All'epoca dei Padri della Chiesa la cultura cristiana mette a punto un potente strumento di disciplina morale, il settenario dei vizi capitali. Tra questi balza agli occhi un vizio molto concreto concreto: la gola.
Aristotele e il desiderio eccessivo
La condanna della gola ha origini antiche. Nell'Etica Nicomachea Aristotele scrive che i golosi hanno un temperamento da schiavi, perché non riescono a sottrarsi alle tentazioni del cibo. Quello del cibo è senza dubbio un desiderio naturale, ma che diventa un errore quando ci si riempie il ventre oltre il bisogno.
"Nei desideri naturali sono pochi gli uomini che errano e in una sola direzione, in quella dell’eccesso: infatti, mangiare o bere tutto quello che capita fino ad essere troppo pieni significa superare in quantità la soddisfazione richiesta dalla natura, perché il desiderio naturale è il mezzo per riempire il vuoto del bisogno. Costoro sono chiamati golosi, perché riempiono il ventre più del necessario: e tali diventano quelli che hanno un temperamento troppo da schiavi". (Etica Nicomachea, III. 11. 15)
Per quanto breve, questo passaggio evidenzia un concetto significativo per la storia della gola. Aristotele collega questo vizio a un bisogno naturale, di cui è però una distorsione. Questa considerazione viene ripresa dagli autori cristiani che individuano nella naturalità del bisogno del cibo la grande forza del vizio della gola.
Come tenere a bada la gola?
Il tema dei peccati capitali arriva nel pensiero cristiano attraverso un lungo percorso, che parte dallo gnosticismo per arrivare al monachesimo. Qui troviamo alcune figure che danno al tema dei vizi la loro sistemazione canonica e analizzano il peccato della gola.
Il monaco Cassiano (360-430) fa della gola il primo dei vizi capitali e mette in luce il suo grande potere. La gola nasce da un bisogno corporale e da una necessità reale. Perciò, a differenza degli altri vizi, non potrà mai essere messa a tacere. Anche se riguarda più il corpo che l'anima, la gola è il lascia passare di altre passioni e vizi e va perciò domata. Ma come?
L'ideale però sarebbe il digiuno, che per il vescovo di Milano Ambrogio è il cibo della mente: “Grazie al digiuno si arriva prima a Dio”.
A dispetto della tetra conclusione che si potrebbe trarre da questa affermazione (per forza di cose si arriva prima a Dio, perché si muore più in fretta), il digiuno appare agli occhi degli uomini del medioevo un ideale ma anche un rischio, perché può essere un'espressione del desidero di distinguersi, e non di sincero spirito cristiano: meglio quindi che seguire la strada della frugalità, che ciascuno deve trovare in base alle proprie caratteristiche. Le regole monastiche si preoccupano allora di imporre la sobrietà nel consumo di cibo, ma anche di attenuare il rigore nei confronti di giovani, anziani e di chi svolge mansioni pesanti.
Spiegano Carla Casagrande e Silvana Vecchio (I sette vizi capitali. Storia dei peccati nel Medioevo, Einaudi, Torino 2000) che con il passare dei secoli, i cristiani divennero più tolleranti nei confronti della gola. I teologi basso medievali, come Tommaso d'Aquino, mettono in guardia non tanto dal piacere del cibo quanto dalle conseguenze della gola. Il piacere della gola, sottolineano gli scolastici, provoca l'ottundimento della mente, la perdita dei freni inibitori nella parola (che scatena scurrilità e sciocca allegria) e uno sconvolgimento dell'animo che apre la strada a un altro vizio, la lussuria.
Dove abita la gola
Il vizio della gola trova casa dappertutto. Uno dei suoi luoghi naturali è il monastero, dove abati e monaci si fanno beffe dell'astinenza e della frugalità e consumano grandi quantità di pietanze. La letteratura medievale ama denunciare il malcostume dei monasteri: grandi personalità dell'epoca, da Pietro di Cluny a Bernardo di Clairvaux, ribadiscono più volte quanto siano scandalosi i pasti golosi dei monaci, come quando evitano di consumare la carne, ma raddoppiano le portate di pesce.
Da una tavola all'altra, il vizio della gola assume forme diverse. A un nobile non si può rimproverare un pranzo sontuoso, ragionano i filosofi dell'epoca. Se ogni uomo deve trovare la propria frugalità, quella del nobile, abituato a cibi abbondanti e raffinati, sarà diversa da quella del paesano: un ottima argomentazione per legittimare il regime alimentare sfarzoso della nobiltà. Ai nobili si raccomanda non di evitare il lusso, ma la smodatezza e le cattive abitudini.
Infine, per chi appartiene alle classi povere solo la taverna è il luogo del vizio della gola: ma più che la gola vera e propria, qui a trionfare sono l'ubriachezza, la mancanza di decoro, la sregolatezza, il gioco d'azzardo.
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La smodatezza della gola
Questa rappresentazione dei vizi della tavola è destinata a durare nel tempo. Il peccato di gola è una mancanza di misura che si accompagna ad altre: feste, oscenità, ubriachezza, risate sguaiate. Nella descrizione della commedia del mondo offerta da Erasmo da Rotterdam la Follia attribuisce a sé il merito di un'allegra baldoria tra amici, che scolano vino, giocano a dadi e cantano canzoni sguaiate: “Infatti a che riempirsi lo stomaco con tante squisite leccornie senza nutrire con risa scherzi, allegria anche gli occhi, le orecchi, insomma tutto l'animo?” (Elogio della Follia, a cura di N. Petruzzellis, Mursia, Milano 1970, p. 48)
E oggi?
Insieme a tutto il settenario, anche il peccato della gola perde vigore nel corso dell'età moderna, anche se la forza della tradizione e la seduzione di una tassonomia continuano a stimolare gli artisti, come il pittore tedesco Otto Dix.
Anche i filosofi continuano a fare i conti con il peccato della gola: secondo Fernando Savater (I sette peccati capitali, Mondadori, Milano 2007), quello della gola non è più un peccato di mancanza di misura, ma un danno inflitto ad altri che non possono accedere al cibo di cui abusiamo.
Francesca Rigoldi (Gola. La passione dell'ingordigia, il Mulino, Bologna 2008), propone un'altra analisi: anche oggi il vizio della gola si ripropone, ma nei termini che sono propri di un mondo medicalizzato e globalizzato. La medicalizzazione dell'obesità e delle disfunzioni alimentari sottrae la gola alla dimensione della responsabilità etica. La globalizzazione porta con sé (dove arriva) l'opulenza di un cibo grasso che rovina i corpi. Questo grasso malsano sembra essere una nuova forma di peccato in un'epoca che idolatra il corpo.
In conclusione, a distanza di millenni dalla sua nascita il peccato di gola mostra ancora una grande vitalità, anche se ha mutato pelle e più che l'anima sembra danneggiare il corpo.
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Crediti immagine:
Apertura: Bartholomäus Strobl, "Il banchetto del Re Balthasar". Olio su tela. (Wikimedia Commons)
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Box: Hieronymus Bosch, "I sette peccati capitali". Particolare. (Wikipedia)
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