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L’allusione, ovvero dello strizzare l’occhio a chi ci ascolta

L’allusione è una figura retorica che necessita la complicità di chi legge per “dare a intendere” qualcosa senza nominarla.

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«La gente che per li sepolcri giace
potrebbesi veder? Già son levati
tutt'i coperchi, e nessun guardia face.»
Dante Alighieri, Inferno, Canto X, 7-9

Ormai l’avrete capito: ogni volta che usiamo le parole attribuendo loro un significato un po’ più ampio, o meno diretto, rispetto a quello letterale, usiamo degli artifici retorici. Ci capita di continuo, e nella maggior parte dei casi non ce ne rendiamo nemmeno conto. Per esempio, anche l’allusione è una figura retorica: alludere vuol dire “dare a intendere” qualcosa, senza ovviamente nominarla mai.

Ma perché funzioni, l’allusione ha bisogno che chi ci legge o ascolta ci conosca bene e conosca bene l’argomento di cui stiamo parlando e il contesto in cui ci muoviamo. Deve essere nostro complice, insomma, e deve cogliere la nostra strizzatina d’occhi, altrimenti tutta la costruzione retorica non sta in piedi.

Facciamo un esempio, anzi, l’abbiamo già fatto: sono i tre versi danteschi messi in esergo a questo pezzo. Siamo nel Canto X dell’Inferno, qui spasimano atei ed epicurei, ovvero coloro che non hanno creduto nell’immortalità dell’anima. In questi versi, Dante chiede se può vedere i dannati che giacciono nelle loro tombe, ma per Virgilio (e per noi che leggiamo) l’allusione è palese: Dante vuol vedere Farinata degli Uberti – ne aveva già parlato nel Canto VI, è come se fosse un argomento in sospeso. Arrivati nel posto dove è evidente che giace Farinata, Dante chiede di vederlo, ma lo fa in modo indiretto. Virgilio capisce la richiesta, perché conosce già un po’ il desiderio di Dante. Così, poco più sotto (vv. 16-18) può rispondere, con complicità:

«Però a la dimanda che mi faci
quinc’entro satisfatto sarà tosto,
e al disio ancor che tu mi taci». 


Crediti immagine: jorisvo / Shutterstock

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