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Contro le città

Bernhard a Salisburgo, Dostoevskij a Pietroburgo, Mari e Testori a Milano: Andrea Tarabbia propone quattro esempi di autori fortemente critici verso le proprie città, descritte impietosamente, senza censure e con feroci critiche ai propri concittadini
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Contro Salisburgo

Sentite come Thomas Bernhard, grande scrittore austriaco e grande odiatore, inizia L’origine, il primo dei cinque, straordinari volumi che compongono la sua Autobiografia:

“La città, popolata da due categorie di persone, gli affaristi e le loro vittime, è abitabile per colui che ci viene per imparare e per studiare soltanto in maniera dolorosa, disturbante ogni indole naturale, col tempo perturbante e devastante, molto spesso unicamente subdola e micidiale. Da un lato le esasperate condizioni atmosferiche, irritanti, snervanti e comunque ammorbanti per chi vive nella città, e dall’altro l’architettura salisburghese […] tutti questi fatti fattori insieme generano in continuazione questo tipo di salisburghesi indigeni o immigrati, i quali […] perseguono le loro stupide caparbietà, insensatezze, ottusità, i loro affari brutali e le loro melanconie, e costituiscono un’inesauribile fonte di reddito per ogni possibile e impossibile genia di medici e d’impresari di pompe funebri”.

Bernhard aveva vissuto a Salisburgo da bambino, dove aveva ricevuto un’educazione rigida e grottesca (nel 1943, a dodici anni, venne iscritto a un convitto nazionalsocialista, in seguito trasformatosi in un ugualmente opprimente convitto ultracattolico) e dove aveva imparato a detestare il proprio Paese: tuttora non amatissimo in Austria, benché sia indubbiamente uno dei più grandi scrittori del Novecento, Bernhard ne ha fustigato i costumi e le intelligenze e messo a nudo le vergogne. In splendidi romanzi-monologhi come Il soccombente, Gelo, Correzione, Estinzione, Perturbamento, che hanno letteralmente inventato un modo di fare letteratura e rivoluzionato il linguaggio, Bernhard ha reso pubblica quella che lui insistentemente definisce la stupidità della popolazione austriaca: fatta di città piccole eppure inospitali, volgari, circondate da montagne che opprimono i sensi e danno una soffocante idea di chiuso, da nebbia, solitudine e disincanto, l’Austria di Bernhard è un mondo popolato di mentecatti, tubercolotici, livorosi; un mondo dove le meschinità dei retrobottega vengono alla luce nonostante la volontà di tenerle a bada e darsi un tono. Salisburgo ne è il simbolo, è l’oggetto di un odio feroce perché lungamente covato: andato a lavorare giovanissimo, Bernhard vi contrae, per via dell’umidità della bottega dove è impiegato, quella tubercolosi che lo porterà a vivere per mesi in sanatorio e che, in generale, minerà la sua salute per sempre. Salisburgo vuole essere elegante e invece è goffa, i muri del centro luccicano sul lato della strada e crollano nei cortili, vi si conducono vite lubriche, vi si fanno affari poco chiari e, soprattutto, vi si vive malissimo.

L’autobiografia di Thomas Bernhard raccontata da Nicola Lagioia: clicca qui per leggerla

 

Contro Pietroburgo

Molti scrittori del passato e del presente hanno odiato le città dove hanno vissuto. Con quest’odio hanno alimentato la propria immaginazione, e hanno ambientato i propri libri in vie, piazze, cortili e case verso le quali provavano livore, risentimento. Sembra un paradosso, ma non lo è: a volte i grandi autori hanno scelto – o sono stati costretti a scegliere – di vivere in posti che non amavano o che erano per loro il simbolo di una serie di difetti, vizi e idiozie che sono poi finiti nelle loro opere. Prendete Dostoevskij, forse tra gli scrittori moderni il paradigma dell’artista che vive in conflitto con il proprio mondo. Considerava Pietroburgo “una città putrida, scivolosa” e la definì “la città più astratta e premeditata del mondo”: che significa? Significa che Pietroburgo non è, o non sembra, una città vera: sorta nel 1703 per volere dello zar Pietro, che desiderava spostare la capitale lontano da Mosca costruendo una città “all’occidentale” in un luogo che fosse il più vicino possibile all’Europa, Pietroburgo è stata edificata su una palude bonificata e il suo clima, ancora nell’Ottocento, è malsano: c’è umidità, nebbia, le sue vie sono scarsamente illuminate e alla sera diventano spettrali. È però il centro del potere e della cultura, e chiunque – come Dostoevskij – desideri trovarsi nel centro nevralgico del Paese deve andarci a vivere, sopportando le sue strade fangose, la sua aria poco russa, la povertà dilagante dei sobborghi.

I romanzi pietroburghesi di Dostoevskij, da Memorie dal sottosuolo a Delitto e castigo, sono popolati di folli, fantasmi, assassini idealisti, suicidi per scommessa o per procura, uomini piccoli travolti e schiacciati dai meccanismi del potere. È un’umanità sbagliata, quella che si aggira per Pietroburgo: guarda le vetrine luccicanti della Prospettiva Nevskij (la via principale della città) con rancore, vive nei sottotetti e stenta a trovare se stessa. Odia l’oscurità e la promiscuità delle corti, si perde nelle bettole e si ammala di tisi: è composta da prostitute, ubriachi, impiegati senza speranza, studenti privi di talento, usurai. E tuttavia Dostoevskij non sa e non può abbandonare Pietroburgo: la detesta, ma vi trova un campione di umanità che alimenterà a lungo la sua vena creativa. È noto che lo scrittore, che cambiò molte case in città, cercava sempre appartamenti d’angolo, in modo da poter avere sulla città, e sull’umanità che vi si muoveva, una visione costante e varia.

Clicca qui per leggere un articolo del premio Nobel Mario Vargas Llosa a proposito delle case in cui abitò Dostoevskij (da CorriereDellaSera.it)

 

Contro Milano

“I giardinetti! Inospiti lande steppose, e pur si millantano in un vezzeggiativo che al buon ragionare trasmette un’idea di abbindolamento, di chi sa mai quale insidia […]”.

Odia tutto ciò che ha a che fare i giardinetti, il protagonista di L’orrore dei giardinetti, splendido racconto di Michele Mari in un cui l’autore ripercorre le terribili sensazioni dell’infanzia, quando lo costringevano ad andare a giocare al parchetto con gli amici, nel centro di Milano. Gli altri bambini che giocano meglio di lui, le mamme che chiacchierano e lavorano a maglia e tengono i figli sott’occhio, i baracchini che vendono le merendine, la fontanella d’ottone da cui bere senza appoggiarvi le labbra e, soprattutto, l’obbligo di divertirsi quando invece si vorrebbe essere da tutt’altra parte e fare tutt’altro: Milano è la città che ha rovinato l’infanzia del protagonista di molti libri e racconti di Michele Mari: solitario, taciturno, goloso di letture e d’immaginazione, il bambino di questi racconti si trova a dover vivere una vita che non gli appartiene, a condividere con gli altri ciò che non vuole condividere. La città incombe su di lui grigia, ricca, piena di distrazioni e occasioni che il bambino non vuole cogliere perché ha già un suo mondo tutto interiore che si autoalimenta. E allora, via da Milano! I momenti più felici dell’infanzia sono nell’altra casa, quella dei nonni in campagna: lì, senza gli altri, ci si può davvero allenare a costruire mondi.

Clicca qui per vedere un’intervista a Michele Mari

Milano è una città che spesso i suoi scrittori hanno condannato: Giovanni Testori, uno dei più grandi (e feroci) cantori della città lombarda, l’ha sempre raccontata guardandola dalle periferie, dai bassifondi. Mentre, dagli anni Sessanta in poi, Milano conosceva una grande stagione di prosperità, con flussi di denaro sempre più ingenti e nuove mode e tendenze che prendevano vita nei suoi salotti, Testori ne raccontava l’altra faccia, quella dei tossici, dei disperati, degli sfruttati. Fino a quello che probabilmente è il culmine di un percorso e di uno sguardo impietoso dietro il velo delle luci e degli aperitivi: In Exitu. Prima romanzo, e poi rappresentazione teatrale, In Exitu racconta la parabola di un tossicomane all’ultimo stadio: il 13 settembre 1988, nel pieno degli anni della “Milano da bere”, i viaggiatori che transitavano presso la Stazione Centrale furono sorpresi nel vedere un uomo – l’attore Franco Branciaroli – ai piedi della scalinata ovest che, vestito male, in stato confusionale, confessava i propri peccati e la sua vita dissipata in un lungo monologo terminale: era il delirio di uno sconfitto, un drogato prossimo alla morte che, senza aver più niente da perdere, mostrava al mondo il lato disperato e perduto di quella che allora era considerata la “capitale morale” d’Italia, e che invece, per Testori, si era persa dietro al denaro, all’edonismo e alla crudeltà.

Clicca qui per vedere In Exitu in una produzione recente del teatro Out-Off (dal canale You Tube del Teatro OUTOFF)
Crediti immagini: Apertura: Ex Innocenti, a Milano. Di Elena Gatti su flickr. Link Box: Panorama di Salisburgo. Di Roberto Ferrari su flickr. Link
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