Il denaro nel pensiero di Aristotele: dall’economia tradizionale all’economia di scambio
Legato a una visione tradizionale dell’economia, intesa come amministrazione della casa, Aristotele ritiene che i bisogni familiari debbano essere soddisfatti “naturalmente”, ovvero attraverso attività come l’agricoltura, la caccia, la pesca. Egli introduce tuttavia il termine «crematistica» per indicare l’attività di acquisire i beni attraverso lo scambio. Solo nel caso in cui lo scambio sia finalizzato al soddisfacimento dei bisogni primari, esso è ritenuto naturale e, quindi, moralmente accettabile. Diversamente, quando lo scambio ha come obiettivo il mero profitto, esso è da considerarsi contro natura, «praticato a spese degli altri» e, per questi motivi, esecrabile. Tale degenerazione dell’economia di scambio è stata resa possibile proprio dall’introduzione del denaro che ha assunto progressivamente il ruolo non solo di mezzo di scambio privilegiato, per evidenti ragioni di praticità, ma anche di strumento di tesaurizzazione e di misura ideale del valore. Da un punto di vista etico, è il prestito a interesse o usura a costituire, per Aristotele, la pratica economica più disdicevole, in quanto il denaro viene trattato come «principio e fine dello scambio» (Politica 1257b). Le riflessioni di Aristotele non si limitano all’ambito morale, egli si interroga anche su quale sia la natura del denaro: in altri termini, cosa conferisce valore al denaro? Per il filosofo, il denaro non possiede alcuna proprietà intrinseca che ne determina il valore; al contrario, quest’ultimo è frutto di una convenzione umana.Il denaro nel Medioevo: tra condanna dell’avarizia ed esaltazione della caritas
Tra il XII e il XIII secolo, l’intensificarsi degli scambi sulla lunga distanza implica una maggiore circolazione di monete, facilmente trasportabili. Si afferma una nuova borghesia mercantile cittadina: possedere denaro ora significa avere potere. In questo contesto, la Chiesa mostra un atteggiamento ambivalente: il denaro è sia materia demoniaca sia strumento di salvezza. Alberto Magno (1206-1280) riconosce il ruolo fondamentale dei ricchi e dei mercanti per il benessere della città: è grazie alla loro caritas che le città fioriscono e che i poveri, sempre più numerosi in fuga dalle campagne, possono essere assistiti. Il teologo “declassa” anche il peccato di avarizia: nella sua teologia, esso non è considerato il più grave. È Tommaso D’Aquino (1225-1274), allievo di Alberto Magno, a introdurre il concetto di «giusto prezzo»: colui che vende una merce a un prezzo molto superiore al suo effettivo valore, commette un illecito (Summa teologica, qu. 77). Diversamente da Aristotele, Tommaso D’Aquino non crede che il prezzo sia una convenzione, ma che dipenda dal valore intrinseco della merce e da fattori contestuali. Nei confronti dell’usura, la condanna della Chiesa resta netta: essa è peccato, furto, ingiustizia. A questo riguardo, sono frequenti i richiami all’Antico e al Nuovo Testamento: «non esigerai interesse da tuo fratello» (Deuteronomio 23,20-21); «prestate senza sperare nulla» (Luca 6, 35). La riscoperta medievale di Aristotele aggiunge un argomento profano: se il fine naturale del denaro non consiste nel generare denaro, ma nel procurarsi beni primari, l’attività dell’usuraio è “contro natura”.Il denaro in epoca moderna: il vizio diventa virtù
Il desiderio di accumulare denaro, la propensione al lusso e ai piaceri materiali costituiscono per Bernard Mandeville (1670-1733) le reali inclinazioni dell’uomo. Gli uomini non sono né socievoli per natura né altruisti, come sostenevano Aristotele e i pensatori cristiani; al contrario, essi sono egoisti, sempre orientati al proprio tornaconto e non si fanno scrupoli per ottenerlo. Nel suo “scandaloso” poemetto in versi La favola delle api (1714), Mandeville ricorre alla metafora dell’alveare per descrivere il funzionamento delle popolose e complesse società moderne. Nella favola, fino a quando le singole api adottano comportamenti dettati dall’avarizia e dall’individualismo, l’alveare prospera; nel momento in cui esse si convertono all’altruismo, l’alveare rapidamente si impoverisce. Mandeville non solo vuole smascherare le ipocrisie della società mercantile, ma anche giustificare quei comportamenti che per secoli sono stati fonte di biasimo: il motto diventa quindi «vizi privati, pubblici benefici». Sulla scia del pensiero di Thomas Hobbes (1588-1679), Mandeville propone un’interpretazione antropologica negativa. Questo capovolgimento di valori è inevitabilmente legato all’affermazione di un inedito ordine sociale ed economico: l’impiego del denaro negli scambi è oramai diffuso e accettato, il suo possesso non genera più sospetto e disapprovazione, ma ammirazione e invidia; comincia a farsi strada quel concetto di massimizzazione del profitto che sarà centrale nella futura economia capitalista.Conclusioni
Il denaro è un’istituzione sociale nata per rispondere a precise esigenze, ma non storicamente necessaria. L’invenzione del denaro è un evento recente, se si considera che per migliaia di anni i rapporti economici si sono basati sul baratto. Gli studi sulla diffusione del denaro e sulle sue modalità di impiego sono legati alla possibilità di identificare il tipo di economia di determinati contesti storico-culturali, ovvero aiutano a comprendere se le società sono basate su un’economia domestica o un’economia del dono, su un’economia di scambio o un sistema capitalistico. Crediti immagini: Apertura: frontespizio del libro "La favola delle api" (Wikipedia) Box: Aristotele, particolare del dipinto "La scuola di Atene" di Raffaello (Wikipedia)
