L’avvento del nazismo e l’esilio
Entrati al governo all’inizio del 1933, i nazisti si resero responsabili sin da subito di gravi episodi come l’incendio del Reichstag e i molteplici roghi di libri “proibiti”. In un clima di crescente minaccia per gli oppositori, i francofortesi capirono che l’esilio era l’unica soluzione: non solo Horkheimer, ma anche i filosofi Theodor W. Adorno e Herbert Marcuse, lo psicologo Erich Fromm, il sociologo Karl A. Wittfogel, l’economista Friedrich Pollock lasciarono la Germania. Dal 1934, e per 17 anni, la sede principale dell’Istituto fu spostata presso la Columbia University di New York. Per mantenere il legame con le proprie radici e per non perdere il proprio pubblico, la rivista ufficiale fu pubblicata in tedesco fino al 1941. Non fu quindi un’emigrazione preventiva, ma una fuga inevitabile. Almeno nella fase iniziale, l’emigrazione non fu conseguenza di persecuzioni politiche o razziali: l’obiettivo era infatti colpire la figura dell’intellettuale in quanto tale, perché fonte di destabilizzazione per un regime che mirava alla completa omologazione della società. La separazione forzata dal proprio paese d’origine generò negli intellettuali esiliati una profonda lacerazione identitaria che in alcuni casi fu insuperabile (Walter Benjamin, collaboratore dell’Istituto, si suicidò) e in altri si riflesse nel pessimismo delle analisi sociologiche.Riflessioni dall’esilio: l’Europa e i totalitarismi
Per Horkheimer e Adorno, la condizione di esiliati fu un ulteriore stimolo a interrogarsi sulle ragioni che avevano reso possibile l’ascesa e il radicarsi dei totalitarismi in Europa. Tra il 1942 e il 1944, essi lavorarono alla loro opera principale, Dialettica dell’illuminismo. Pur assumendo l’elemento dialettico (tesi-antitesi-sintesi) come chiave di lettura della realtà e utilizzando terminologia e concetti del marxismo classico, il distacco da questa tradizione era sempre più evidente; in particolare, essi constatarono che il proletariato, lungi dall’essere una forza rivoluzionaria, era oramai del tutto asservito al potere. Nella loro opera, i due filosofi individuarono il germe della deriva autoritaria occidentale nell’ambizione dell’uomo del Settecento di dominare la natura piegandola alla propria volontà. Lo stesso sviluppo della scienza e della tecnica era stato funzionale al controllo del mondo esterno. Razionalità e dominio di fatto coincidevano ed esprimevano il carattere tipico della borghesia occidentale. All’interno dei regimi totalitari si era poi verificato il passo decisivo: in essi, il dominio dell’uomo sulla natura si era trasformato in dominio dell’uomo sull’uomo. I totalitarismi non lasciavano spazi agli elementi irrazionali e creativi che potevano minacciare il buon funzionamento del Sistema. La razionalità borghese, sempre orientata all’ordine e all’efficienza, non poteva quindi che trovare la sua più compiuta espressione nei campi di concentramento nazisti.
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La vita negli Stati Uniti: democrazia e repressione
La permanenza negli Stati Uniti obbligò i francofortesi a confrontarsi per la prima volta con una società agli antipodi degli ideali di sinistra su cui l’Istituto era stato fondato, ma che era riconosciuta come l’esempio più compiuto di democrazia e pluralismo. L’esperienza diretta con quell’ambiente fu fondamentale per sviluppare alcune delle riflessioni di maggiore influenza dei filosofi della Scuola. Concetti centrali nel marxismo classico, come quelli di «classe» e «oppressione», non furono abbandonati, ma rivisitati alla luce di una più proficua analisi della situazione contemporanea. Così, coniugando in modo originale marxismo e psicoanalisi, in Eros e civiltà (1955) Marcuse indagò il rapporto tra sviluppo della civiltà e soppressione degli istinti umani. Pur ammettendo, con Freud, che un certo grado di controllo sugli istinti individuali fosse inevitabile per vivere in società, Marcuse vedeva nella civiltà occidentale un livello di repressione ingiustificato. Il pessimismo di Marcuse diventò radicale nel suo lavoro più importante, L’uomo a una dimensione (1964). Le democrazie occidentali, capitalistiche e tecnologicamente avanzate, avevano trasformato i propri cittadini in ottusi e frenetici consumatori illudendoli della fine delle differenze di classe e di essere liberi nelle loro scelte. In questo contesto, l’eroe rivoluzionario poteva essere solo l’«escluso», colui che non adeguandosi al Sistema ne restava ai margini, e non più l’operaio del marxismo classico, anch’esso ormai parte dell’ingranaggio.
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La fine della guerra e il declino dell’Istituto
Le difficoltà nell’ottenere finanziamenti e l’allontanamento di esponenti del calibro di Fromm misero a dura prova la coesione del gruppo dei francofortesi in esilio. Dopo la guerra, alcuni come Adorno e Horkheimer rientrarono in Germania, altri come Marcuse rimasero negli Stati Uniti. L’inaugurazione della nuova sede dell’Istituto nel 1951 a Francoforte non servì a rilanciare un’esperienza intellettuale agli sgoccioli. Quasi paradossalmente, i membri di quella che è comunemente conosciuta come «Scuola di Francoforte» elaborarono i loro contributi più significativi proprio negli anni trascorsi lontano dalla Germania.
Per approfondire:
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Crediti immagini:
Apertura: Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, da Wikipedia
Box: Columbia University, da flickr