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L’epistrofe o epifora, ovvero l’anafora in fondo alla frase

L’epistrofe o epifora è la figura retorica che si forma posizionando la stessa parola alla fine di un verso o di una frase.

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[...]

Più sordo e più fioco
s’allenta, si spegne.
Solo una nota
ancor trema, si spegne.
risorge, trema, si spegne.
[...]

(Gabriele D’Annunzio, La pioggia nel pineto, 1902)

Ve la ricordate l’anafora? Avevamo detto che è una figura dell’insistenza, perché mette sempre la stessa parola all’inizio di un verso o di una frase. Ecco, l’epifora (o epistrofe) è una figura che le è speculare, perché mette sempre la stessa parola alla fine di un verso o di una frase – come quel “si spegne” che, con insistenza, chiude quei tre versi di D’Annunzio.

Se andate a messa, ogni volta che seguite una litania e dite «Prega per noi» o, in un altro momento della funzione, ripetete «Kyrie eleison», state inconsapevolmente facendo un’epifora.

Esistono combinazioni di versi, o procedimenti retorici, che combinano anafore e epifore: in questo caso parliamo di simploche. A volte le simplochi sono perfette, nel senso che le parole con cui la frase inizia e finisce sono le stesse; a volte invece sono imperfette, perché contengono piccole variazioni o usano dei sinonimi. Per esempio, Tasso, nel terzo canto della Gerusalemme liberata, fa una simploche imperfetta:

ecco apparir Gierusalem si vede,
ecco additar Gierusalem si scorge.


(Crediti immagine: Pixabay)

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