Il sogno ha rappresentato una sfida per i filosofi che, nel corso dei secoli, hanno tentato di spiegarne origine, funzione e significato: dall’interpretazione più diffusa nell’antichità, che attribuiva ai sogni un carattere profetico, fino alla psicoanalisi novecentesca inaugurata da Sigmund Freud (1856-1939) e orientata a riportare in superficie timori, traumi e desideri soffocati dal soggetto. Esiste tuttavia un’altra chiave di lettura che attraversa tutta la storia della filosofia fino alla contemporaneità: si tratta dell’idea che il sogno abbia una natura ingannevole, capace di mettere in discussione il nostro rapporto con la realtà.
Fuga dal sogno. Quando la realtà è altrove
«Hai mai fatto un sogno tanto realistico da sembrarti vero? E se da un sogno così non ti potessi più risvegliare, come potresti distinguere il mondo dei sogni da quello della realtà?». Con queste parole Morpheus si rivolge a Neo nel film Matrix (1999) delle sorelle Wachowski, una delle trasposizioni cinematografiche più efficaci del dibattito filosofico sulla natura ingannevole e ambigua del reale. È nel Mito della caverna, narrato da Platone nel VII libro della Repubblica (390-360 a.C.), che si individuano i primi elementi di questa lunga tradizione: Platone mette in discussione le nostre certezze sensibili, descrivendo come schiavi in catene gli uomini che si affidano alla realtà più immediata. La modalità del racconto serve al filosofo per illustrare la propria teoria della conoscenza, secondo cui il mondo sensibile non sarebbe altro che una copia sbiadita del mondo perfetto delle idee. Ad aspirare alla faticosa ricerca della Verità è il filosofo che, come l’Eletto in Matrix, avrà poi il compito di aprire gli occhi agli altri uomini, molti dei quali tuttavia non saranno pronti a riceverla. Nel brano di Platone, così come nel film, è la realtà più facilmente accessibile a rivelarsi sogno, illusione, inganno, con inevitabili implicazioni ontologiche (cosa esiste realmente?), epistemologiche (cosa è possibile conoscere?) e morali (meglio vivere in una menzogna rassicurante o in una scomoda realtà?). A spezzare la simmetria tra le due opere è la diversa natura del mondo reale: per Platone, la realtà richiede sforzo, ma è infine perfezione che fa da contraltare a un mondo sensibile confuso e ingiusto; in Matrix, la realtà è diventata incubo.
Il sogno come strumento della ricerca scientifica. La svolta cartesiana
Nel 1641, il filosofo francese René Descartes (1596-1650) pubblica le Meditazioni metafisiche, testo innovativo per forma e contenuto. Scritto in prima persona con uno stile narrativo che accompagna il lettore passo dopo passo, quasi a creare con lui un dialogo, Descartes compie con metodo analitico un’indagine serrata per smascherare gli errori derivanti dall’affidarsi in modo dogmatico e acritico al senso comune. Delle sei meditazioni, è la prima ad essere cruciale in questo percorso: è in essa infatti che Descartes introduce il tema del sogno per interrogarsi sulla validità delle conoscenze basate sui nostri sensi: «È di certo con occhi ben svegli che ora guardo questo foglio di carta, non è addormentata questa testa che muovo, è facendoci attenzione che allungo la mano e so di allungarla; ma niente di altrettanto distinto potrebbe accadere a chi dorma. Ma davvero? Come se non ricordassi di essere stato a volte ingannato, nei sogni, da pensieri simili! […] Mi rendo conto che non è mai dato di distinguere la veglia dal sogno con criteri certi». Il filosofo formula quindi il cosiddetto “dubbio iperbolico”, ipotizzando che sia un genio maligno a inserire nella nostra mente le immagini di ciò che crediamo di conoscere. Pur emergendo elementi già incontrati, la prospettiva e le finalità dell’analisi cartesiana segnano una svolta. L’obiettivo non consiste più nel rifiuto (anche morale) del mondo, ma nella giustificazione razionale delle nostre credenze, attraverso un percorso di ricerca che è espressione della concezione moderna della scienza. Il dubbio a cui Descartes sottopone ogni conoscenza del mondo reale è metodo, non contenuto: lo scetticismo riguardo al mondo esterno è così introdotto come argomento filosofico nel dibattito moderno. Lungi dall’avere trovato una soluzione epistemologica e ontologica, la controversia sullo status del mondo esterno è ancora attuale e resa sempre più affascinante dalle incessanti scoperte della scienza. A porre nuovi interrogativi sono in particolare le teorie della fisica che, per spiegare alcuni fenomeni, devono ricorrere a entità inosservabili (o quantomeno non osservabili secondo i canoni comuni dell’osservazione, come atomi, elettroni, quark). A questo riguardo, si fronteggiano due posizioni filosofiche principali (seppur molto articolate al loro interno): da un lato il realismo, secondo cui se la teoria è in grado di spiegare e prevedere tali fenomeni, allora abbiamo buoni motivi per ritenere reali anche le entità inosservabili in essa introdotte; dall’altro l’anti-realismo, che considera in ogni caso queste entità alla stregua di mere finzioni.
Fuga dalla realtà. Dimensioni oniriche e virtuali
Se per secoli i filosofi si sono chiesti fino a che punto sia legittimo considerare reale il mondo esterno, ricorrendo all’argomento del sogno per criticare le nostre più comuni certezze, si osserva come l’accelerato sviluppo delle nuove tecnologie abbia ribaltato i termini della questione: la possibilità di creare e prendere parte a spazi virtuali sempre più raffinati sembra rappresentare una fuga dalla realtà verso una dimensione forse non strettamente onirica, ma che ha comunque a che fare con i nostri sogni. Già a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, il filosofo francese Jean Baudrillard (1929-2007) analizza peculiarità e conseguenze di questi fenomeni e non è un caso trovare in Matrix anche un esplicito riferimento al suo testo più noto, Simulacra and Simulation (1981). A caratterizzare le società postmoderne e la loro organizzazione non sarebbero più la produzione e il consumo, ma la simulazione. Baudrillard conia quindi il concetto di “iper-realtà” per indicare l’insieme di quelle esperienze virtuali che, rese sempre più intense dalle nuove tecnologie dell’intrattenimento, dell’informazione e della comunicazione, si sostituiscono alla realtà del mondo esterno. Non solo l’iper-realtà giunge a plasmare pensieri e comportamenti degli individui, ma in essa viene meno ogni possibilità di questi ultimi di diventare soggetti: nel virtuale ci si immerge, afferma Baudrillard, non ci si confronta, perché non esistono contraddizioni e ostacoli in una dimensione dove tutto è possibile. Tuttavia, la conseguenza più estrema e inquietante di questo processo è la dissoluzione della realtà stessa: l’iper-realtà non è una proiezione, ma una rete di immagini complessa e sofisticata che non ha bisogno di rimandi oggettivi al suo esterno per legittimarsi. Richiamando il titolo di uno dei suoi ultimi lavori, «il delitto perfetto», ovvero l’omicidio della realtà, per Baudrillard è compiuto. Queste riflessioni sembrano suggerire una conclusione quasi paradossale: dell’esistenza di un mondo esterno si smette di dubitare nel momento in cui quel mondo lo si abbandona per rifugiarsi in uno spazio altro. A questo punto, per i filosofi contemporanei si pongono nuovi interrogativi: che cos’è questo spazio? È più vicino alla dimensione reale o a quella onirica? Che tipo di relazione sussiste tra reale e virtuale e quali sono le reciproche ripercussioni?
Crediti immagini: Johann Heinrich Fussli, “Incubo”, Detroit Institute of Arts (Wikipedia)
Mario
15 maggio 2023 alle 23:30
Buonasera: mi trovo d’accordo con gli antichi : alcuni sogni sono profezie; la loro interpretazione non è facile e penso che solo la fede appassionata e semplice possiede gli strumenti conoscitivi per una sua interpretazione, avvenuta la quale si comincia a vivere in una dimensione “altra” dove nelle tue profondità il buio lascia lentamente il posto ad una luce; tutto non è più come prima, avverti un senso di inadeguatezza costante… ma ora non si è più soli