggezza

Tuttavia, nel gioco fine a se stesso un antico pensatore aveva trovato più senso e consolazione che nella compagnia impegnata degli adulti. Quando infatti era già famoso e stanco delle dispute cittadine, Eraclito di Efeso decide di ritirarsi dalla civiltà e vivere presso il tempio di Artemide, trascorrendo tutto il tempo nel gioco dei dadi con i bambini. Più saggio quel gioco – pensava – che occuparsi della politica di Efeso. Nel gioco si cela talvolta, per gli antichi, più saggezza che nella presunzione seriosa degli adulti, e la saggezza, a sua volta, ama spesso tradursi nel linguaggio aurorale dell’infanzia o in quello oscuro dell’enigma, entrambi liberi dai meccanismi inferenziali del pensiero adulto. Non solo i sapienti e gli indovini sanno parlare per enigmi, ma gli dei stessi, che prediligono questa forma oracolare sfuggente: essi chiedono agli uomini un ascolto disinteressato, libero dai pregiudizi, disponibile a un rovesciamento di prospettiva, quale è appunto lo sguardo dei bambini. Non dimentichiamo il famoso enigma della Sfinge, che incatena Tebe a una terribile pestilenza, dalla quale la città potrà essere liberata solo attraverso la saggezza ‘divergente’ di chi sapesse sciogliere l’indovinello, comprendendone il senso nascosto:  “Che cosa, pur avendo una sola voce, è insieme quadrupede, bipede e tripede?”. Eppure, neanche l’uomo più saggio può vivere al sicuro in questa presunzione di sapere: se Edipo è in grado di svelare la verità dell’enigma sciogliendo l’indovinello della Sfinge, non è però in grado di decifrare per tempo i segni che lo riguardano e di comprendere la verità terribile del proprio destino.  

Tra iocus e ludus

La radice etimologica delle parole ci rivela molto della loro essenza e della loro storia, conservata o dimenticata. Gioco deriva dal latino iocus, in origine “gioco di parole”, “scherzo”, facezia arguta o volgare, che al plurale indica spesso i giochi amorosi, il corteggiamento disimpegnato, i componimenti letterari a sfondo erotico. Il gioco di azione è invece reso con ludus, e ludi sono infatti i giochi pubblici nel Campo Marzio, gli spettacoli dei gladiatori, gli agoni sportivi. Nel mondo greco erano i Giochi Olimpici a costituire, nella loro scadenza quadriennale, la principale manifestazione sportiva e insieme religiosa dell’Ellade. Il gioco per gli antichi è prevalentemente strumento per lo sviluppo del corpo: i ludi sportivi, infatti, impegnavano i giovani con allenamenti durissimi e costanti a partire dai sette anni di età, quando essi cominciavano a frequentare le scuole-ginnasi. D’altra parte, la stretta connessione tra mente e corpo permetteva di percepire il gioco anche come allenamento mentale, strumento per fortificare lo spirito e, in un secondo momento, mezzo per acquisire più sviluppate capacità logiche e mnemoniche, come nel caso dei giochi matematici, degli enigmi e dei paradossi.  

Platone: il ruolo educativo del gioco

Anticipando di secoli l’attuale dibattito sulla pedagogia e sull’estetica del gioco, Platone riconosce l’aspetto educativo dell’attività ludica quando, nelle Leggi, descrive il gioco dei bambini piccoli come una preziosa occasione educativa, oltre che ricreativa, utile per lo sviluppo corporeo attraverso il movimento, per la socializzazione (si privilegiava infatti l’attività in un gruppo eterogeneo) e, infine, efficace per la crescita morale attraverso il principio che impone il rispetto delle regole e la loro immodificabilità. Solo indirettamente evocato da Platone, ma fondamentale nella moderna concezione del gioco, è infine la sua dimensione simbolica e mimetica: attraverso la moltiplicazione di simboli, maschere, finzioni, il gioco si presenta infatti come un grande teatro, una sorta di scena immaginaria la cui funzione metaforica non riduce, ma anzi esalta la serietà della rappresentazione. Il connubio tra serio e scherzoso, tra impegno e levità è chiaramente restituito dall’etimologia greca della parola “gioco”: paignion ha la medesima radice di pais, “bambino”, di paizein (che significa “giocare”, ma anche danzare, suonare, fare l’amore), e infine di paideia, “educazione” e cultura nel senso più nobile e completo del termine. Nel gioco esiste un’unione inscindibile tra leggerezza e serietà; pur essendo espressione della massima libertà, il gioco chiede il severo rispetto di regole, senza le quali non solo non funzionerebbe, ma addirittura non esisterebbe.  

Il gioco dei sofisti: Gorgia elogia Elena

Sembra averlo compreso bene il sofista Gorgia, che apre il suo Encomio di Elena con la parola kosmos, “armonia”, e lo chiude con paignion, “gioco”. Si tratta, evidentemente, di due termini chiave per il suo pensiero: tra questi due estremi, infatti, si iscrive il suo tentativo di dimostrare che Elena è innocente, in contrasto con una lunga tradizione mitica che la voleva unica responsabile della guerra di Troia. Paignion doveva essere non un ozioso divertissement, ma un gioco serissimo, che per Elena risultava lode e discolpa, per Gorgia esercizio della parola retoricamente elaborata, fino alla costruzione geometrica di un’argomentazione rigorosissima. Forse proprio questo rendeva temibili i sofisti agli occhi dei contemporanei, l’idea cioè che si potesse insegnare un’arte della persuasione e della parola in grado di procurare non solo sapere, ma anche piacere, dunque capace di radicarsi tra i giovani più di quanto non facessero gli insegnamenti della tradizione. Forza rivoluzionaria del gioco e dell’infanzia! Così avrebbe potuto concludere, ancora una volta, l’oscuro Eraclito, che ci tramanda l’aneddoto secondo cui Omero sarebbe stato ingannato da un gruppo di bambini che gli proposero questo semplice indovinello: “quello che abbiamo visto e preso, lo lasciamo; quello che invece non abbiamo né visto né preso, lo portiamo con noi”. Tale fu lo sgomento del sommo poeta, incapace di sciogliere l’enigma dei pidocchi, che preferì la morte alla vergogna del proprio fallimento. Crediti immagini: Apertura: Discobolo di Mira, foto di Victor R. Ruiz (su flickr) Box: Elena e Paride (su Wikipedia)
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