Aula di Lettere

Aula di Lettere

Percorsi nel mondo umanistico

Sezioni
Accad(d)e che
Come te lo spiego
Interventi d'autore
Il passato ci parla
Sentieri di parole
Nuovo Cinema Paini
Storia di oggi
Le figure retoriche
Gli antichi e noi
Idee didattiche digitali
Le parole dei media
Dall'archivio
Tutti i temi del mese
Materie
Italiano
Lettere classiche
Storia e Geografia
Filosofia
Storia dell'arte
Scienze umane
Podcast
Chi siamo
Cerca
Italiano

Verso l’inclusività linguistica e oltre

Vera Gheno, dopo aver definito cosa sia il "sessismo linguistico" ed esplicato l'importanza delle parole e del modo in cui le usiamo, ci spiega come utilizzare il linguaggio come mezzo efficace per mettere in pratica la necessità di "convivenza delle differenze".
leggi

1. Che cos'è il sessismo linguistico

Lo Zingarelli 2021 definisce il sessismo come «tendenza per cui, nella vita sociale, la valutazione delle capacità intrinseche delle persone viene fatta in base al sesso, discriminando specialmente quello femminile rispetto a quello maschile». L’italiano mutua questo termine dal francese sexisme, termine derivato da sexe ‘sesso’; la sua prima attestazione italiana risale al 1974. Come esplicita il dizionario, normalmente è il sesso femminile a venire discriminato rispetto a quello maschile; tuttavia, la definizione non esclude né che sia il sesso maschile a essere discriminato né che esistano altre combinazioni discriminatorie, allargando il campo anche alle persone non binarie, cioè che non si riconoscono nel genere maschile e femminile. Il sessismo linguistico è la manifestazione linguistica della mentalità, dei comportamenti sociali, dei giudizi e pregiudizi culturali venati di (o viziati da) sessismo. È bene chiarire che una lingua come l’italiano di per sé non è definibile sessista: può esserlo, invece, l’uso che ne facciamo. Il sessismo non sta nelle strutture e nei meccanismi linguistici, ma nelle nostre scelte di parlanti. In linea di massima, le grandi lingue di cultura – tra le quali rientra anche la nostra – contengono gli strumenti linguistici necessari per un uso non sessista; e laddove tali soluzioni non ci fossero, è possibile che con il tempo vengano implementate: in fondo, le lingue che parliamo variano al variare delle nostre esigenze di parlanti.  

2. Perché oggi si parla così tanto di sessismo linguistico

La discussione su un uso non sessista dell’italiano prende il suo avvio in maniera strutturata con il saggio Il sessismo nella lingua italiana di Alma Sabatini, pubblicato nel 1987. Dunque, la questione non è nuova né inedita. Piuttosto, per lunghi anni si è svolta soprattutto nei consessi della politica, del femminismo, dell’attivismo LGBTQ+: là, insomma, dove si guardava alla questione di genere con un occhio di riguardo. Ciò che è cambiato profondamente, da alcuni anni a questa parte, è il sistema dei mezzi di comunicazione, che da mezzi di comunicazione di massa sono diventati anche mezzi di comunicazione della massa: se, fino a non molti anni fa, avevamo poche persone con la possibilità di comunicare pubblicamente da una parte e lettori e ascoltatori dall’altra, adesso, principalmente grazie all’avvento dei social network, ognuno ha modo, almeno teoricamente, di essere contemporaneamente emittente e fruitore della comunicazione. I nuovi media (che tanto nuovi, ormai, non sono, avendo a conti fatti una trentina di anni) hanno dato a ogni persona la possibilità di partecipare attivamente al dibattito pubblico. Tale dibattito, dunque, si è aperto a tutti, con tutte le conseguenze del caso, compresa la sensazione di un certo caos comunicativo.  

3. Perché le parole sono importanti

La competenza linguistica è centrale all’essere umano: siamo gli unici animali ad averla, e questo di permette di fare una serie di operazioni che sono nostro esclusivo appannaggio. In particolare, abbiamo la possibilità di raccontare e di raccontarci: di parlare del passato e del futuro oltre che del presente, di concettualizzare la realtà nominandola, rendendo di conseguenza trasmissibile il nostro sapere, ma non solo; in contemporanea, «disseminate in tutte le pieghe del nostro discorso, spie più o meno minute danno in continuazione al nostro ascoltatore informazioni su chi siamo, che cosa crediamo di essere, perfino che cosa vorremmo essere», come scrive il sociolinguista Giorgio Cardona: dunque, le parole sono un importante atto identitario, sia a livello del singolo, come illustrano le righe precedenti, sia a livello collettivo, perché tramite il riconoscimento linguistico reciproco individuiamo i confini delle nostre “tribù” di appartenenza. Dunque, le parole non sono mai “solo parole”.  

4. Cosa sono i pregiudizi e gli stereotipi e come si manifestano nella lingua

Torniamo al dizionario. Pregiudizio, dal latino praeiudĭciu(m), composto di prae- ‘pre-’ e iudĭcium ‘giudizio’ (1276) è «idea od opinione precostituita, anteriore alla diretta conoscenza di determinati fatti o persone, fondata su convinzioni tradizionali e comuni ai più». Si noti che la definizione è meno negativa di quanto si potesse pensare: sottolinea, più che altro, l’anteriorità del pregiudizio rispetto alla conoscenza. Potremmo paragonare il pregiudizio a una sorta di reazione istintiva, non ponderata, che talvolta – ma non sempre – può portarci fuori strada, mentre in altri casi è quasi indispensabile per non ripartire da zero nel processo cognitivo. Stereotipo, invece, deriva dal francese stéréotype, neologismo coniato dal tipografo Firmin Didot per indicare il metodo di stampa da lui brevettato nel 1795, componendolo dalle parole greche stereos ‘duro, rigido’ e typos ‘impressione’; oggi significa «percezione o concetto relativamente rigido ed eccessivamente semplificato o distorto di un aspetto della realtà, in particolare di persone o di gruppi social».   I pregiudizi possono diventare stereotipi, che a loro volta si manifestano nella comunicazione sotto forma di stereotipi linguistici, «quelle espressioni proverbiali o singole parole nelle quali si riflettono pregiudizi e opinioni, spesso negative, su gruppi sociali, professionali, etnici». Stiamo parlando sotto la spinta di uno stereotipo quando attribuiamo a una persona una certa caratteristica perché nata in un certo posto (i napoletani sono furbi) o perché appartenente a una certa etnia (i neri hanno il ritmo nel sangue) o a un genere (le donne sono isteriche) e così via: compiamo, cioè, una generalizzazione non solo indebita, ma spesso falsa sin dalle premesse. Sono stereotipi anche molti proverbi (chi dice donna dice danno), e perfino i ruoli attesi dalle persone appartenenti a un genere rispetto a un altro (il papà lavora al computer mentre la mamma accudisce i suoi figli); al di là dei singoli esempi, occorre rendersi conto che la stereotipia normalmente cerca di “incasellare” in maniera rigida la realtà finendo per stigmatizzare tutto ciò che è percepito come deviante da una supposta “normalità”: la donna, se l’uomo è la norma, i giovani e gli anziani, se la norma è la mezza età, le disabilità se la norma è l’abilità, i neuroatipici se la norma è la neurotipicità, l’omosessualità se la norma è l’eterosessualità, l’essere transgender se la norma è essere cisgender (ossia riconoscersi nel genere assegnato a una persona alla nascita), eccetera.  

5. Come superare gli stereotipi

L’importante, prima di tutto, è rendersi conto che spesso partiamo dai pregiudizi e agiamo riproducendo degli stereotipi, e che questo è normale, ma che dobbiamo cercare di non rimanervi incastrati: in alcuni casi possiamo usarli come punto di partenza della nostra riflessione, in altri dovremmo lasciarceli alle spalle senza rimpianti perché limitano il nostro pensiero, la nostra visione del mondo. I pregiudizi e la stereotipia non ledono solo un gruppo specifico di persone, ma vanno a detrimento della società nel suo complesso, perché non le permettono di evolversi in modo da comprendere tutte le infinite diversità dell’essere umano: condizione, questa, essenziale per arrivare a una società inclusiva o meglio, per usare una definizione coniata da Fabrizio Acanfora, di convivenza delle differenze. Acanfora, infatti, osserva che inclusività presuppone che ci sia qualcuno che include e qualcuno che viene incluso: questo termine, insomma, concorre a riprodurre uno squilibrio tra i “normali” e chi, invece, deve essere in qualche modo “tollerato”. L’inclusività dunque rischia di divenire un atto caritatevole, paternalistico, e non un vero superamento del paradigma normalizzante. La nostra società, dunque, ha bisogno di un salto di qualità ulteriore.  

6. Che cos'è il linguaggio di convivenza delle differenze e a cosa serve

La realtà nella quale viviamo oggi è infinitamente più complessa di una volta: la globalizzazione, le migrazioni, internet stessa ci mettono costantemente a contatto con la diversità altrui. Poiché noi esseri umani abbiamo, come tutti gli animali, timore di ciò che non conosciamo bene (siamo istintivamente xenofobi nel senso etimologico della parola: spaventati dall’alterità), dobbiamo lavorare per oltrepassare questa fase istintiva nell’approccio con chi percepiamo diverso da noi. Per esempio, ricordandoci che noi siamo altrettanto diversi agli occhi degli altri quanto gli altri lo sono ai nostri occhi, superando in questo modo l’idea che ci sia una normalità da difendere da ciò che ne devia. Siccome le parole ci servono per comprendere il mondo, se le impieghiamo con maggiore attenzione facciamo sì che anche parti della società che prima erano per così dire seminascoste, magari perché non venivano nemmeno nominate, possano essere viste meglio. Il linguaggio, dunque, è un mezzo efficace per mettere in pratica questa necessità di convivenza delle differenze, perché nominando correttamente tali differenze non solo le vediamo meglio, ma ci abituiamo alla loro presenza, che diventa esperienza quotidiana e naturale. A titolo di esempio, alcune aree sulle quali si può agire con un po’ di attenzione sono:
  • nominare al femminile le donne nei loro ruoli professionali;
  • evitare di riprodurre in testi, disegni, esempi d’uso stereotipi di genere, culturali, etnici, religiosi;
  • parlare delle disabilità e delle neurodiversità senza pietismo e senza appiattire le persone su quelle loro caratteristiche;
  • cercare di tenere conto delle sensibilità altrui parlando e scrivendo (ad esempio, se è vero che definiamo portoghese una persona che non paga il biglietto su un mezzo pubblico, dobbiamo renderci conto che un portoghese potrebbe venire offeso dall’uso derogatorio dell’aggettivo riferito alla sua nazionalità. Sulla varietà delle parole potenzialmente offensive esistenti in italiano, si consiglia la lettura dell'articolo di Tullio De Mauro citato in bibliografia).
Questi sono solo alcuni esempi, riassumibili in un’operazione preliminare importantissima: dobbiamo tutti abituarci all’ascolto reciproco (su questo, rinvio agli scritti di Federico Faloppa); a dare meno cose per scontate, a tenere la mente aperta nei confronti di chi abbiamo attorno. Altrimenti, ogni atto linguistico non potrà che essere un puro atto performativo, privo di quello spirito generativo che invece dovrebbe sostenerci in questa ricerca di una pacifica convivenza reciproca tra le diversità.   Per approfondire: Illustrazione nel banner: Fernando Cobelo Immagine del box: foto di Claudio Dutto

Devi completare il CAPTCHA per poter pubblicare il tuo commento