Facciamo un gioco che viene da lontano: si chiama Questionario di Proust, è nato alla fine del XIX secolo ed è passato alla storia perché, appunto, una delle persone più note a giocarvi fu il grande scrittore francese Marcel Proust, che lo compilò almeno due volte a distanza di anni, dando risposte differenti – per esempio: alla domanda Quali sono i tuoi autori preferiti in prosa?, rispose, la prima volta, George Sand e Augustin Thierry (che è stato uno storico); la seconda, Anatole France e Pierre Loti.
Tra una risposta e l’altra era passata una ventina d’anni; Proust, che era nato nel 1871 e, dunque, alla fine dell’Ottocento non aveva ancora compiuto 30 anni, ne aveva quasi 50 quando rifece il questionario. Era un uomo maturo, che aveva ormai concepito e in gran parte scritto una delle opere più grandi e complesse della letteratura universale, Alla ricerca del tempo perduto, e i suoi gusti erano cambiati: aveva trascorso oltre quindici anni dentro la Ricerca, opera divisa in sette volumi per un totale di oltre tremila pagine, a cui aveva dato inizio nel 1906 e che corresse, riscrisse e reimmaginò fino a poche settimane prima di morire nel novembre del 1922. Nel corso dei sette romanzi, il narratore, che porta lo stesso nome di Proust e che a lui assomiglia, benché l’opera non sia un’autobiografia, racconta la propria vita a partire dall’infanzia fino al momento, nell’età adulta, in cui diventa scrittore (e comincia a scrivere un enorme e composito libro che si chiamerà Alla ricerca del tempo perduto...): in mezzo, passano amori, pranzi, passioni, desideri e soprattutto ricordi, o meglio, la memoria – che, con il tempo, è il vero tema del romanzo –, che affiora attraverso piccoli segni, oggetti, cose minime. Solo grazie alla memoria gli esseri umani possono cogliere le trasformazioni, i cambiamenti di prospettiva delle loro vite e delle vite di coloro che hanno avuto un ruolo piccolo o grande nella loro esperienza. Per raccontare tutto ciò, Proust adotta un metodo che, all’epoca, era nuovo e perciò non tutti capirono: egli descrive tutto ciò che il protagonista vede o ricorda filtrandolo attraverso i suoi ricordi, le sue emozioni e le opinioni: è come se tutto si basasse su un tempo interiore, personalissimo, che è di Marcel e solo di Marcel; soprattutto, egli costruisce frasi lunghissime, piene di virgole e di subordinate, dove a volte addirittura non è immediato trovare il soggetto. Facciamo un esempio, tratto dal primo dei sette volumi, Dalla parte di Swann:
«E come l’imenottero studiato da Fabre, la vespa scarificatrice, che per assicurare ai piccoli dopo la sua morte della carne fresca da mangiare, chiama l’anatomia in aiuto della crudeltà e, catturato qualche ragno o punteruolo, gli trafigge con una sapienza e un’abilità meravigliosa il centro nervoso da cui dipende il movimento delle zampe, ma non le altre funzioni vitali, in modo che l’insetto paralizzato, accanto al quale depone le proprie uova, fornisca alle larve quando si schiuderanno una preda docile e inoffensiva incapace di fuga o di resistenza ma non ancora frollata, Françoise escogitava, per assecondare la sua pervicace volontà di rendere la casa insostenibile da parte di qualsiasi domestico, degli accorgimenti così sottili e così spietati che parecchi anni dopo scoprimmo che, se quell’estate avevamo mangiato asparagi quasi quotidianamente, era stato perché il loro odore provocava alla povera sguattera incaricata di pulirli delle crisi d’asma d’una violenza tale che alla fine fu costretta ad andarsene».
È una frase bellissima e crudele, e se la leggete ad alta voce vi toglie il fiato: sono in tutto 1.025 caratteri. Il soggetto, Françoise, arriva dopo la metà della frase. Di fatto, si tratta di una lunga, meravigliosa similitudine.
https://aulalettere.scuola.zanichelli.it/sezioni-lettere/le-figure-retoriche-lettere/lamore-la-similitudine-e-il-nutrimento
Ma perché Proust scrive così? Perché questa prosa stupenda e ipnotica rimanda al flusso continuo, a volte inarrestabile, dei ricordi e delle associazioni mentali che ciascuno di noi fa mentre ripensa a ciò che è stato. Questo modo di descrivere la crudeltà e il sadismo di Françoise è proprio di Marcel, del narratore, che mentre ricorda si perde e si ritrova, cerca immagini, lascia che alla sua mente riaffiorino ricordi a cui fino a poco prima non aveva pensato. Per lasciar posto a tutto questo, Proust ha bisogno di frasi che vadano a un ritmo diverso rispetto a tutto ciò che si è scritto prima di lui: ha bisogno di cambiare paradigma e di dare una nuova prospettiva stilistica alla creazione letteraria.
Ma eravamo partiti da un gioco, il questionario che da Proust prende il nome. E lì ora torniamo. Che cos’è, in fondo? È una lista di domande piuttosto personali, il cui scopo è rivelare il carattere e le inclinazioni di chi risponde.
Come vedete, le domande hanno a che vedere con i gusti (per esempio, quali sono i poeti, i pittori e musicisti preferiti), ma anche con i tratti del carattere e i desideri; nel corso del tempo le domande sono cambiate, e di fatto oggi il questionario è piuttosto libero, anche se mantiene alcune delle sue caratteristiche fondamentali. La scrittrice italiana Ilaria Gaspari vi ha dedicato un podcast, Chez Proust, e nel presentarlo ha sottolineato un fattore curioso e importante: rispondere al questionario non significa fornire un autoritratto definitivo e immutabile, ma piuttosto una fotografia, un’istantanea di un particolare momento della propria vita. È per questo che le risposte che Proust fornì a distanza di anni sono molto cambiate, perché cambiamo noi e cambiano le nostre opinioni, i nostri gusti e le prospettive e i punti di vista da cui osserviamo il mondo.
Una strada che contiene tutto
Così sono andato a curiosare in alcuni Questionari e ne ho trovato uno molto interessante: quello di Salman Rushdie, scrittore anglo-indiano con una storia personale drammatica e incredibile. Rushdie ha scritto almeno uno dei grandi romanzi di lingua inglese del Novecento, I figli della mezzanotte (1981), ma nel mondo è famoso anche tra chi non legge per via di un caso che gli scoppiò intorno. Era il 1988, e Rushdie pubblicò un romanzo, I versi satanici, che conteneva alcune pagine su Maometto; l’ayatollah iraniano Khomeyni ritenne che alcuni passi fossero blasfemi e lanciò una fatwa contro l’autore.
Per anni, Rushdie visse sotto scorta in condizioni di semiclandestinità, cambiando spesso abitazione e sotto la continua minaccia di attentati; poi, a poco a poco, la situazione sembrò calmarsi, tanto che il suo libro autobiografico Joseph Anton (2012) è scritto da un uomo che sembra essere uscito dalla persecuzione: non ha più la scorta, non gira più con l’auto blindata e parla da uomo libero. Il 12 agosto del 2022, però, durante una conferenza pubblica in una cittadina vicina a New York, un uomo saltò all’improvviso sul palco e accoltellò lo scrittore, che è stato a lungo tra la vita e la morte, ha perso l’occhio destro e ha avuto altri traumi fisici permanenti, ma è infine tornato a scrivere.
Ebbene, nel 1996, otto anni dopo la fatwa, Rushdie rispose alle domande del Questionario dicendo cose molto divertenti. Gli chiesero, per esempio: Quando e dove sei stato più felice? Rispose: Adesso, qui; la domanda successiva fu: In quali occasioni menti? Rispose: Adesso.
Gli chiesero: Se potessi reincarnarti in una persona o una cosa, quale sarebbe? Rispose: Una strada di una città, che è una cosa stranissima e bellissima, perché una via di una città, come un libro, contiene tutto il mondo.
Tornare a casa, ricordare
La stessa cosa – che un libro contiene tutto il mondo – deve averla pensata, all’inizio degli anni Novanta, lo scrittore trinidadiano V.S. Naipaul, quando scrisse uno dei suoi libri più importanti, Una via nel mondo (ma il titolo italiano non tragga in inganno: l’originale è A Way in the World, quel via va inteso come “modo” – trovare il proprio modo, la propria strada). Strano libro, questo, e non per il titolo, ma per il suo andamento proustiano. L’autore, che da tempo non vive più nell’isola caraibica dove è nato, vi fa ritorno “da turista”: non riconosce i suoni, i volti, e molte cose sembrano appartenere a una dimensione che ormai gli è estranea. Ascoltate:
«Quasi tutti noi sappiamo chi sono i nostri genitori e i nostri nonni. Ma risaliamo a un tempo molto, molto più antico, noi, si potrebbe andare indietro nel tempo all’infinito; risaliamo tutti quanti proprio agli inizi: nel nostro sangue, nelle nostre ossa, nel nostro cervello portiamo i ricordi di migliaia di esseri. (...) Non possiamo capire tutti i tratti che abbiamo ereditato. A volte possiamo essere estranei a noi stessi».
Ecco, il libro, che non è propriamente un romanzo e non è un’autobiografia, è il tentativo, splendidamente riuscito, di compiere questa risalita: così, se Una via nel mondo comincia con delle note personali, nel proseguo si amplia e racconta decine di storie altrui, si fa memoria non solo personale ma collettiva, ricostruisce un tempo che è perduto per via dell’emigrazione, e gioca andando avanti e indietro nel tempo. Come accadeva in Proust, la ricostruzione di ciò che è stato si compie attraverso brandelli di memoria, piccole cose, associazioni di idee e percezioni, momenti del presente e del passato che si intrecciano e si confondono l’uno con l’altro.
Naipaul era un grande lettore di Marcel Proust: lo amava così tanto che lo citò molte volte nel discorso che fece quando, a Stoccolma nel 2001, ricevette il Premio Nobel per la Letteratura. Ho cercato a lungo, in rete, se avesse compilato, almeno una volta, il Questionario: non ho trovato nulla, eppure sono certo che, almeno una volta, magari in forma privata, si sia divertito a cercare delle risposte.
Crediti immagine: la classe 1888-89 di filosofia al Liceo Condorcet di Parigi. Il primo a sinistra in seconda fila è Marcel Proust (crediti: Wikipedia)