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Una nuova figura retorica, una figura che si chiama anadiplosi

L’anadiplosi è una figura retorica che usiamo spesso non solo in poesia, ma anche nel linguaggio comune: per recuperare il filo del discorso, ribadire un concetto, sottolineare un’immagine o renderla più evocativa.
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Non sa più nulla, è alto sulle ali il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna. Per questo qualcuno stanotte mi toccava la spalla mormorando di pregar per l’Europa mentre la Nuova Armada si presentava alle coste di Francia. Ho risposto nel sonno: “È il vento,  il vento che fa musiche bizzarre. Ma se tu fossi davvero il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna prega tu se lo puoi, io sono morto alla guerra e alla pace. Questa è la musica ora: delle tende che sbattono sui pali. Non è musica d’angeli, è la mia sola musica e mi basta”. Vittorio Sereni, da Diario d’Algeria, 1944 Ha anche un nome latino, l’anadiplosi, un nome che rende molto chiaro il significato di questa figura retorica: reduplicatio. La reduplicatio avviene quando, in un discorso, ripetiamo l’ultima parte, o l’ultima parola, della frase precedente. Nella poesia di Sereni è espressa chiaramente: quel vento, che abbiamo messo in corsivo, non ha motivo apparente di comparire due volte. Ma Sereni vuole sottolinearne la presenza, e quindi ripete la parola, ce la mette davanti due volte affinché non ce ne dimentichiamo più. Insomma: l’anadiplosi è un modo per ribadire un concetto, sottolineare un’immagine e renderla più evocativa. Ma non solo. Immaginate di togliere il “secondo” vento: Ho risposto nel sonno: “È il vento che fa musiche bizzarre. Al di là del fatto che, così facendo, rompiamo il metro della poesia, che è fatta di endecasillabi e settenari, non vi pare che questi due versi abbiano meno forza, siano meno belli? A volte usiamo l’anadiplosi senza rendercene conto: quando abbiamo bisogno di recuperare il filo del discorso. Nel suo Manuale di retorica, Bice Mortara Garavelli riporta un esempio tratto da Una pietra sopra di Italo Calvino: [la satira] non esclude […] una forte parte d’ambivalenza, cioè la mescolanza d’attrazione e ripulsione che anima ogni vero satirico verso l’oggetto della sua satira. Ambivalenza che se contribuisce a dare alla satira… Cosa fa qui Calvino? Sta parlando dell’ambivalenza della satira ma, dopo aver scritto la parola ambivalenza per la prima volta, la spiega, e spiegandola si allontana dal cuore del discorso. Così mette un punto e, subito dopo, riscrive la parola che è al centro dei suoi pensieri. È come se dicesse: «Lettore, forse ti eri perso dietro la mia spiegazione, e invece io voglio che tu rimanga concentrato sul concetto di ambivalenza. Eccolo di nuovo!» A volte, per fare un’anadiplosi, non serve ripetere esattamente la parola o il segmento di frase: basta un sinonimo o un termine vicino. Guardate qui: «Ho girato l’interruttore e all’improvviso una luce, un bagliore accecante mi ha ferito gli occhi». Luce e bagliore accecante non sono la stessa cosa, anzi: il bagliore accecante aggiunge significato, crea i presupposti perché gli occhi vengano “feriti”. Ma è comunque un’anadiplosi, perché riprende, specifica, sottolinea e dà ritmo al discorso.   Crediti immagini Apertura: Flickr Box: Vittorio Sereni (Wikimedia Commons)
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